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IL ROMANTICISMO
III

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Ma l'Italia non era disgregata dalle altre nazioni, e anche sull'Italia, massimamente nella parte più animata e più civile, doveva fortemente ripercuotersi l'influsso della agitazione letteraria, che si faceva sempre più gagliarda in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ed ecco che anche fra noi si comincia a parlare di romanticismo vero e proprio. I due suoi araldi più prossimi furono Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte. Ugo Foscolo che nell'Jacopo Ortis deriva dalla invenzione di Volfango Goethe una così gagliarda e poetica imitazione, elevandola a creazione vera, là dove fonde la tragica passione d'amore col sentimento doloroso della decadenza d'Italia: Ippolito Pindemonte, che col suo estro mite e gentile comincia a esumare a uno a uno tutti i temi, che diventeranno poi argomento favorito della poesia romantica qualche anno dopo. Egli canta i lari domestici, i viaggi attraverso l'Europa, canta le dorate selve, canta la Malinconia, Ninfa gentile – singolare accoppiamento dove è ancora un baleno della reminiscenza classica, e dove è già l'alito della poesia nuova, che viene dai laghisti inglesi, che viene dalla scuola dei paesisti di Zurigo, che viene dal naturalismo germanico e dalle pagine di Rousseau e di Bernardino di Saint-Pierre. Anche nel buon Ippolito noi sentiamo già gli aliti precursori del nuovo spirito letterario, i primi accenni della nuova intonazione poetica che poi prenderà una così grande accentuazione nella letteratura italiana. Ed è quello stesso Pindemonte, o Signore, che pur rimanendo compreso di grande ammirazione davanti all'evocazione classica di cui tanto abbonda il Foscolo nei suoi Sepolcri, non teme di muovergli un discreto rimprovero, – Ma perchè hai tu voluto pescare nella remotissima antichità mitologica ciò che potresti invece trovare in tempi più vicini a noi, nella vita che viviamo noi, nei dolori di cui soffriamo, nelle speranze di cui l'anima nostra si riempie? Antica sia l'arte onde vibri lo strale, ma non sia antico l'oggetto a cui mira! Al suo poeta, non a quello di Cassandra, Ilio ed Elettra dell'Alpe e del mare, farà plauso l'Italia.

Ad affrettare in Italia il movimento romantico concorse notevolmente la venuta fra noi di alcuni illustri antesignani della scuola: come lo Schlegel, lo Châteaubriand, il Sismondi, Madama di Staël (che molto bene si affiatò con Vincenzo Monti), Giorgio Byron ed altri. Così arriviamo ad avere anche fra noi una scuola che, a viso aperto, si dice romantica; che ha dei seguaci, che ha degli avversari, che entra insomma in campo con tutti gli armamenti di una gran battaglia; e questa battaglia essa la vuol dare, e la vuol vincere, proprio là dove batte più fervido il cuore alla nazione italiana, a Milano, verso il tramonto del primo regno italico. Uno di quelli che parlano più alto, più potente in nome del romanticismo è Giovanni Berchet con la lettera famosa intitolata Lettera semiseria di Crisostomo, nella quale egli accompagna tradotte due ballate di un celebre poeta tedesco. Il cacciatore feroce e l'Eleonora. Esse sono due fantasticherie nordiche, raffiguranti un mondo, che non sarà mai il nostro e che non potrà mai intonarsi bene con la letizia del cielo italiano. A ogni modo il Berchet – infelice nella scelta degli esempi – si vale di queste due forti ballate tedesche per bandire alle turbe italiane il verbo della letteratura nuova. In mezzo a molte parole e idee non sempre esatte e raccomandazioni non del tutto opportune, la Lettera semiseria mette innanzi questa formula semplicissima: La Poesia deve essere l'espressione diretta della vita. Non vi paia poco, o Signore! Per lo addietro un artista, un poeta quando voleva trattare un soggetto, era tratto anzitutto a pensare quali grandi poeti, quali grandi artisti, avessero già trattato cotesto soggetto, e per una specie di orientazione inevitabile si metteva, più o meno, ad imitare. Adesso invece veniva innanzi il buon Crisostomo a dire: «La Poesia è l'espressione diretta della vita.»

Giovanni Berchet era tutt'altro che un dispregiatore della grande e sacra antichità. – Ammiriamo gli antichi, diceva, ma ricordiamoci che il poeta, l'artista deve studiare e sentire la vita, deve mettersi in faccia alla natura, e di lì assumere la viva e costante ispirazione. La Poesia deve essere viva come l'oggetto che esprime: libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme che ella assume non costituiscono l'essenza di lei, – notate anche questo – ma contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle intenzioni. – Con questa sentenza del poeta è gettato un grande scompiglio in tutta l'antica gerarchia artistica e letteraria; è insomma sostituito ciò che quella buona lana di Pietro Aretino tre secoli prima aveva chiamato il «furor proprio» d'ogni artista e d'ogni poeta, ai canoni dei trattatisti e ai precetti della rettorica invalsa nella scuola.

