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LA GENESI STORICA DELL'UNITÀ ITALIANA
IV

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Ma questa unità d'Italia, che si è svolta latente, avanzando sempre per progressi e regressi, finchè, giunta l'ora sua, si è rivelata come il termine destinato e non removibile, al quale, e solo a quello, si doveva arrivare; questa unità, che già da secoli sarebbe stata l'ordine, quando gli elementi dell'organismo nazionale si attraevano per natura, e per contingenza si respingevano; sarebbe stata la pace, quando le discordie bruttavano di sangue fraterno le nostre contrade; sarebbe stata la forza, quando gli stranieri vi calavano alla preda; la unità nazionale fu, siccome quella necessità che era, fu ella intuita da quel grande anticipatore dei fatti umani, che è l'umano pensiero? fu, in quel doloroso secolare problema di «essere o non essere» che pareva sciogliersi col «morire, dormire… null'altro», fu ella il sublime «sognare forse» con che Amleto riattacca il filo della vita? sorrise la unità nostra alla fantasia di quei profeti delle nazioni, che sono i grandi poeti? suscitò, prima del secol presente, alcuni di quei generosi tentativi, la cui vittima trasmette all'avvenire, con la vendetta, la riuscita? A queste domande fu risposto con più d'una di quelle diligenti e sottili analisi che caratterizzano gli studi nostri in questo scorcio di secolo; e che a me, nel conferire, gentili Signore, con voi, altra parte non lasciano che di condensarne in breve tratto le conchiusioni somme, e lumeggiarne qualche figura.

Quella «umile Italia», che i compagni d'Enea salutano, nel verso di Virgilio, dall'alto mare, come la meta della venturosa peregrinazione in cerca d'una patria seconda; e che nel verso di Dante accomuna gli eroi della guerra laziale, «Camilla Eurialo Turno e Niso», coi nuovi destini italici, che il Poeta dei Guelfi Bianchi augura dalla ricacciata della negra Lupa curiale nell'inferno per opera del Papa Angelico che il Medio Evo inutilmente aspettò; è, quella Italia de' due sacri poeti di nostra gente, è, ben dessa, la figura d'una patria unica, che si sposò fedelmente alle immaginazioni di quanti, con dolente pietà di figliuoli o con fierezza di propugnatori del materno diritto, han poetato di patria nella lingua del sì. Patria unica, che si sovrapponeva idealmente alle condizioni di fatto della penisola italiana. Dante, che sollecita l'Imperatore a «drizzare Italia», e compiange che non sia ancora a ciò «disposta» questa «Italia, serva» non tanto, per allora, di genti straniere, quanto della guerra intestina che «intorno dalle prode delle sue marine», e nel «seno» suo, la diserta: – il Petrarca, che su «le piaghe di quel bel corpo» sospira, e vuol essere interprete delle «speranze» che dalle rive del Tevere, dell'Arno, del Po congiuntamente si levano a Dio: – l'Ariosto, che impreca alla calata delle «Arpie» straniere sulle mense d'Italia, invocando il giorno ch'ella richieda ai «figli neghittosi» la sua libertà: – il Tasso che vagheggia la unione delle «voglie divise e sparse» da tutto il paese che «i monti e i fiumi» dividere non possono, perchè «quel che partì natura, amor congiunge»: – e nello sfacelo d'Italia lungo il Cinquecento fatale, la voce d'un virtuoso prelato, il Guidiccioni, che in nobilissimi versi consacra al medesimo rimpianto la violata libertà nazionale e il disonor dell'Impero e la fede pericolante di Cristo: – e poi, nell'aggravarsi della servitù e della decadenza, i cortigiani stessi di quei principati sotto tutela, levarsi contro la obbrobriosa tirannide iberica, e convertire come il Tassoni la poesia giocosa in filippiche per il conculcato diritto d'Italia, e volgersi con arcano presentimento a un Duca irrequieto e valoroso di casa Savoia, Carlo Emanuele I, che risponde ancor egli con versi italiani: – e da quelle medesime aule, sia di corte sia d'accademia, qualche alata apostrofe di retorica generosa, o sulla culla d'un Principe pur di cotesta Casa acclamare col Manfredi «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato», o deplorare nel sonetto del Filicaia la «funesta bellezza» che le ha tirato addosso, con le straniere cupidigie, la condanna di «servir sempre o vincitrice o vinta»: – finchè l'Alfieri, prenunciatore della libertà che si approssima, dedichi l'opera sua tragica e fatidica «al popolo italiano futuro»: – è tutta, insomma, una non interrotta comunicazione come di una sacra parola, di secolo in secolo, da Dante all'Alfieri, la quale attesta e proclama una Italia, che impedita d'essere nel fatto, vive, come nel decreto divino, così nel cuore e nella fantasia de' suoi fedeli poeti.

