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LIBRO TERZO
CAPITOLO XI
ОглавлениеTerminando in questo tempo la lotta della independenza e principiando un periodo più culto, è bene rassegnare gli elementi civili che rimaneano.
Le vicende dei Cristiani nella prima metà del decimo secolo mostrano ch'e' tenessero tuttavia il lato orientale dell'isola. Ibrahim-ibn-Ahmed avea distrutto sì loro fortezze; ma le guerre civili impedirono ai Musulmani di porre colonie in quelle parti. Però non avvi ricordo d'alcuna terra di Valdemone o Val di Noto nella sanguinosa storia di Khalîl, nè in altra rivoluzione della colonia fino al novecensessantanove; però nella guerra di Manuele Foca (964) i Bizantini sbarcarono come in luoghi amici per tutta la costiera da Messina a Lentini. E cotesta guerra si accese appunto, perchè i Musulmani voleano porre stanza e possedere terreni nella Sicilia orientale.466
Regione fatta squallida e desolata, a dispetto della natura, in quel dubbio confine di due epoche; quando la dominazione bizantina, nell'andarsene, le avea lasciato il tristo retaggio di suoi vizii sociali; e i Musulmani, anzichè veri padroni, eran tuttavia nemici, liberi sì di correre la provincia. Di certo mancar dovea l'agricoltura con la popolazione, diradata dalle stragi d'Ibrahim e dalle emigrazioni in Calabria e altri paesi cristiani; e n'è prova la lunga carestia, nella quale una metà dell'isola non bastava a sfamar l'altra metà afflitta dalla guerra civile.467 Con la ricchezza e con la popolazione si dileguavan anco gli ultimi avanzi di coltura intellettuale; talchè sparisce in questo tempo ogni vestigio di scrittori cristiani di Sicilia.468
La stessa religione par abbia perduto nelle province orientali, se non la speranza ch'è sua radice, certo gli effetti esteriori che mostran viva la pianta. Mancano infatti le memorie ecclesiastiche di quel periodo. Nessuna agiografia ne abbiamo; se non che l'autore anonimo della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto vagamente parla della gran copia di “veggenti in Dio” che vissero in Sicilia (964), dei quali nomina il solo Prassinachio; com'e' pare, romito, stanziante in su lo Stretto di Messina; uomo famosissimo per pietà, e per avere presagito la sconfitta di Manuele Foca.469 E quest'abbondanza di profeti è pur segno infallibile di presente miseria, di che la ragione umana vegga chiusa ogni uscita. Torna alla stessa, alla precedente generazione, Ippolito vescovo di Sicilia, non sappiamo di qual città, autore di certi vaticinii molto oscuri su la caduta della potenza musulmana, i quali erano in voga a Costantinopoli nella seconda legazione di Liutprando.
Nè è da lasciare inosservata cotesta strana appellazione di vescovo di Sicilia, che comparisce a un tratto alla metà del decimo secolo. Oltre Liutprando, l'adopera la Cronica di Cambridge, parlando d'un Leone che fu mandato in ostaggio a Palermo nel novecenventicinque;470 dond'è evidente aver que' due scrittori ripetuto un modo di dire che correva in Palermo e in Costantinopoli verso il novecensessantotto, quando vissero entrambi. I titoli canonici delle sedi siciliane non erano al certo mutati; ma supposto che ne rimanesse in piedi una sola, il vescovo comunemente si dovea chiamar di Sicilia, non di tale o tal città. E fors'era quello di Taormina.
Cotesti indizii messi insieme provano il picciol numero a che era ridotta la gente greca e italica della Sicilia orientale e la vita che vivea di stenti, di fatiche, di pericoli. Le città independenti eran fatte tributarie dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed; spezzato pertanto ogni legame con l'impero bizantino, tanto più dopo la pace che fermò l'impero coi califi fatemiti.471 Costantino Porfirogenito, in fatti, nella descrizione delle province, confessa perduta l'isola di Sicilia, le cui città, dice egli, “parte son abbandonate, parte si tengono dagli atei Saraceni.”472 Che se rimase negli almanacchi di corte il tema di Sicilia, significava soltanto la Calabria che una volta ne avea fatto parte; consolandosi la povertà bizantina con dare all'accessorio il titolo del principale: onde il governatore si chiamò promiscuamente stratego di Sicilia, stratego di Calabria e anche duca di Calabria.473 Le popolazioni tributarie di Sicilia reggeansi necessariamente a municipio;474 soddisfaceano il tributo quando non poteano ricusarlo impunemente; rialzavan le mura per poco che i Musulmani non ci badassero; e di tratto in tratto, or adescate da occasione propizia, ora esasperate da sopruso de' vincitori, ritentavan la prova di resistere. Taormina così; così qualche altra rôcca di Val Demone. Del Val di Noto non si fa motto, dopo la caduta di Siracusa e delle città dell'Etna. Forse la popolazione, menomata delle migliaia che si menavano in schiavitù in altre parti dell'isola475 o fuori, rimase sì poca e sparsa che nulla osò, e niuno parlò di lei.