E l'impulso del Berchet non rimase senza grandi frutti. Alla sua iniziativa personale seguì un'iniziativa più collettiva, più poderosa.

Come nacque Il Conciliatore? Il Conciliatore fu – il vocabolo stesso lo esprime – un tentativo assai naturale e assai lodevole di trovare il termine medio col quale potessero comporsi ragionevolmente i vari contendenti che già venivano ai ferri corti. La battaglia fra romantici e classici, specialmente a Milano e in Lombardia, cominciava a infervorarsi, a prendere un aspetto di accanimento e minacciava di oltrepassare la misura. Dal canto suo, il governo austriaco cominciava ad adombrarsi di tutte queste novità. Troppa politica indovinava dietro quelle questioni letterarie perchè potesse considerarle indifferente e tranquillo. Per quella legge di consenso a cui io vi accennava nel principio del mio discorso, l'astuta Austria di Metternich capì che non vi sono rivoluzioni isolate, e che una volta dato il risveglio allo spirito di un popolo, tutte le energie di rivendicazione sono facilmente tirate in campo. Nessuna meraviglia dunque che l'Austria guardasse con gran diffidenza al moto romantico; nessuna meraviglia che favoreggiasse la Biblioteca italiana, giornale che ebbe molta importanza, perchè vi scrivevano Monti, Giordani, l'Acerbi direttore e altri scrittori di polso, tutto inteso a mantenere sacri e inalterati i canoni dell'arte antica.

Frattanto in casa del buon Luigi Porro Lambertenghi si accoglieva uno stuolo di spiriti giovanili, nobili, volenterosi, che non potevano non guardare con simpatia e con fede verso l'avvenire. Accoglievano tutti le teorie romantiche, se non come un sistema di verità, almeno come qualche cosa di vivo, di giovanile e promettente per la cultura italiana. Romantici adunque, ma temperati e alieni dal proposito di spingere la lotta agli ultimi estremi. Quindi intitolarono il loro giornale Il Conciliatore e vi sovrapposero un motto latino, che voleva dire: «Fra i discordi pareri, quando i disputanti abbiano senno e onestà di volere, balza sempre fuori qualche utile verità.» Tanto era infatti lo spirito di conciliazione che animava questi nuovi romantici, che per un momento pensarono di offrire la direzione del Conciliatore nientemeno che a Vincenzo Monti, ossia all'autore del Sermone, al rappresentante più glorioso e più rigido della tradizione classica, secondo il pensiero dei più. Volevano essere tolleranti fino all'assurdo!

Il Monti – dopo avere un po' tentennato – rifiutò l'ufficio, e rimase fedele alla Biblioteca italiana, che lo pagava molto bene. Allora i giovani scelsero per loro capo un giovane, Silvio Pellico, che si era già reso celebre per dei felici esperimenti di tragedia, in cui alitava uno spirito di grande affettuosità e di gentilezza cavalleresca, che ristorava e riposava gli animi dopo tanta fierezza alfieriana e dopo la magniloquenza cupa dell'Aristodemo. Col direttore giovane, il giornale seguitò le sue pubblicazioni quasi un anno. Ma ecco improvvisamente intervenire l'Austria! Il povero Silvio Pellico è fatto prigioniero, mandato a Venezia, di là allo Spielberg. Segue tutta la triste odissea delle carcerazioni, dalla quale doveva uscire il libretto Le mie prigioni che fu uno dei documenti di sincerità letteraria più ammirevole. Dinanzi a quel libretto, l'espertissimo e classicissimo Pietro Giordani diceva che non si sentiva capace di scriverne. Vero documento sintomatico di quello che voleva essere l'arte nell'avvenire, di quello che dovrebbe essere l'arte di tutti i tempi, cioè la rivelazione dell'animo illuminata da un ideale alto e gentile.

Di tutto questo gruppo, alcuni ebbero sorte simile a quella del Pellico, come il Romagnosi e il Gioia; altri del Conciliatore scomparvero coll'esilio volontario come Giovita Scalvini e il Berchet: altri si ritrassero a vita prudente. In sostanza, dispersione completa; e guardando alle sole apparenze, ormai si sarebbe potuto dire che il romanticismo in Italia era finito. E sarebbe finito poco gloriosamente, in senso letterario.

