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CAPITOLO 2

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Ero malato, e non siete venuti a visitarmi

(Vangelo secondo Marco 6, 56)

Alla vista dell’ennesima fumata nera, il Camerlengo non poté trattenersi dallo sbuffare. Dopo la morte di Leone X, al secolo Giovanni De’ Medici, era ormai oltre un mese che i Cardinali erano riuniti in conclave, rinchiusi nelle stanze in cui solo lui poteva avere libertà di entrare e uscire come voleva. Fatto sta che, proprio in virtù di questo suo privilegio, aveva ben capito che gli alti prelati non avevano alcuna intenzione di eleggere il nuovo Papa, se prima non avessero risolto tra loro le questioni riguardanti la spartizione di terre e feudi. Il Vescovo di Firenze poi, il Cardinale Giulio De’ Medici, non era affatto convinto che la morte del suo congiunto fosse avvenuta per cause naturali, e si lanciava in lunghe e prolisse discussioni sui suoi sospetti nei confronti di un ipotetico avvelenamento del defunto Papa e sui probabili responsabili del complotto. Il tutto per cercare di convincere la maggioranza dei colleghi a votare per lui come nuovo pontefice. E così, tra una votazione e l’altra, tra una fumata nera e l’altra, trascorrevano non alcune ore, ma a volte anche più di un’intera giornata.

Quando vedeva la fumata, il Camerlengo disponeva il tutto perché i Cardinali venissero adeguatamente rifocillati. Inviava i servi a imbandire riccamente una tavola in un ampio salone vuoto e, quando tutto era pronto, cacciava via i servi e apriva la porta che dava nelle stanze dove aveva luogo il Conclave. Nessuno infatti, se non lui, poteva interloquire con i Cardinali, onde essi non fossero in nessun modo influenzati riguardo le loro scelte.

Innocenzo Cybo era stato subito nominato camerlengo alla morte di Leone X, in quanto era il suo braccio destro, colui che gli era stato più vicino e che sapeva bene come amministrare lo Stato della Chiesa in quel periodo di vacanza della massima autorità. Aveva visto giungere le solite facce note, Cardinali di cui conosceva vita, morte e miracoli, vizi, virtù e ambizioni. Si era reso subito conto dell’assenza di un’importante figura, il Cardinale Artemio Baldeschi di Jesi. Qualcuno gli aveva poi riferito che il Cardinal Baldeschi era morto in circostanze tragiche, forse in seguito alla colluttazione con una servetta del suo palazzo.

Una cosa inaudita, tocca sentirne di tutti i colori al giorno d’oggi , aveva pensato tra sé e sé Innocenzo. Una volta le servette offrivano i loro giovani corpi al proprio Signore e zitte. Oggi hanno persino la sfrontatezza di ribellarsi! Certo, se il Baldeschi non c’è più, Jesi e il suo contado sono un’appetibile terra di conquista per molti dei qui presenti.

E in effetti, la questione dell’assegnazione della Curia vescovile di Jesi fu una delle prime che dovette affrontare il Camerlengo come sostituto del Papa. Decise che la cosa migliore fosse quella di nominare un Cardinale che non avrebbe partecipato al conclave, così sarebbe potuto partire subito per quelle terre travagliate da anni di lotte, guerre, tradimenti e malgoverno, che avevano portato la popolazione, soprattutto nelle campagne, a uno stato di miseria notevole e dove, ultimamente, sembrava si stesse diffondendo anche quel morbo terribile conosciuto col nome di peste. La scelta cadde sul Cardinale Jacobacci, che partì subito da Roma, ma che, giunto dalle parti di Orvieto, sua terra di origine, vi si fermò per godere un periodo di riposo nei suoi luoghi natii, che forse si stava prolungando un po’ eccessivamente. Ma c’era chi diceva che il Cardinale avesse perso la testa per una fanciulla del luogo, e non se ne sarebbe partito da lì per nulla al mondo.