E non per questo diremo che la poesia d'Italia fosse una cospirazione a conseguire in effetto l'unità politica della patria italiana; tradurre in atto, con determinati mezzi e deliberata intenzione, quel sentimento italico che empiva i petti e li dilatava in un'aspirazione generosa, o vibrava nei raggi luminosi della visione poetica. A noi, che scendiamo ormai la curva del mezzo secolo nella vita civile della patria costituitasi libera ed una, non si addicono davvero, se anche fossero ormai possibili, certi entusiasmi, ne' quali, aspettando i nuovi tempi, o nella prima esultanza dell'avvento loro, si compiacque l'accademia e la scuola d'allora; quando Italia libera ed una pareva la parola d'ordine che le fide scolte del pensiero italiano si fossero trasmesse perpetuamente dall'uno all'altro dei vigilati posti d'arme; e la rivelazione dei precursori vaticinati, nuova maniera di oroscopia a rovescio, addiveniva esercizio di fantasie quotidiane; e quel povero Veltro dantesco «salute dell'umile Italia» veniva tramutato in tuttociò che tornasse opportuno farlo essere, ma soprattutto nella figura del Re liberatore: di che la Maestà di Vittorio Emanuele è lecito credere che sotto i gran baffi molto di cuore ridesse.

La poesia, o, altramente atteggiato, il saluto del pensiero italiano, non mancò (questo è vero; e i moderni studi critici ne hanno aggiunto preziosi documenti ai già noti) non mancò di augurare, od anco di secondare, a più d'una di quelle che potremmo chiamar geste regionali, non molte del resto, che in diversi momenti della storia d'Italia, allettarono questa o quella, più o meno generosa o interessata, iniziativa, sia di principi, sia di tribuni o cospiratori.

Se anche non è a Cola di Rienzo che il Petrarca abbia indirizzata l'altra delle sue magnanime canzoni italiche, certo accompagnò con altre espresse manifestazioni la impresa repubblicana di lui; la quale, come già quasi quattro secoli prima quella di Crescenzio, poteva, col mutare le condizioni di Roma rispetto al Papato, aprire nuove strade ai destini d'Italia. Ed era naturale che il Petrarca, sì gagliardamente compreso di patriottica latinità, e così fervidamente intento a restaurarla negli studi, si volgesse, con la mobile fantasia, ad accogliere, come una promessa di rinnovamento italico anche negli ordini civili, qualsifosse evento o persona, che più o meno direttamente accennassero a tanto: fosse oggi quel suo re angioino Roberto, che nel trono di Napoli, e nel capitanato di Parte Guelfa in tutta Italia, avrebbe avuto (se non era il «re da sermone» ben proverbiato da Dante) solido fondamento alle medesime ambizioni di supremazia italica, che su codesto trono avean circondata la corona di Federigo II re ghibellino; o fosse domani l'Impero, se anche nella persona del più dappoco di tutti quei Cesari posticci, Carlo IV di Lussemburgo.

Nel modo stesso, quando, pochi anni dopo, un'altra ambizione, e ben altramente audace e invasiva, quella del Conte di Virtù Giangaleazzo Visconti, fattosi con le armi il ducato di Milano, compratane dall'Impero l'investitura, sentì angusti i confini del Po e dell'Appennino; – e fu quello, in tutta la triste storia frammentaria delle Signorie e Principati domestici, il solo momento che una di codeste avventure (poichè non fu la sola) per una piccola tirannide più o meno italica parve poter essere generatrice d'una forza concentrativa e unitaria in benefizio della nazione; – non più allora la voce di alcun grande poeta, ma voci molte di minori si levarono; non tutte di consenso e d'applauso, ma tutte di apprensione per cosa grande e vitale alla patria italiana. E come in nome d'Italia («Sappi ch'i' sono Italia che ti parlo») avevano vituperato quel «di Lucimburgo ignominioso Carlo»; così ora a questa nuova, ma non degna, speranza d'Italia e di Roma esclamavano:

Roma vi chiama: – o Cesar mio novello,

I' sono ignuda, e l'anima pur vive:

Or mi coprite col vostro mantello.

Poi francherem colei, che Dante scrive

Non donna di provincie, ma bordello;

E piane troverem tutte sue rive.


