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IL ROMANTICISMO

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CONFERENZA

DI

ENRICO PANZACCHI

Signore!

Il Comitato Direttivo mi ha incaricato di esprimere con poche parole il nostro grande compianto alla memoria dei due dilettissimi che la morte ci ha rapito nello spazio di pochi mesi: Enrico Nencioni e Diego Martelli.

Una gran pena per noi che li amavamo di affetto antico e fraterno, fatto di simpatia e d'ammirazione, e che le loro amicizie eravamo abituati a considerare come una forza e come una consolazione della nostra vita! E certamente una gran pena anche per voi, Signore, che la voce del Nencioni e del Martelli aspettavate qui sempre con tanto desiderio e con tanto diletto ascoltavate; e adesso quelle voci non udirete mai più risuonare nè in questo luogo, nè altrove!.. E chi d'ora innanzi vi narrerà, come il nostro buon Diego, le precise vicende e quasi la storia intuitiva delle vecchie scuole pittoriche toscane, con quella probità di analisi che vuol vedere a fondo, con la intraducibile bonarietà di quel suo accento, di quel suo gesto, di quel suo aspetto che gli donavano una eloquenza così personale e così vittoriosa? E chi, come Enrico Nencioni, saprà mai più mettervi dentro ai grandi segreti della poesia italiana e straniera? Chi, al pari di lui, saprà mai più trasportare in alto la vostra anima con una parola alata, evocatrice, vibrante, nella quale pareva di sentir passare i suoni e i colori, le gioie e le lagrime delle cose?

Tutti e due sono morti passato il termine della giovinezza, ma essendo ancora nel pieno della vita; avendo lo spirito vivido, l'ingegno operoso, il cuore giovanile. In molte cose diversificavano fra loro; anzi può dirsi che le due vite fossero diversamente orientate; ma amavano tutti e due d'amore inestinguibile tutto quello che è come lo sfondo luminoso nel quadro della nostra esistenza; e ancor che diversamente l'intendessero, in questo grande amore si sentivano uniti e si amavano. Ed erano uniti in un'altra cosa che dava ad essi un carattere singolare. Voglio alludere a quello spirito d'arte peregrino, vigilante, inquieto, audace. Non erano di quelli che credono che il regno dell'Arte e della Bellezza abbia confini eternamente fissi; e che questi confini debbono essere di continuo vigilati da feroci doganieri, pronti sempre a fulminare ogni tentativo di contrabbando. A me svegliavano l'idea dì quell'amoroso uccello descritto da Dante, che si posa «sull'aperta frasca» prima dell'alba e di lassù con l'occhio fisso spia bramosamente i primi colori della nuova luce. Per questo, Diego Martelli escogitava volentieri nuove e insolite forme di pittura, mostrandosi vago di tutte le novità artistiche e andando volentieri incontro ad esse, sempre avvivato dalla speranza di scuoprire finalmente qualche principio benefico che sprigionasse spiriti nuovi, e nuove giornate di emulazione e di gloria apparecchiasse all'arte moderna, nell'arte italiana in ispecie; per questo Enrico pigliava per mano voi, giovani, pigliava per mano voi, o gentili Signore, e vi conduceva alla contemplazione de' più bei fiori poetici sbocciati in plaghe lontane; e i commenti suoi erano evocazioni più vive di poesia, e le sue traduzioni erano incremento di bellezza.

Per questo loro continuo ardore di ricerche, per questa grande loro libertà di scelta nei diversi giardini della letteratura e dell'arte, per questo loro esotismo sempre sincero anche nell'ottimismo un po' sistematico, i due nostri poveri amici ebbero più volte accuse di poca e tiepida religione per l'arte italiana. Ma l'accusa era tanto ingiusta, o Signore! Essi meritavano d'essere paragonati a quegli arditi navigatori italiani del nostro glorioso Rinascimento, i quali quanto più si lanciavano per mari nuovi e verso continenti ignoti, quanto più s'allontanavano dalla patria e pareva che la scordassero, tanto più vivamente l'avevano scolpita nel cuore, tanto più cercavano di propagare nel mondo il suo nome e d'aumentarne la potenza e la gloria.