Gualtiero Jacobacci non aveva perso la testa per nessuna donzella, né giovane, né attempata che fosse. Si era soffermato ad ammirare la splendida facciata del Duomo, non ancora terminata, e aveva avuto nostalgia di quei luoghi, in cui aveva vissuto la sua infanzia. In vita sua non aveva mai visto la cattedrale libera dalle impalcature. Sapeva che la costruzione era stata avviata oltre duecento anni prima, ma ora i palchi erano rimasti solo sulla facciata per consentire agli artisti di portare a termine le raffinate decorazioni che l’avrebbero abbellita e resa famosa nei secoli a venire. Approfittò del fatto che la Curia vescovile era libera, in quanto il Cardinale Alessandro Cesarini, Vescovo di Anagni e Orvieto, era in ritiro obbligato a Roma per partecipare al conclave, e si fece ospitare dalla comunità ecclesiastica locale, iniziando anche a celebrare la Santa Messa all’interno dell’incompiuta cattedrale. Tutto aveva in mente, insomma, tranne che di raggiungere Jesi, la sede che gli era stata assegnata dal Camerlengo. La pacchia non sarebbe durata a lungo, in quanto prima o poi il nuovo Papa sarebbe stato eletto e il Cardinale Cesarini sarebbe rientrato in sede. Ma Gualtiero non voleva pensarci. Carpe diem, diceva tra sé e sé, facendo propria la citazione di Orazio. Cogliamo l’attimo e godiamoci questo bel periodo. Quando sarà il momento vedremo il da farsi! Magari, quando arriverà, potrei proporre ad Alessandro Cesarini uno scambio: io qua e lui a Jesi. Jesi, come tutta la Marca anconitana, è una sede ambita per un alto prelato. Le campagne sono ricche e la Chiesa vuole a tutti i costi riportare quei territori sotto la propria ala in maniera definitiva, dando un taglio ai vecchi retaggi di Comuni, Signorie e Nobiltà locale. Un ambizioso come Cesarini non saprà certo dire di no alla mia offerta. E io potrò godermi la vecchiaia nel mio paese d’origine.