Non degna speranza, e ambizioni bieche, codeste del Visconti: alle quali il più libero de' nostri Comuni, Firenze, nido e seggio ormai d'italianità intellettuale, contrastò fieramente, nel nome di quella tradizione di libertà municipali, che si era concretata in centri a raggio anche men che regionale, Stati sia di Popolo, sia di Signore o Tiranno; fronteggianti l'uno l'altro, e amici e bonvicini non a più larga stregua che del respettivo tornaconto. Tale tradizione, era, un secolo appresso, da Lorenzo de' Medici fermata e consolidata in equilibrio, ma pe' soli pochi anni che al Pericle fiorentino bastò la vita per la vagheggiata grandezza di questa Atene fatta retaggio suo e de' suoi. Cotesto equilibrio di Stati (che il Guicciardini nel Proemio alla sua storia descrive) imperniato da Lorenzo nella intrinsichezza con Roma papale, e il cui turbamento, loscamente macchinato dal Moro, segna l'era nefasta della intrusione straniera nelle cose d'Italia, fu pur sempre bilanciamento di soli interessi. E ben si addiceva ne descrivesse i congegni il Guicciardini, questo grande scettico della unità di nazione in omaggio alla libertà dei municipii, contro la quale finì egli poi ministro di tirannide; lo descrivesse con quel suo tatto pratico schivo d'ogni idealità, e con la sua impassibile Liviana magnificenza. L'equilibrio che possiamo, da Cosimo il Vecchio al magnifico Lorenzo, chiamare Mediceo, fu maneggiato con quel sentimento pagano di realtà, o quotidiana o archeologica, che caratterizza la politica e la cultura dell'umanismo: e come indarno vi cercheremmo un'alta ispirazione, che dal passato domestico e d'ieri aleggi verso l'avvenire della patria, così da nessuno dei togati umanisti esce pur uno di que' magnanimi accenti d'evocazione, ne' quali il Petrarca, iniziatore di cotesta scuola, con tanta passione congiungeva la Roma antica dominatrice del mondo e quella ch'egli avrebbe voluto veder risorgere, Roma italiana e cristiana, dalle gloriose rovine. Gli accademici vivono nell'antico; i politici lavorano al presente, con tutte le brutali energie della forza e le perfidie sanguinose della frode: finchè un generato e da quelle accademie e da quelle cancellerie, ma sovrano intelletto, Niccolò Machiavelli; – dopo avere nelle ambascerie del suo Comune esercitato le arti di cotesta politica, e nel silenzio campestre del suo studiolo investigato ansiosamente sulle storie di Roma repubblicana il segreto della potenza e della grandezza; – testimone e sperimentatore, e complice egli stesso, di quella collisione di forze, tutte insieme ripugnanti e discordi ad unificarsi, od anche soltanto ad unirsi, e nessuna valida a subordinare le altre o a schiacciarle; – consapevole di quanto egli valga, e fremente di nulla potere; – ficcherà, egli solo fra tutti gli uomini del suo tempo, l'acuto sguardo nell'avvenire, nell'avvenire disperato e lontano; e lo invocherà, e lo attrarrà a sè, con le più generose parole forse che mai, duranti i secoli che Italia non fu, siano uscite da petto italiano. «Provvedetevi» dice egli a quel suo Principe, che nè un Borgia nè un Medici erano degni di essere, nè doveva essere ciò che egli allora era condotto a volere che fosse «Provvedetevi d'armi proprie… che si vedano comandare da loro Principe… per potersi con virtù italiana difendere dagli stranieri… Era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avesse sopportato d'ogni sorta rovine… Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima… Vedesi ancora tutta prona e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia alcuno che la pigli… L'Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte le provincie…; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?..» Parole fatidiche, le quali non possiamo noi Italiani ripetere senza che il cuore presti alla voce il suo accento; ma che sopraffatte, vivente pure il Machiavelli, dalla violenza delle due grandi Potestà in nome di Roma contro l'Italia alleate, non osò egli stesso riadattare a un altro Medici, il condottiero delle Bande Nere, che con ben altra vigoria avrebbe alzata quella bandiera, se bandiera solamente soldatesca fosse potuta essere: nè furono certamente, coteste parole, nemmen ripensate negli efimeri episodii che quel medesimo secolo ebbe, di qualche cospirazione (quella del Morone, quella del Burlamacchi) contro la signoria straniera. Solo ai giorni nostri, sugli albori ancora incerti del risorgimento nazionale, il Gioberti le convertiva in apostrofe a Carlo Alberto, quando ancora nè il Re aveva vinti gl'intimi contrasti che formavano il suo segreto, nè al filosofo stava in cospetto, come poi sull'estremo limitare della vita, la visione della nuova Italia. Pochi anni ancora: e il successore di quel Re ebbe adempito, fra il 59 e il 70, il vaticinio di Niccolò Machiavelli.