Mi conferma in tal supposto la sovrabbondanza di abitatori che si notava a ponente del Salso; a spiegar la quale non basterebbero nè le migrazioni dall'Affrica, nè il naturale accrescimento di popolo che prosperi. Del fatto non si può dubitare. Ibn-Haukal, venuto in Palermo il novecentosettantadue, fornisce dati da ragionare la popolazione della capitale a più di trecentomila anime.476 Khalîl, trent'anni prima fece morire oltre secentomila persone nel Val di Mazara, esclusa Palermo, dove l'efferato animo non trovò pretesto a sfogarsi. A suppor dunque distrutto in quattro anni (938-41) un terzo della popolazione della provincia musulmana, il Val di Mazara, cioè, con Palermo, le si debbon dare innanzi il novecentrentotto due milioni d'abitatori, quanti ne ha adesso tutta l'isola. Men della metà erano Musulmani.477
Quanto alle schiatte, credo gran parte di tal popolazione antichi abitatori della Sicilia tutta, ridotti in Val di Mazara; tra liberti, vassalli e schiavi, tra cristiani, rinnegati e giudei:478 questi ultimi stanziati nelle città; gli altri, in città e ville. Non occorre di replicare ciò che dicemmo degli antichi coloni musulmani. Ma quei venuti d'Affrica nella prima metà del decimo secolo, furono di tre maniere: industriali, soldatesche, e rifuggiti. Pei primi non sarebbe necessario allegare testimonianze e poche possono rimanerne: pure abbiamo il ricordo d'un Sa'îd-ibn-Heddâd, di famiglia artigiana come lo accenna il nome patronimico, al quale, sotto il regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, morì in Sicilia un fratello che gli lasciò quattrocento dînar, guadagnati com'ei pare, con alcuna industria.479 Dal novecento al novecentrentanove quattro grossi eserciti erano stati mandati a ripigliar lo stato in Sicilia; un altro (902) e parecchi stuoli minori vi erano passati andando in Calabria. Ma di cotesta massa soldatesca di Berberi, Negri, Slavi e milizie arabiche d'Affrica, sbarcati nell'isola in men di mezzo secolo, chi fu spento, chi se ne tornò; picciola parte è da supporre rimasa a soggiorno: e di ciò si ha indizio pei soli Slavi, che diedero nome al più grosso quartier della capitale.480 Sembra di maggiore importanza, per lo numero e per la qualità degli uomini, la migrazione dei partigiani di casa aghlabita e dei fervidi ortodossi che lasciavano l'Affrica, per paura o dispetto, al mutamento della dinastia e alle varie persecuzioni che seguirono. Ai quali la Sicilia era asilo, come paese più lontano dagli occhi sospettosi dei governanti e come quello che odiava i Fatemiti e vivea più o meno apertamente in rivoluzione.
E cresciuta la popolazione, cessate le continue guerre del conquisto, incominciavano a metter fronde, se non per anco fiori e frutti, gli studii; sturbati sì nelle guerre d'independenza dal romor delle armi, ma molto più promossi dal principio civile che accompagna i moti politici e fa lor precedere o seguire da presso lo svegliamento degli ingegni. Favoriva anche gli studii il contatto più familiare coi vinti, la liberale educazione e dottrina dei rifuggiti d'Affrica e l'esempio dei giuristi mandati a tenere i magistrati.