Ma se il romanticismo non aveva ancora avuto modo di illustrarsi in Italia con grandi opere, aveva però diffuso una teoria nuova e più che una teoria una specie di nuovo istinto, il quale doveva esercitare una grande influenza sopra tutte le produzioni letterarie ed artistiche. Basta volgere uno sguardo ai libri esciti in questo tempo, per convincersi che è passato qualche cosa nell'animo degli scrittori. Una vera e propria novità, la quale attende una potente affermazione: una vera e propria novità, ricca di un grande avvenire. La natura è considerata con un aspetto nuovo, si costituiscono come tanti piccoli centri di immagini, di traslati, di movimenti ritmici. Il sentimento della natura esteriore è mutato; la visione della vita è diversa. Prose e poesie vi danno l'idea di una tastiera che è percorsa da un'altra mano, da una mano più leggiera, la quale cerca di preferenza i toni minori, patetici, insinuanti, toccanti. La nuova arte vuol discendere più a fondo nel cuore umano: e quando contempla la natura e la descrive, vuol istituire una specie di nuova e più intima simpatia fra il cuore umano e la natura. Nel fondo a questo cuore umano essa trova una profonda malinconia.

Il secolo passato era stato un secolo di grandi speranze e promesse; quindi naturalmente era stato il secolo dell'ottimismo. Gli uomini avevano sognato, avevano sorriso all'avvenire. Si era immaginato che mutando le leggi, modificando e migliorando gli istituti pubblici, questo dramma della vita, di triste che era, sarebbe diventato giocondo, trionfale, perfetto. Invece si erano modificate le leggi, erano avvenuti grandi movimenti politici, erano caduti dei troni, delle repubbliche si erano innalzate: ma da tutto questo la nostra civiltà europea occidentale aveva ricavato un'esperienza tutt'altro che lieta. I vecchi mali, non che guariti, parevano moltiplicati e cresciuti! S'avanza il Pessimismo, che avrà poi in Arturo Schopenhauer il suo metafisico. Intanto si estrinseca, si personifica, ha i suoi tipi viventi, che si chiamano il giovane Werter, Jacopo Ortis, Oberman, Renato e via discorrendo. E tutta questa malinconia che il romanticismo cerca nel cuore umano, effonde dal cuore umano, egli la rispecchia volentieri nella natura esteriore. Ed è curioso come a certi motivi prevalenti di paesaggio classico, se ne sostituiscano altri; in ogni cosa vedete il cambiamento. Se si tratta del mondo vegetale, mentre i vecchi poeti vi parlavano così volentieri del pioppo, dell'olmo e del platano; invece i poeti nuovi più volentieri vi parleranno di cipressi e di salici piangenti. Gli arcadi e i neoclassici pare non abbian lingua che per descrivervi le rosee tinte dell'aurora; i romantici invece sono innamorati della sera e del tramonto. Il buon Bertòla, vissuto nell'ultimo del secolo passato, commentando con un lungo commento gli idilli del Gessner, domandava: «Ma perchè gli scrittori italiani parlano sempre dell'aurora e mai della sera? È tanto bella anche la sera, ha delle tinte così vaghe, così insinuanti, infonde nell'animo uno spirito così gentile!» Voi sapete se la meraviglia del Bertòla doveva essere appagata, e se della sera doveva esser parlato anche troppo! Così pure i poeti neo-classici parlan molto del sole e poco della luna: laddove i romantici lascian volentieri da parte il sole, e amano di darsi alla pensosa contemplazione della luna – «luna, romita, aereo – tranquillo astro d'argento». Sono tutti particolari forse singolarmente di non grande valore e sui quali non posso lungamente distendermi; ma essi provano nel loro insieme che in tutti gli strati della letteratura e dell'arte italiana cominciavano a esser compenetrati e permeati da questo spirito nuovo, che corrispondeva alle nuove condizioni psicologiche della civiltà cristiana occidentale.

Quello però che ancora mancava era una poderosa azione artistica individuale: mancava un grande artista. Se ci fossimo fermati al Conciliatore e alla dispersione tragica dei suoi scrittori, il romanticismo in Italia sarebbe stato più che altro un prologo di dramma senza il dramma, sarebbe stato un peristilio senza la casa. Per fortuna l'Italia ebbe un grande artista in Alessandro Manzoni. Il quale diventò il capo naturale del romanticismo italiano, ma senza averlo voluto, somigliante in questo – ed è somiglianza di grande significato – al suo grande confratello Volfango Goethe. Voi sapete che mentre i romantici tedeschi si affollavano intorno al Goethe e lo pregavano di mettersi alla loro testa, l'olimpico uomo molto volentieri li disdegnava, chiamandoli una scuola morbosa.