Finalmente, dopo oltre un mese di fumate nere, il 9 gennaio 1522 dal camino uscì la fumata bianca. Il Camerlengo tirò il sospiro di sollievo e si precipitò all’interno dell’ala in cui si svolgeva il conclave per assolvere ai suoi doveri di rito. Gli sembrava che fosse passata un’eternità dal giorno in cui era morto Leone X. Lo aveva trovato proprio lui, riverso sul tavolo in cui stava mangiando. Aveva chiamato le guardie e aveva fatto ricomporre il corpo nel letto, poi aveva picchiato con un martelletto il cranio del Santo Padre, per assicurarsi che il corpo non rispondesse più con alcun riflesso, né volontario, né involontario che fosse. Quando gli arti, gambe e braccia, furono diventati rigidi, aveva provveduto a chiamare tre volte il Papa con il nome di battesimo: «Giovanni… Giovanni… Giovanni!». Non avendo ottenuto risposta, aveva provveduto a dichiarare ufficialmente morto il Santo Padre. Aveva fatto allestire la camera ardente e aveva organizzato il rito funebre, al termine del quale Papa Leone X avrebbe raggiunto i suoi predecessori, nei sotterranei della basilica eretta sopra la tomba di San Pietro. Dopo di che aveva convocato il Conclave, ma si era accorto che la sua posizione era ritenuta molto scomoda da parte di una certa fazione dei partecipanti al Conclave, quelli più vicini alla famiglia De’ Medici. Lui era stato sempre il Cardinale più vicino al Papa, ma notoriamente faceva parte della stessa famiglia di Giovan Battista Cybo, che aveva occupato il soglio pontificio fino al 1492 col nome di Innocenzo VIII. Le male lingue, dal momento che era lui responsabile della sicurezza del Papa e tutti i cibi che arrivavano sulla tavola del Santo Padre dovevano essere da lui approvati, avevano ventilato che lui stesso potesse essere il responsabile dell’inaspettata e prematura morte di Leone X. Poteva infatti avere benissimo avvelenato gli alimenti, con l’intento di aspirare al pontificato e riportare di nuovo alla massima carica un appartenente alla famiglia genovese. Innocenzo sapeva benissimo di essere innocente e di non aver perpetrato alcuna congiura ai danni del suo beneamato Papa. Giovanni De’ Medici soffriva di cuore fin da quando era ragazzo e, proprio per questo non si era dedicato mai alle armi. Quindi nessuno lo aveva avvelenato, aveva avuto un collasso ed era morto di morte naturale, anche se improvvisa. Il fatto di autonominarsi Camerlengo aveva in parte allontanato i sospetti da lui, in quanto non sarebbe stato eleggibile come Papa, ma non del tutto. Giulio De’ Medici e altri tre o quattro Cardinali continuavano a guardarlo in cagnesco, ma lui rispondeva a quelle provocazioni con la migliore delle difese: il silenzio. Certo, quei tre mesi non erano stati facili, ma era riuscito a non porgere mai il fianco ai suoi nemici. Non una parola era mai uscita dalla sua bocca, che accusasse il Medici di invidia o di arrivismo. Aveva continuato a fare il suo dovere come nulla fosse. Ma ora, mentre saliva le scale col fiato in gola, il timore che il nuovo eletto fosse proprio il Medici lo attanagliava. Di certo, questi avrebbe voluto in qualche modo vendicare la morte prematura del familiare. E già Innocenzo si immaginava con la testa appoggiata a un ceppo in attesa della scure che, con un colpo secco, l’avrebbe fatta volare via dal resto del suo corpo. Quando aprì la busta dove era scritto il nome del nuovo pontefice, tirò il secondo sospiro di sollievo nel giro di pochi minuti.

Il Camerlengo si affacciò al terrazzo che dava sul piazzale sottostante e gridò, con quanto fiato aveva in gola, rivolto ai fedeli assiepati in curiosa attesa:

« Nuntio vobis gaudium magnum! Habemus Papam, eminentissimum et reverendissimum dominum Adrianus Florentz, qui sibi imposuit nomen Adrianus sextus. »

Voci e acclamazioni si levarono dalla Piazza sottostante, in attesa che il nuovo Papa si facesse vedere e parlasse alla folla dei fedeli. Mentre Innocenzo aiutava il nuovo Papa a vestire i paramenti sacri di rito, nella sua mente i pensieri scorrevano veloci. Questo Adriano VI non durerà molto, prima che qualcuno della famiglia De’ Medici ci metta mano. Ma che duri un mese, un anno o un secolo, nessuno potrà più accusare me. Da domani Innocenzo Cybo se ne ritorna a Genova.