Per cominciar dagli avanzi dell'antica civiltà del paese, ricorderemo l'opera che prestò un dotto siciliano nella versione della materia medica di Dioscoride. Aveva abbozzato questo gran lavoro a Bagdad verso la metà del nono secolo, Stefano cristiano di Siria; il quale, sapendo la lingua meglio che la scienza, tradusse i nomi dei semplici più ovvii, e di molti altri trascrisse la denominazione greca senza il riscontro in arabico. Si doleano dunque della imperfetta versione i medici che fiorirono sotto gli Omeiadi di Spagna, quando del novecenquarantotto, trattato un accordo tra Romano imperatore di Costantinopoli e l'omeiade Abd-er-Rahman-Naser-lidin-illah, Romano gli inviò, tra gli altri doni, il testo latino delle storie di Paolo Orosio ed un manoscritto greco di Dioscoride, con belle miniature delle piante. Deste a ciò le speranze dei dotti di Cordova, come ci narra Ibn-Giolgiol che fu medico della corte nel regno seguente, il califo Abd-er-Rahman richiedeva a Romano un interprete di greco e di latino; e mandatogli del novecentocinquantuno il monaco greco Niccolò, fu riveduta o piuttosto rifatta la versione con l'aiuto dei disegni. Se ne dèe merito a parecchi medici arabi di Spagna, al dotto medico giudeo Hasdai-ibn-Bescrût, all'interprete Niccolò ed al siciliano Abu-abd-Allah, che parlava l'arabo e il greco e conoscea la materia medica; tantochè la difficile interpretazione tecnica fu compiuta, nè altro rimase ad appurare che una diecina di semplici di poco rilievo. Fin qui Ibn-Giolgiol, il quale in gioventù conobbe e praticò tutti i collaboratori. Del Siciliano altro ei non dice; ma ben si può supporre di schiatta greca e convertito di fresco, non avendo nome patronimico, e prendendosi sovente dagli uomini nuovi il nome proprio di Abd-Allah, che significa servo di Dio.481 Possiamo supporre di gran momento la cooperazione sua, poichè si narra di lui solo che unisse le nozioni tecniche alle filologiche.
Dalla medicina passiamo di sbalzo alla giurisprudenza; non concedendo quadro più compiuto le memorie che abbiamo. Ma se giurisprudenza vuol dir la base d'ogni civiltà; se l'incivilimento europeo si debbe alla legge romana, più che a niun altro libro o istituzione; lo studio del dritto ebbe nell'islamismo confini assai più larghi e maggiore influenza civile e letteraria che nell'Occidente pagano o cristiano. Accennammo già la importanza politica dei giuristi musulmani dell'ottavo e nono secolo.482 Lo studio loro abbracciava tutte le scienze che noi chiamiamo morali e politiche, trascorrea fino alla teologia, chiamava la filologia a darle aiuto nella interpretazione del Corano, adoperava la biografia come strumento di critica della tradizione, arrivava alle soglie della matematica computando le tasse legali e le frazioni nel partaggio delle eredità. Però non fa torto all'Affrica se non coltivò con onore altra scienza che questa. Ve la illustrarono nel nono secolo Ased-ibn-Forât, conquistatore della Sicilia, e Sehnûn;483 entrambi della scuola di Malek. Nè tardò molto a passare in Sicilia mediante i discepoli di Sehnûn. Fra i quali levò grido un Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf morto in Susa il novecentotrè in odore di santità484 e maestro del siciliano Abu-Bekr-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia, coreiscita, devoto famigerato.485 Più che la voce di tal discepolo, giovò una grande opera di Iehia-ibn-Omar, intitolata “Comandamenti della fede e leggi dell'islâm,” la quale si leggea nelle scuole di dritto di Sicilia e d'Affrica, e chiamavanla comunemente il Libro dei Miracoli. Vivendo l'autore, un liberto degli aghlabiti, diligentissimo editore,486 s'era venduto il giubbone per comperare pergamena vecchia487 da copiar questa o altra opera di Iehia-ibn-Omar; e, com'egli ebbe fornita la copia, un altro zelante e povero letterato fe' lungo viaggio a piedi per amor di leggerla e trascriverla. Parecchi anni appresso un giurista siciliano o stato nell'isola, infervorato del Libro de' Miracoli sel vide in sogno tutto illuminato