Quante utili idee agitò nella sua mente e divulgò col suo schietto e vivo linguaggio il buon Diego Martelli! Che fulgidi orizzonti di poesia dischiuse, che pure e calde correnti di entusiasmi eccitò negli animi vostri Enrico Nencioni! Ripugna alla mente mia il pensare che questi due nobilissimi fasci di vitalità e di pensiero si sieno sciolti e dispersi per sempre. Essi appartenevano al numero di quelle creature buone ed elette, per le quali bisognerebbe proprio che esistessero i prati «verdeggianti d'eterno asfodèlo» sui quali il sole, calda Bellezza giocondatrice, non fosse mai visto tramontare.

Mando un saluto riverente e dolente in nome di tutti, a quelle due carissime anime. E il saluto accompagnato ad un augurio: che la memoria di Enrico Nencioni e di Diego Martelli duri lungamente e piamente custodita nelle anime vostre, o donne gentili!

E adesso io vi parlerò un poco del romanticismo, il quale realmente è il più gran fenomeno artistico e letterario che si presenti sulla soglia del secolo XIX, e quindi a ragione vien messo per primo nella serie delle conferenze di quest'anno. Che cosa sia romanticismo io non pretendo di definire. Il Berni racconta che una tal femmina lombarda, non avendo mai veduto il Papa, s'era formata un'idea stranissima di lui, e lo credeva qualche cosa di simile all'orco e alla bombarda. Similmente potrebbe dirsi delle bizzarre immagini che svegliò questa parola. Alessandro Manzoni nelle sue lettere al marchese Cesare d'Azeglio diceva, scherzando, che nella fantasia dei più degli Italiani dei suoi tempi, alla parola romanticismo si associavano idee di stregoneria, di negromanzia. Fatto è che essa comincio a comparire nel linguaggio scritto verso la metà del secolo passato. Giangiacomo Rousseau, per esempio, in un punto delle sue Confessioni, parlando d'una bruna e bella foresta, dice che è più romantica d'un'altra che avea veduto prima. Qui evidentemente abbiamo più che un mero epiteto pittoresco; ma si accenna a qualche cosa di nuovo, che entra nel mondo dell'arte. Abbiate per regola generale, o Signore, che quando una parola entra e si mantiene nel linguaggio comune più colto, ciò vuol dire che qualche cosa di nuovo è entrato anche nel mondo delle anime. Non è facile mettere d'accordo gli scrittori in uno stesso giudizio finale sul movimento romantico che agitò l'Europa e l'Italia. Qualunque definizione si metta avanti è subito contraddetta. Per esempio, vi è stato chi ha detto che il romanticismo ebbe la virtù e il merito di convergere la nostra letteratura a ufficio civile, a nobiltà di intendimenti politici; e realmente se si pensa a quei poveretti del Conciliatore, che mutarono le pacifiche stanze della redazione del loro giornale nelle carceri di Venezia e dello Spielberg, si dovrebbe credere che ci fosse qualche cosa di vero in ciò: che realmente tra i fini che il romanticismo si propose ci fosse questo: di dare alla letteratura nostra, che aveva avanti poltrito nelle grullerie incivili dell'Arcadia, un intendimento politico più alto e più nazionale. Ma ecco che un uomo di alto valore, il Settembrini, viene avanti e ci dice: «Nossignori! il romanticismo invece contribuì a reprimere e rattenere i movimenti redenzionisti del popolo italiano, perchè ottenebrando il grande ideale classico, e sostituendovi il sentimento, invece di aiutare, ritardò il moto progressivo degli spiriti.»