Nè questa volta erano fatti moderni, ai quali, dopo il grande lavorio di tutta una letteratura civile, quanta intercede dall'Alfieri al Carducci, fosse adattato quasi per parafrasi un simbolo tradizionale della nostra storia e della nostra poesia. Non era l'aquila cesarea di Dante, addestrata col logoro retorico a roteare in larghi giri attorno alla corona dell'Italia plebiscitaria, e librar goffamente su quella corona le vecchie ali spennacchiate: non la navicella d'Enea navigante dalla Sicilia alle foci del Tevere con seco i fati latini, che mostrasse il solco a quella sulla quale Garibaldi e i suoi Mille dallo scoglio di Quarto cercavano «l'isola del fuoco», per muovere di laggiù, con l'Italia di Vittorio Emanuele sulle invitte spade, verso Roma destinata. Erano, questa volta, senza simboli e senza interpretazioni, tali quali il Segretario fiorentino aveva, con fioca o forse già soffocata speranza, invocato, erano finalmente l'Italia redenta e il suo Re.

È poi notabile, che se altre voci, di ben minore portata, si levarono in quel triste splendido secolo iniziativo del nostro servaggio, mosse da affetto di patria ad augurare dondechessia un liberatore, non furono indirizzate verso quella regione d'Italia di dove la Provvidenza dovea suscitarlo. Scriveva Benedetto Varchi, rilevando l'interessata politica di Venezia nelle cose italiane, e altresì la necessità d'una egemonia nazionale sulle forze vive della penisola, «non essere le fatiche e gl'infortunii d'Italia mai per cessare, infino che i Veneziani (poichè sperare da' Pontefici un cotal benefizio non si dee) o alcuno prudente e fortunato principe non ne prenda la signoria»: e ciò, forse, con qualche intenzione, del tutto cortigiana, al suo duca Cosimo de' Medici; certo, con nessuna ai duchi di Savoia. Nè altri che Venezia e i Pontefici, «Marco e Piero», pensava il Guidiccioni possibili propugnatori dell'indipendenza italica: ma soggiungeva dolorosamente, non avere speranza alcuna dell'opera loro. Nel quale concetto dovevano quei nostri del Cinquecento essere indótti dal considerare lo Stato ecclesiastico e il dominio di San Marco siccome le sole provincie d'Italia, cui non investisse quel complicato intrico d'interessi dinastici paesani, alleati sinistramente con la rapacità straniera, nelle maglie del quale era irretita, per tutto il rimanente, la patria nostra infelice. Ma e il Guidiccioni e il Varchi, uomini di chiesa ambedue, sentivano pure, quanto ai Pontefici, come questa potenziale attitudine del loro Principato a benefizio d'Italia fosse da altre condizioni storiche o contingenze di fatto impedita: il che si era veduto in Giulio II, e si vide poi in Paolo IV; confermandosi sempre la tremenda sentenza con la quale il Machiavelli e il Guicciardini ebbero, quasi con identiche parole, condannata la Signoria temporale dei Pontefici e la corrottissima Curia, dello avere e fatto «diventar gl'Italiani senza religione e cattivi» e «impedita l'unione d'Italia». E quando il Gioberti disegnò e radiosamente colorì l'apoteosi civile del Papato, non però gli resse l'entusiasmo, nè gli bastò l'eloquenza, ad attribuirgli una iniziativa che innanzi tutto bisognava fosse guerriera; ma di questa riconobbe e i caratteri storici e le condizioni giuridiche nel suo Piemonte, anche senza evocare, come avrebbe potuto, le tradizioni di quella che, gesta ambiziosa e di ereditaria ambizione, ma fu pur gesta d'indipendenza italiana, di Carlo Emanuele I. D'allora in poi, dico dal 1848, fu nella egemonia subalpina fermato il concetto, e anticipato con auspicii immanchevoli il fatto, prima, dell'unione, poi dell'unità, d'Italia: di questa unità, alla quale fin dal 1821 era volato il verso di Alessandro Manzoni; della unità italiana, in nome della quale, nel 31, a Carlo Alberto che ascendeva il trono, Giuseppe Mazzini avea mandato il saluto o la minaccia (scegliesse egli) del pensiero italiano; di questa sacra unità, che il venerando Gino Capponi (raccolgo dalle labbra di lui una parola non dimenticabile) diceva essere stata, agli uomini della sua generazione, il primo dei desiderii, l'ultima, perchè la più bella, delle speranze.

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