Come tutti gli altri, anche il Cardinale Alessandro Cesarini fece i bagagli per ritornare nella sua sede, a Orvieto. Giuntovi il quattro marzo dell’anno del Signore 1522, lì per lì rimase un po’ interdetto dal fatto che la sua sede vescovile fosse stata arbitrariamente occupata dal suo collega, ma all’udire la proposta di quest’ultimo quasi non riusciva a credere alle sue orecchie. Lui che avrebbe fatto carte false per avere la Curia Vescovile di Jesi, lasciata vacante dal Cardinal Baldeschi, se la vedeva offrire su un piatto d’argento da chi ne era stato prescelto come titolare, solo perché legato ai luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia. Incredibile, ma vero! Un’occasione di certo da non lasciarsi scappare. Suggellato il patto con lo Jacobacci, Alessandro Cesarini, desideroso comunque di riposarsi per qualche giorno, inviò un messaggero a Jesi, per preannunciare il suo arrivo e il suo insediamento alle autorità di quella città. Il messaggero giunse a Jesi solo il 12 Marzo, e il Consiglio Generale della Città, riunito per l’occasione nella Sala Maggiore del Palazzo del Governo e presieduto dal nobile Fiorano Santoni, prese atto della nomina – anche se il Cardinal Jacobacci sarebbe stato più gradito – e deliberò anche di riconoscere al Cesarini un vitalizio di 25 fiorini al mese. Tutto questo quando già il Cardinale era alle porte della città, per cui non si fece neanche in tempo a preparare una degna accoglienza al nuovo Vescovo, che si trovò a entrare in una città del tutto indifferente al suo arrivo. Il Cesarini non rimase deluso solo dell’accoglienza, ma anche e soprattutto del fatto di trovare città e contado in condizioni ben diverse da quello che si aspettava. Dopo il sacco subito dalla città nel 1517, erano seguiti alcuni anni di malgoverno da parte del Cardinal Baldeschi, che avevano ridotto la zona a condizioni di miseria mai viste a memoria d’uomo. Oltre ai danni e alle angherie che erano stati portati dagli eserciti invasori, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. E così il Cesarini, che aveva ancora molti interessi nella zona di Anagni e Orvieto, ben presto iniziò a passare gran parte del suo tempo lontano da Jesi, adducendo come scusa i suoi assillanti impegni ecclesiastici presso la sede Papale , e lasciando in sua vece aspri vicegovernatori, che sapevano solo essere crudeli e tiranni nei confronti della popolazione.

Lucia si era data da fare, e non poco, per portare conforto agli ammalati di peste. Il morbo era giunto a Jesi con una cassa di canapa, proveniente dai mercati dell’oriente, acquistata a prezzo stracciato al porto di Ancona da una famiglia di “cordari” Jesini. Alcune famiglie residenti nel borgo di Sant’Alò erano rinomate da tempo immemorabile per l’abilità e la cura con cui fabbricavano corde. Avevano un sistema tutto loro per ottenere dalla canapa grezza cordini e corde di tutte le lunghezze e calibri, che venivano vendute al mercato a prezzi concorrenziali rispetto a quelle fabbricate in altre zone d’Italia. Non appena Berardo Prosperi, il capofamiglia, aprì la cassa per verificare la qualità della canapa acquistata da suo figlio e suo nipote, fu aggredito dalle pulci, che finalmente libere cercarono il loro pasto di sangue, a scapito di molti componenti della comunità dei borgatari. Le case dei cordari erano costruzioni basse, che formavano una fila unica, una attaccata all’altra, al bordo di un ampio piazzale, detto “prato”, dove quegli artigiani lavoravano, essenzialmente all’aperto. Avevano infatti bisogno di ampi spazi, dove allungare le fibre di canapa e intrecciarle fino a farle diventare corde, con l’aiuto di strani marchingegni dall’aspetto di ruote.

Lì per lì nessuno fece caso alle punture degli insetti, ci si era abituati, ma dopo qualche giorno Berardo e alcuni altri uomini e donne della borgata caddero malati, in preda alla febbre alta, e con bubboni in varie parti del corpo, chi sulla schiena, chi dietro al collo, chi sulla pancia. Il morbo aveva fatto presto a diffondersi da una casa all’altra, tutte attaccate come erano, e poi si era propagato verso la campagna. Ma ben presto era arrivato a colpire anche famiglie residenti in città, all’interno della cinta muraria.