d'una luce che scendea dal cielo. A tal venerazione era giunta l'opera d'Iehia e la scienza ch'ei coltivò! In Palermo insegnava per quattordici anni la Modawwana, celebre manuale di dritto secondo Malek, il professore Abu-Sa'îd-Lokmân-ibn-Iusûf, della tribù arabica di Ghassân, trapassato a Tunis il trecentodiciotto dell'egira (930-31); martire della didascalia, s'egli è vero che morì d'una piaga fattasi al costato con l'angolo della tavola sulla quale solea scrivere e spiegare il testo. Si nota di costui che possedette dodici rami diversi di scienze;488 nè fa maraviglia, atteso la vastità degli studii che rannodavansi al dritto.489
Segnalossi tra i discepoli di Sehnûn, per dottrina e austera integrità, un Abu-'Amr-Meimûn-ibn-'Amr, il quale diè alla Sicilia bell'esempio delle virtù di magistrato. Promosso a cadi dell'isola, da delegato ch'egli era al tribunale dei soprusi di Kairewân, andando a Susa per imbarcarsi, Meimûn si volse alla gente che gli dava il buon viaggio. “Cittadini,” lor disse, “ecco la giubba e il mantello che ho indosso; ecco lo zaino coi miei libri, e cotesta schiava negra che mi fa i servigi di casa, con una giubba e un mantello nè più nè manco di me: ponete ben mente, e vedrete in che arnese tornerò di Sicilia.” Giunto in Palermo, come poi narrò il siciliano Sa'îd-ibn-Othman, e condotto alla casa dei cadi, Meimûn quando la vide, ricusò d'entrarvi, dicendo non saper come acconciarsi in sì gran palagio; e volle albergare in una picciola casetta. Dove, senza aguzzini nè uscieri, quando alcun picchiava alla porta, correa la negra ad aprire, rispondeva: “or ora parlerete al cadi;” e chiamatolo, se ne tornava a filare per vendere il refe e supplire allo scarso mantenimento del padrone. Il qual magistrato non è a dire se fosse caro a tutta la città. Poi si ammalò. Non vedendolo uscir di casa da tre dì, gli amici, andati a visitarlo, lo trovarono giacente, in vece di tappeto, sopra una stuoia di papiro, manifattura indigena,490 appoggiando il capo su due cuscini imbottiti di fieno. Piangendo lor disse avere atteso all'oficio, che n'era testimone Iddio, finchè gli eran bastate le forze; nè li avrebbe abbandonati giammai se non fosse stato per quella incurabile infermità che si sentiva. Volle andare a morire in patria. E quando partì: “Che Dio vi conceda un successore miglior di me,” furon le ultime parole di Meimûn ai Palermitani; e quelli a benedirlo ed a pregargli salute. Nè dimenticò, messo il piè a Susa, di mostrare alla gente il sacco dei libri, le vestimenta fatte più logore e la stessa schiava.491
Per certo le relazioni politiche con l'Affrica fruttarono alla Sicilia un utilissimo commercio d'idee e di studii. Si novera tra i discepoli di Sehnûn, un Diama-ibn-Mohammed, morto il dugentonovantasette (909-910), ch'era stato cadi di Sicilia sotto gli Aghlabiti.492 Con l'insegnamento ortodosso trapelavan anco i novelli ardimenti filosofici dei Musulmani; sapendosi che il giureconsulto Abu-Giafar-Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi, com'ei pare, oriundo persiano, trapassato in Sicilia del dugentonovantatrè (905-906) era forte sospetto di miscredenza.493 Sembrano incominciati in Sicilia nella stessa metà del decimo secolo gli studii filologici; poichè il primo Siciliano lettor del Corano e grammatico di cui si trovi il nome nelle raccolte biografiche, è Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân, liberto degli Aghlabiti, nato il trecentosei (918-19), di schiatta persiana anch'egli, se è da stare all'indizio del nome patronimico.494
Appariscono al tempo stesso in Sicilia i primi esempii d'una maniera di erudizione che fu molto in voga appo i Musulmani, dico i racconti biografici che correano nelle scuole e ritrovi dei dotti: officine delle effemeridi letterarie di quel tempo. Taluno li messe in carta; poi vennero i compilatori che ci hanno serbato cotesti materiali di Storia letteraria, chiamati per lo più Tabakât
466
Si vegga il Libro IV, capitolo III.
467
Capitolo X del presente Libro, p. 203-204 di questo volume.