Un altro appunto e un'altra lode – secondo il punto di vista da cui fu data – è che il romanticismo abbia contribuito a infondere un certo spirito di religiosità nella nostra letteratura; e di questo massimamente si compiace il più grande dei romantici italiani, Alessandro Manzoni. Ma anche a questa lode c'è chi si oppone; e in prima linea il Padre Bresciani della Compagnia di Gesù, il quale dimostrò che fra le tante eresie che hanno afflitto la cristianità bisogna mettere anche il romanticismo, l'ultima di esse, ma non la meno perniciosa; e fra gli argomenti che desume per provare la sua tesi mette innanzi questo: che nei romanzi e in generale nei libri di autori romantici, i frati e i vescovi sono per lo più rappresentati in un aspetto poco reverente!.. Qualcheduno anche non ha dubitato di fare del romanticismo una personificazione veramente grottesca e poco meno che paurosa. Io vi citerò i versi di Giovanni Marchetti. Del '29 cantava la celebre Giuditta Pasta. Nella purezza del canto di questa sirena l'elegante e corretto spirito del conte Marchetti, così meritamente lodato nel suo tempo, e non ancora dimenticato oggi, vide come un'antitesi a tutte quelle diavolerie nordiche, onde il romanticismo, secondo il suo giudizio, infestava il puro cielo e le belle contrade italiane. Sentite:

Spinto dall'irto borea,

Scorto da cento larve,

Sovra un corsiero aligero

Ignoto genio apparve,

Orribilmente nero

Cavallo e cavaliero.

Corse il bel cielo italico,

Guida sdegnando e freno;

E di strana caligine

Contaminò il sereno:

Come gran nembo suole,

Spense, passando, il sole.


Ma fece di peggio:

Svestì di fronde gli alberi,

D'erbe e di fior la terra,

L'antro spezzò, di turbini

Delle tempeste serra.


Ma fece ancora di peggio:

Volò alle porte eteree

Ove con bel governo

L'un dopo l'altro i secoli

Rientran nell'eterno,

E al secol fiero e tetro

Gridò: Ritorna indietro!


Per l'elegante e classico spirito del conte Giovanni Marchetti il romanticismo dunque rappresentava una specie di reazione tenebrosa contro tutte le forze vive ordinate e armoniche della nostra civiltà. Non è possibile, alla distanza di tanti anni, che noi possiamo continuare ad accogliere questo modo così grottesco di configurazione!

Il tempo, se Dio vuole, non è passato inutilmente; e ora, nella tranquilla prospettiva della storia, il romanticismo può esser da noi considerato con più calma e con minore ingiustizia. Considerato nelle sue sostanze, il romanticismo rappresentò in Europa e in Italia due fatti: primo, l'esaurimento della parte negativa dell'umanesimo, il quale – come voi sapete, – aveva così validamente aiutata la civiltà italiana nel suo risorgere lungo i secoli XIV, XV e XVI. Ma mentre aveva tanto avvalorato il movimento ascensivo del pensiero e del genio italico in quell'epoca classica, l'umanesimo aveva anche messo tra l'arte e la natura dei grandi modelli, e li aveva lumeggiati in modo che a lungo andare la natura doveva essere dimenticata o negletta. Questo fenomeno si dovette evolvere con una legge irrefrenabile. Dalla prima contemplazione dei modelli meravigliosi che l'antichità porgeva a noi, si venne via via degradando e degenerando nella imitazione. Questo procedimento cumulativo si affrettò e peggiorò quando sorse in una sede d'Europa, in Francia, un umanesimo pseudo classico, il quale fiorì, come sapete, nel regno di Luigi XIV in Francia; e come ogni principe d'Europa, a imitazione del re Sole, volle avere una piccola Versailles; così in tutti i centri dell'attività intellettuale e letteraria e artistica d'Europa venne imponendosi, e con esso si impose, questo secondo umanesimo francese, meno legittimo, meno genuino del primo, e quindi più facilmente fertile di effetti deprimenti e negativi. Insomma, un po' per effetto del primo umanesimo italiano, un po' per effetto del secondo umanesimo alla francese, le cose dell'arte e della letteratura in Europa erano venute molto a mal partito. Gli epigoni di Sofocle e di Virgilio si capiscono, ma gli epigoni di Corneille e di Racine si capiscono molto meno. Onde era naturale che una reazione si manifestasse, e si manifestò molto validamente in Germania, dove ad Amburgo, come anche ad Amsterdam, per opera di un gran critico, ch'era nello stesso tempo un artista geniale, di Efraimo Lessing, sorse la reazione contro il gusto francese, e specie contro quei canoni della Poetica francese, che metteva là dei tipi immobili, ai quali bisognava tutti dovessero conformarsi, accettando così una legge di inevitabile decrescimento, di inevitabile degenerazione. E intorno al Lessing voi sapete che si raccolse tutta una pleiade di uomini valorosi, il cui lavoro costante fu di far prevalere, in tutti i rami della cultura e dell'arte, alla imitazione le originalità.