Lucia aveva appreso a suo tempo dalla nonna come cercare di curare i malati di peste. Aveva sentito dire che ad Ancona, dove il morbo si era diffuso in maniera esponenziale, chi se lo poteva permettere si faceva ricoverare e curare nel “Lazzaretto”. Ma secondo lei non era un’idea molto saggia concentrare le persone ammalate in un unico luogo. Era meglio tenere isolato il malato nella sua casa, per evitare che contagiasse a sua volta persone sane, prendendo le opportune precauzioni ci si doveva avvicinare a lui. Quando doveva entrare nella stanza di un ammalato, Lucia si copriva ben bene con vestiti pesanti, ma solo dopo essersi cosparsa tutto il corpo con un unguento a base di citronella, basilico, menta, mentrasto e timo. L’odore che emanava era quasi nauseabondo, ma era un ottimo rimedio per non farsi pungere da pulci e pidocchi che, chissà perché, infestavano sempre le dimore degli appestati. Con un fazzoletto di seta, copriva anche bocca e naso prima di avvicinarsi al malato, al fine di evitare di respirare gli umori cattivi da questi emessi. La prima cosa da fare era far spogliare il paziente per osservare quante pustole avesse addosso e quale fosse il loro aspetto. Se erano dure e scure, esse andavano spalmate con un unguento a base di olio canforato e ittiolo, al fine di farle ammorbidire e maturare. Le pustole dovevano infatti esplodere e far fuoriuscire il loro cattivo contenuto, chiamato dai medici con il termine di “pus”. La febbre andava invece combattuta con infusi a base di corteccia di salice e con l’applicazione di pezze bagnate sulla fronte del malato. Tutta la casa doveva essere purificata con fumigazioni ottenute dalla combustione di olio di canfora, in cui erano stati messi a macerare per alcuni giorni rametti di cipresso, buccia di melograno e cannella. Lucia sapeva bene che se l’ammalato presentava difficoltà a respirare era condannato a morte sicura. Tanto valeva chiamare un sacerdote per fargli impartire l’estrema unzione. Ma nessun religioso, primo fra tutti Padre Ignazio Amici, si prestava a portare i conforti di rito agli appestati. Avevano tutti troppo paura di rimanere contagiati a loro volta. Se invece le pustole, nel giro di alcuni giorni, di solito una settimana, si ammorbidivano e lasciavano fuoriuscire i cattivi umori, dando origine poi a cicatrici, il paziente poteva considerarsi fuori pericolo e si sarebbe avviato alla guarigione. Quando un malato di peste moriva, tutte le suppellettili, mobili, letto, coperte e tutto ciò che era venuto a contatto, direttamente o indirettamente, con la persona infetta, dovevano essere ammassati davanti alla sua dimora e dati alle fiamme. I cadaveri non potevano trovare sepoltura all’interno delle chiese, ma venivano portati in aperta campagna e seppelliti in profondità, sotto un ampio strato di terra, meglio se argillosa.

Lucia aveva così portato aiuto a centinaia di ammalati, sia in città, che nei borghi e nelle campagne e, grazie alle precauzioni da lei prese non si era mai contagiata. Si sentiva soddisfatta, ma stanca. Percorrendo a ritroso la Via di Terravecchia, dopo essere stata a visitare un ammalato dalle parti della chiesa di San Nicolò, era dovuta passare al largo da diverse abitazioni, davanti alle quali ardevano i falò purificatori. L’aria della giornata estiva, già di per sé carica di umidità, era resa ancor più pesante dal fumo che aleggiava sulla città e in parte oscurava i raggi del sole. Giunta in Piazza della Morte, non poté evitare di pensare che, a giorni, un patibolo sarebbe stato di certo riservato alla sua ancella Mira, accusata di aver ucciso il Cardinale Artemio Baldeschi. Scacciò quel truce pensiero e si infilò dentro Porta della Rocca, guadagnando Via delle Botteghe, zona molto più gradevole e sana rispetto alle strade percorse fino a poc’anzi. Sembrava quasi che le antiche mura romane, rafforzate e ricostruite qualche decennio prima grazie all’ingegno dell’architetto Baccio Pontelli, avessero fatto da baluardo naturale all’epidemia di peste, che aveva colpito solo pochi abitanti del nucleo storico della città. Non appena guadagnato quell’ambiente confortevole, Lucia abbassò il fazzoletto attraverso cui aveva fin lì filtrato l’aria da respirare. Sciolse i capelli, lasciandoli liberi di scendere sulle sue spalle e lungo la schiene, poi con le mani diede una rassettata alla veste stropicciata. Certo, non aveva l’aspetto elegante che avrebbe imposto il suo rango, ma si sentiva più presentabile. In pochi passi raggiunse la Domus Verroni, si infilò sotto l’arco e cercò con lo sguardo Bernardino. Lo vide indaffarato a restaurare la sua bottega ma, quasi percependo il suo arrivo, fu lui il primo a chiamarla.

