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LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO

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CONFERENZA

DI

GEROLAMO ROVETTA

Signore e Signori,

Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo.

A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini.

Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa… e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra – se ci pensiamo – appartenere ad un'altra epoca ben più remota?

La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.

– Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? – Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!

Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante… come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.

Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce vera che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama… e d'infamia, non sempre meritata.

Questo non è cómpito per le mie forze, nè per i miei gusti. Io penso, invece, con intimo compiacimento d'artista che, mentre tutte quelle cose e quella gente ci appaiono così come se le guardassimo col canocchiale a rovescio, l'arte e gli artisti sono rimasti così vicini a noi, così nostri e del nostro tempo da indurre noi pure – imbevuti di tanto scetticismo! – in quella fede classica che vate chiamava il poeta, cioè veggente nell'avvenire, ed eterna proclamava l'arte, cioè immortale nei secoli.

Non è forse così? Mentre la logistica delle battaglie napoleoniche non interessa più che gli studiosi delle Accademie militari, al pari di quella delle campagne di Alessandro o di Giulio Cesare, e le bricconate di certi ministri del vicerè Eugenio, gli spionaggi ed il gabinetto nero, si confondono colle altre iniquità di palazzo del cardinale di Richelieu e il dominio dell'Austria rinnova le gesta di tutte le più antiche e sinistre tirannidi: ecco qui vive e parlanti, colle nostre idee, colle nostre ribellioni, le nostre speranze, gli stessi nostri sarcasmi, ecco qui le figure del Foscolo e di Carlo Porta, e col nostro stesso culto del vero, le tele dell'Appiani e del Canonica: ecco ripetersi, con esempi nuovi, l'amabile storia della giovinezza di Gioacchino Rossini, a cui la fortuna e le belle donne aprono le braccia e spianano la via; ecco rinnovarsi oggi tra idealisti e veristi, tra naturalisti e spiritualisti, quella vivace e multiforme polemica d'allora tra classici e romantici che, in fondo, preparava i germi a tutte le battaglie intellettuali dell'avvenire. I critici dicevano ottant'anni sono molta parte di quel che dicono adesso; e i gazzettieri – anche allora – insegnavano l'armonia al «signor Rossini», la chiarezza al capitano Foscolo, e al giovane autore del Carmagnola un po' di lingua italiana; e di questi, i più accaniti – erano forse i francesi! —

Ancora gl'impeti del Foscolo, noi li abbiamo nel cuore; e quante, quante volte la musa lepida, ed anche salace del Porta, non ci soccorre per irridere alle ipocrisie che oggigiorno tocchiamo con mano!

Il Foscolo ed il Porta – meno di tutti gli artisti di quell'epoca – sono invecchiati, perchè, in modo diverso, la loro poesia rispecchia ciò che in apparenza soltanto è mutevole, e rimane invece tal quale: «l'anima del popolo»; – l'uno ruggendo nelle prose concitate le sue imprecazioni contro gli autori d'ogni servaggio, o cantando nei versi grecamente armoniosi le illusioni e le delusioni dello spirito moderno; l'altro sintetizzando nella rima epigrammatica e tagliente l'umorismo formidabile che del popolo è un'arma, un conforto, ed uno sfogo ad un tempo.

Così l'arte del Foscolo e quella del Porta, come i tipi umani dei due poeti, ci appaiono unite con vincoli di fratellanza alla grande arte e ai grandi tipi delle epoche più remote; ed è perciò ch'essi sono tuttora modernissimi. Un soldato poeta, prode, ardito, cavalleresco, con qualche spacconata, pieno di debiti, di duelli, di amori, di gelosie turbolenti; ed un altro – un poeta cassiere – tutto arguzia, tutto malizia nella rima gioconda e così bonario nella vita semplice e prudente d'impiegato, sempre amico della giustizia, ma benanche del quieto vivere; – un ribelle, che dà al popolo la satira demolitrice di poteri e di tirannidi, ma che si tapperebbe in casa – gottoso e pieno d'acciacchi – ove nelle vie scoppiasse la sommossa… sono due tipi umani – sono due estri, per così dire, che in tutti i tempi le vicende hanno destato ed ispirato.