Or bene: quella funzione che questi compì, quasi non volendo, verso i romantici tedeschi, la compì il nostro Alessandro Manzoni, anche egli a malincuore, verso i romantici italiani. Ed esso sulle prime non voleva saperne; e non lo vedete mai comparire fra i compilatori del Conciliatore. Egli si tiene volentieri in disparte; ma l'animo suo è tratto alle file dei giovani combattenti, verso il movimento nuovo; ond'è che, quasi senza accorgersene, diventa egli il capo vero e visibile del romanticismo in Italia. Paga un tributo di gran rispetto al classicismo personificato in Vincenzo Monti e lo saluta con quattro versi melodiosi, quasi per sdebitarsi con la sua grande ombra; e poi sereno e tranquillo, come comportava l'indole sua, si mette a capo dei romantici italiani.

Questo fatto decise della fortuna storica del romanticismo in Italia; perchè (mi piace di ripeterlo) se noi non avessimo avuto che dei Berchet e dei Pellico, dei Romagnosi, dei Borsieri, dei Visconti e dei Giovanni di Brême, e tutti quei romanzieri e poeti minori, con le loro perpetue romanze alla luna e ai salici piangenti, il romanticismo italiano sarebbe stato cosa effimera e la storia non ne parlerebbe, se non come d'un episodio inconcludente o almeno di poca importanza nell'evoluzione dell'arte e della letteratura nazionale. Il Manzoni mette questo grande suggello nel romanticismo italiano, perchè fa del romanticismo qualche cosa che sostanzialmente diversifica da tutti gli altri moti letterari contemporanei. Quando entra in campo il gran lombardo cogl'Inni, colle Tragedie, con la Morale Cattolica e soprattutto col Romanzo, il Manzoni, mentre consente nel concetto fondamentale del movimento europeo, sa creare in esso qualche cosa di distinto e di staccato, qualche cosa di propriamente nostro e di omogeneo al genio italico. Così vien fuori la grande serenità naturalistica dei Promessi Sposi, e ne esce il ritmo calmo e solenne degl'Inni, ne esce quello zampillo, sia pure scorretto in qualche parte, ma luminoso e meraviglioso di lirica che è il Cinque Maggio.

Ne volete una prova? Quando entra in campo il Manzoni, il romanticismo italiano, da prima titubante e poco considerato, diventa presto una scuola conquistatrice e vittoriosa, e a poco a poco tutte le resistenze cedono, tutte le fronti più o meno piegano. Ne avete un esempio nei vostri due più grandi scrittori toscani della prima metà di questo secolo, Guerrazzi e Niccolini, i quali per indole, per tradizione, per ideali politici e religiosi di tanto si disformavano dall'andamento e dagli intendimenti manzoniani. Eppure, anch'essi sono attratti a poco a poco in questa grande orbita di innovamento. E Giambattista Niccolini, che muove dalle ravvivate forme all'antico colla Polissena e sulle prime guarda con diffidenza e talvolta con fastidio ingiurioso allo influsso lombardo, finisce coll'Arnaldo da Brescia, ossia, cioè, coll'allargare il suo modulo drammatico al di là di quegli stessi confini che lo stesso Manzoni aveva determinati. Il Manzoni non domandava tanto, ma l'impulso era dato: il grido del risveglio risonava ovunque; tutti erano trascinati in questa viva corrente che andava verso l'avvenire.

Così, o Signore, – non permettendomi il tempo di estendermi più oltre – a me basta di aver affermato un concetto, che in altra occasione potrebbe venire l'opportunità di svolgere: voglio dire che il romanticismo italiano si differenziò da tutti gli altri romanticismi europei, che si manifestò conforme alla nostra indole e tradizione latina per opera di Alessandro Manzoni. Fu principalmente suo merito se il romanticismo, entrato nella grande orbita della latinità, vi si svolge in modo armonico ai caratteri essenziali dello spirito del popolo italiano. Non dico in modo perfetto, perchè difetti ce ne sono dappertutto e perchè il romanticismo, se è movimento legittimo quando lo consideriamo come una generica aspirazione degli animi, diventa una cosa imperfettissima quando vuol essere una sintesi, un sistema di legislazione estetica che rinserri, comprenda e disciplini tutti gli elementi, tutte le forze, tutti i confini di questo moto.

Mercè massimamente l'opera del Manzoni, noi avemmo una fase del gran movimento letterario mondiale da potere, non solo senza vergogna, ma con legittimo orgoglio, contrapporre alle fasi che ha assunto il romanticismo in Germania, in Francia e in Inghilterra.

La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III

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