«Mia Signora! Che gioia vedervi qui. Come potete rendervi conto, lavoro ce n’è tanto da fare, ma ce la sto mettendo tutta. Credo che fra non più di un mese la stamperia potrà ricominciare a lavorare a pieno regime. E tutto grazie a voi. Devo esservi davvero riconoscente per tutto quello che avete fatto per me, e la prima opera che andrò a pubblicare sarà di certo il vostro trattato sui “ Principi di medicina naturale e guarigione con le erbe”. »

Lucia sorrise compiaciuta, ma Bernardino avvertì la forzatura di quel sorriso, che cercava di sovrastare la stanchezza che la attanagliava.

«Ma voi, Madonna, siete davvero stanca. Non vorrei rimproverarvi niente, ma penso che sia ora che ve la facciate finita di visitare tutti questi appestati. Prima o poi vi ammalerete anche voi. Non pensate alla vostra figlia Laura? E ad Anna, che per voi è un’altra figlia? Come potrebbero fare senza di voi? Siete l’ultima Baldeschi rimasta in vita, assumetevi le vostre responsabilità, una volta per tutte! E non solo nei confronti delle bambine, ma della città intera.»

«Oh, Bernardino, non ricominciate con le storie che devo riappropriarmi del governo della città. Ve l’ho detto: sono una donna, non me la sento di occupare un posto che è stato sempre spettante di diritto a un uomo.»

«Non c’è un uomo di questa città che valga la metà di quanto valete voi. Ne è dimostrazione ciò che avete fatto e state facendo per gli ammalati. Ma non basta. Non potete lasciare la città in mano a dei nobili incompetenti, che lasciano che il vicario del Cardinal Cesarini faccia i suoi porci comodi, terrorizzando città e contado, e pretendendo tasse e balzelli da uomini martoriati dalla miseria e dalla pestilenza. È ora di cacciare Cardinale e vicario, e solo voi siete in grado di farlo, prendendo in mano lo scettro che vi spetta di diritto. E poi c’è Mira! Vi siete dimenticata di lei? Avevate promesso di proteggerla, e invece il processo è andato avanti. E ora, per di più, c’è l’accusa di stregoneria per lei!»

«Cosa? Che state dicendo? Il processo nei confronti di Mira è portato avanti dal giudice civile, dal nobile Uberti, e…»

«Padre Ignazio Amici ha raccolto le testimonianze. Sembra che, mentre il Cardinale precipitava dal balcone, qualcuno l’abbia sentito gridare “volo, sto volando”, addirittura col sorriso sulle labbra. E quindi non c’è altra spiegazione se non quella che Mira abbia stregato il Cardinale. Credo proprio che, in queste ore, la giovane sia sotto le grinfie dei torturatori della Santa Inquisizione. Magari tra qualche giorno vedremo sorgere una catasta di legna in Piazza della Morte. Beh, per noi che conosciamo la verità, non sarebbe bello assistere alla morte di un’innocente, per di più in una maniera così atroce.»

Senza neanche ribattere, Lucia si rigirò indignata e si diresse a passo veloce verso il Torrione di Mezzogiorno. «Sia mai!», la sentì gridare Bernardino mentre si allontanava, più rivolta a se stessa che a lui. «Ho promesso che in questa città mai più nessuna donna finirà su una catasta ardente. E manterrò la mia promessa.»


La Corona Bronzea

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