Uno degl'impulsi, una delle forze che contribuirono a far crollare le leggi tiranniche sulle quali si reggeva tutto questo pseudo classicismo alla francese, fu appunto lo studio dell'antichità veduta e ammirata non più attraverso il diaframma nebuloso delle dottrine rettoriche venute dopo, ma per se stessa investigata e guardata a faccia a faccia nei suoi grandi modelli, nei suoi insuperabili esemplari. Ond'è che a buon dritto gli storici tedeschi del romanticismo mettono fra i precursori più validi di esso, fra i precursori cioè di quanto ebbe di positivo e di immortale la riforma romantica, il Winckelmann, lo stesso Lessing, l'Herder, il Wieland, il Goethe e gli altri studiosi e profondi spiriti tedeschi, i quali, realmente liberi, fecero fare un gran passo alla libertà dello spirito, portandolo dall'ammirazione delle opere imitative alla contemplazione pura e genuina dei grandi modelli d'arte, come li aveva dati a noi genuinamente la sacra antichità.

In Francia il movimento romantico (dopo aver dato un gran precursore in Giangiacomo Rousseau) resistè, ritardò un po' più a manifestarsi, e dovette essere in qualche guisa aiutato dalla Germania. Ma in Francia, per agevolarne il cammino e affrettarne il successo, v'era un'altra gran forza, la forza della rivoluzione francese, la quale avendo portato un movimento di ribellione in tutte le facoltà dello spirito e in tutte le umane discipline, anche l'arte e la letteratura non potevano a lungo non risentirsene e rimanersi sotto il giogo della tradizione. La Marsigliese non risuonava solo per le piazze, sui campi di battaglia. Quando lo spirito umano è in moto di ribellione, tutto si ribella; quando è inclinato ad assoggettarsi e a servire, tutto si assoggetta e tutto serve. E questo è il fenomeno che vi spiega come in Francia arrivarono un po' più tardi che in Germania, ma fecero poi molto rapidamente il loro cammino. Gli accenni di modernità, di emancipazione, che già cominciano nelle opere di Diderot e di Bernardino di Saint-Pierre, diventano falange impetuosa e vittoriosa quando il visconte di Châteaubriand e Madama di Staël e qualche altro levano la bandiera della riscossa. Torna di moda in Francia il vecchio grido: Chi ci libererà dai Greci e dai Romani? Il quale grido, spoglio di ogni esagerazione e irriverenza, voleva poi dire, tradotto in lingua giusta e reale: «Chi ci libererà da tutta questa rettorica, da tutto questo bagliore di grecismo e romanesimo convenzionale e posticcio, che dal secolo di Luigi XIV ormai hanno messo dinanzi a noi, come un gran muro di cartapesta che ci toglie la pura visione dei veri capolavori antichi, e la pura contemplazione della santa natura, fonte di ogni arte e di ogni bellezza?» La voce quindi del visconte di Châteaubriand e il libro di Madama di Staël – frutto della sua dimora in Germania, e della sua intimità non sempre totalmente platonica con lo Schlegel – fece sì che il movimento romantico in Francia, se tardò un poco, compensò il ritardo con un rapido movimento verso la mèta.

La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III

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