Ma il Foscolo, nella gravezza che incombeva sulla vita milanese in quel procelloso finire del Regno Italico, rappresenta anche l'irrequietudine dei presagî.

Dalle nebbie di Milano, fra le bieche congiure degli austriacanti, le paure dei napoleonici e i tentennamenti degli italici, egli anelava al bel sole di Toscana, alla luminosa villa di Bellosguardo ove gli erano fioriti sotto la penna i versi delle Grazie, nitidi e flessuosi come le forme divine scolpite dal Canova; anelava a questa Firenze dell'anima sua, sacra a lui per le memorie dei Grandi cantate nei Sepolcri, da Dante all'Alfieri, e insieme per indimenticabili dolcezze d'amore:

Per me cara, felice, inclita riva!..

Ove sovente i piè leggiadri mosse

Colei che, vera al portamento Diva,

In me volgeva sue luci beate,

Mentr'io sentìa dai crin d'oro commosse

Spirar ambrosia l'aure innamorate…


* * *

Era una specie di nostalgia pei tepori e i profumi che gli assaliva l'anima, una sete di parole italiane pronunciate dalle labbra delle donne fiorentine che tanta grazia aggiungono all'efficacia del perfetto dire… e non Voi, che di azzurro e di fragranze avete in ogni tempo dovizia, ma noi, di lassù, poveri inglesi d'Italia, possiamo comprendere le smanie del Foscolo per la vostra bella città. – Marmi e fiori, le memorie e l'eloquio, il serto delle colline, l'aria stessa che qui si respira, tutto ci attrae sino al dolore, e noi ricordiamo sino al rimpianto.

Qui da voi sorrideva, come sempre, amica fida, l'arte; da noi, in Lombardia, non si respirava che l'intrigo. Dico l'intrigo, non la politica. La politica vera era maneggiata dai sovrani, dai ministri, dagli ambasciatori; il resto, i sudditi, anche quelli delle classi sociali più elevate, non conoscevano altro che il pettegolezzo di società, le trame personali, ordite per interesse privato, per vizio senile, per passatempo.

Nell'esercito, e più nell'aristocrazia, si congiurava come si intavola un giuoco: erano ancora i cicisbei dell'arcadia belante che divenivano a un tratto cospiratori tra le gonne della dama servita.

Rancori, invidie, gelosie di corte o d'alcova; e ognuno aveva pronto il suo re, per diventarne il vicerè.

Trista politica di corridoio e d'anticamera, sospettosa, cupida, procacciante, che pur preparava la ruina della patria prima ancora che nei fatti, negli animi, dove la grande idealità dell'Italia unita, libera, indipendente non s'era accesa ancora a illuminare, come avvenne più tardi, anche i giorni squallidi della schiavitù, a confortare i migliori, a compensarli d'ogni sacrificio, a irradiare per essi anche le segrete delle prigioni e le forche drizzate ad attenderli.

Che poteva mai l'arte in tanta miseria spirituale? Non l'arte del pensiero, ma quella dei sensi e della furberia era in onore presso il volgo patrizio e plebeo! Gli scherni, si dispensavano in egual misura al Foscolo «matto infido» e al Monti «cortigiano pagato».

Giorni egualmente tristi s'annunziavano ai due grandi poeti, che erano da amici divenuti irreconciliabili; e veramente quanto diversi nell'arte e nella vita! E per ciò, come già tra il Foscolo e il Porta, così tra il Foscolo e il Monti dovrebbe riuscire il raffronto attraente e curioso allo spirito indagatore.

Il Foscolo, non sempre buono e probo nella vita privata, aveva pur sempre espresso ne' suoi scritti la grande anima italiana, sdegnosa di padroni vecchi e nuovi, assorta in una virile idea di libertà classica insieme e moderna; ed ora, al cadere della fortuna napoleonica, passava non curato in mezzo agli armeggioni e agli opportunisti, dai quali al ritorno dell'Austria doveva separarsi per sempre, esulando lontano con l'anima ferita, ma altera e sicura. – Il Monti buono, troppo buono, e nella sua mutabilità intimamente onesto, aveva cantato prima il trono e l'altare, poi il fanatismo giacobino, poi la libertà italica, poi l'onnipotenza di Napoleone – il Giove Massimo – il Dio Terreno; e con la gloria di Napoleone vedeva cadere la sua, sentiva fors'anco l'amarezza di essere considerato dagli intriganti e dai faccendieri come un adulatore venale che, per opportunità o per interesse, avrebbe seguitato a cantare per i vincitori d'oggi… i dominatori del domani.

* * *

A Milano, nella capitale del Regno agonizzante, non si congiurava che per mutar di padrone. Pareva ad alcuni – ai migliori forse – che una parte di ciò che allora si diceva «la gloria di Napoleone» toccasse di riverbero ai Lombardi: e ci tenevano, e non si ribellavano ancora all'orgoglio e all'egoismo feroce di lui: invece, tentavano ridestare intorno al suo nome gli entusiasmi svaniti. E tra questi il duca Melzi – l'ex presidente della Repubblica Italiana, e allora, del Regno Italico, presidente del Consiglio dei Ministri – e col duca Melzi, il conte Giuseppe Prina.

E il Melzi e il Prina erano fautori di Napoleone e dei Napoleonidi… chi sa?.. anche per un primo barlume di quell'Italia, ch'era forse ancora più nella mente che nel cuore dei due uomini di Stato; che, ancora, era forse… un concetto politico, un regno, più che una nazione; quell'Italia, a cui già mirava, cupidamente, l'orgoglio sfrenato del Murat, e alla quale occhieggiava, come con una ballerina della Scala, la bramosia senile, la vanità eroicomica del divisionario Pino. Ma se qualche magnanimo illuso, o qualche insoddisfatto avventuriero poteva unirsi al Murat, disertore di Napoleone; se nelle chiassose e allegre adunanze dell'Albergo del Gallo, le vecchie mercantesse e gli strozzini inneggiavano col barbèra e col barolo «al generale Pino re d'Italia», chi mai poteva seguire il Melzi e il Prina, i due bigotti dell'Impero, i due compari del Vicerè?

Chi poteva seguirli?.. Chi del popolo, specialmente?

Non vi era quasi famiglia nella quale le ecatombe di Russia e di Germania non avessero lasciato un lutto o rimandato un infermo; le donne più ancora, madri, spose, sorelle, non si rassegnavano a tanta… seminagione di dolori, di cui non vedevano lo scopo, mentre fra gli uomini, essa poteva trovar pretesto nello spirito militare ritemprato e fatto consuetudine e nella smania politicante.

Nei ceti più umili delle città e fra le plebi delle campagne, sbollita l'ubbriacatura dei grandi avvenimenti, dell'imprevisto, delle teatrali partenze delle truppe e l'ansia dell'attendere e del commentare le notizie della guerra, era subentrato lo sconforto amaro, profondo, del danno patito, delle braccia mancanti, dei cari morti e perduti nei gorghi dei fiumi gelati e sotto le nevi delle steppe… La fantasia popolare rievocava quei quadri di battaglie sfrondandoli d'ogni epica attrattiva, ne aumentava, se pure era possibile, l'orrore, e un grande sentimento d'odio dilagava nelle anime contro coloro che si erano gravata la coscienza di tanto lutto, di tanta desolazione, di tanta miseria.

Oh, la miseria!.. Si faceva di giorno in giorno più cruda, più feroce.

I signori, i ricchi, ammaestrati dai casi, non pensavano che a difendere i redditi; a nessuno veniva in mente di arrischiare un po' di danaro per dar lavoro ai poveri, in qualunque industria, che un disperato tentativo di Napoleone e delle potenze avrebbe buttato all'aria.

Mancava il lavoro, mancava il pane; turbe di poveri, di pezzenti, di oziosi, mendicavano alle porte dei presbiterî, delle scarse locande, dei palazzi, degli uffici pubblici; e in quegli stomachi vuoti si preparava l'urlo della rivolta.

E tanta e così grande miseria era poi esacerbata, invelenita, giorno per giorno, dalle rapacità del fisco. I balzelli e le tasse più odiose crescevano di numero e di gravezza.

Anche il poco che non rappresentava il diritto di non languire per l'inedia, destava le ingordigie del fisco, veniva insidiato, carpito, portato via con atti esecutivi, che costituivano un succedersi di ignobili rapine, larvate di legalità e compiute colla forza del governo.

La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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