468
Non va in questo periodo l'autore anonimo della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto di cui or or si dirà. Questo autore, probabilmente siciliano, visse nella seconda metà del decimo secolo. Il testo greco è nella Biblioteca imperiale di Parigi, Nº 1181; e M. Hase ne ha pubblicato uno squarcio in nota a Leone Diacono, edizione di Bonn, p. 442.
469
Leonis Diaconi Caloensis, l. c. L'anonimo dice che i Veggenti per virtù divina abbondavano in Sicilia com'ogni altro prodotto del suolo. Τὸ δὲ καὶ απὸ τινος τῶν ὲν τῇ χώρα δεοπτικῶν (πλεονεκτεῖ γὰρ καὶ τῇ τοῦτων φορᾷ τῆς ἄλλης εὺδηνιας οὺκ ἔλαττον.)
470
Liutprandi Legatio, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 485. “Hippolytus quidam Siciliensis episcopus.” La Cronica di Cambridge citata al capitolo VIII di questo Libro, p. 172, ha: “Leone vescovo della Sicilia;” nè la costruzione arabica permette d'interpretare “uno dei vescovi di Sicilia.”
471
Si vegga il cap. VII del presente Libro, p. 173.
472
De Thematibus, p. 58, ediz. di Bonn, tomo III, delle opere di Costantino: καὶ τὰς λοιπὰς πόλεις τὰς μὲν ἠφημωμένας, τὰς δὲ κφατουμένας παφὰ τῶν Σαρακηνῶν.
473
Costantino Porfirogenito, op. cit., p. 60, e De administrando imperio, p. 225.
474
Libro II, cap. XII, p. 470, 471 del primo volume.
475
Libro II, cap. VI e IX, vol. primo, p. 323, 325, 407.
476
Journal Asiatique, série IVe, vol. V, 1845, p. 105, nota 9.
477
Veggasi il Libro IV, cap. III, su la popolazione musulmana al 962.
478
V'era in Palermo un borgo di Giudei. Ibn-Haukal, nel Journal Asiatique, vol. cit., p. 97.
479
Riâdh-en-Nofûs, fog. 71 recto. Sa'îd morì il 302. Il biografo aggiugne che costui toccò i danari per favore di Ibrahim-ibn-Ahmed; non sappiamo se per aver tolto qualche difficoltà fiscale, ovvero per avergli fatto pagare i 400 dînar con tratta sul tesoro di Kairewân. Sa'îd, avvezzo a vita peggio che frugale, spese 200 dînar a fabbricarsi una casa; 50 in vestimenta; 50 in tappeti, stoviglie e altre masserizie; e ne serbò 100 per mantenimento del resto della sua vita. Di che riprendendolo gli amici, rispose che avea a ufo dei 100 dînar, poichè il quarto d'un rotolo di carne gli bastava una settimana. Il primo giorno, dicea, mangio il brodo delle ossa; il secondo quel dei tendini; dal terzo al sesto certi piatti di bietole mescolati or a fave, or a ceci, or a pastinache; e il settimo dì la carne!
480
Ibn-Haukal, Journal Asiatique, vol. cit., p. 93.
481
Squarcio della vita di Ibn-Giolgiol (in francese Djoldjol) per Ibn-abi-Oseibia, testo e versione di M. Sacy, in appendice alla Rélation de l'Egypte par Abdallatif, p. 549, seg., e 493, seg.
482
Veggasi il Libro I, cap. VI, e Libro II, cap. II, nel volume primo, p. 149, seg., 253, seg.
483
Questo era soprannome. Il nome intero Abu-Sa'îd-Abd-es-Selâm-ibn-Sa'îd-ibn-Habîb-ibn-Hasân-ibn-Helâl-ibn-Bekkâr-ibn-Rebia', della tribù arabica di Tonûkh. Così il Riâdh-en-Nofûs, fog. 39 verso. Confrontisi Ibn-Khallikân, versione inglese, tomo II, p. 131.
484
Si vegga il cap. IX di questo III Libro nel presente volume, p. 188. La data della morte si argomenta dal posto dato a questa biografia nel Riâdh-en-Nofûs, fog. 57 verso. Iehia-ibn-Omar spese seimila dînar per lo studio della giurisprudenza. Andò in Spagna, donde fu detto Andalosi; e in Oriente, dove fece, come tutti coloro che il poteano, un corso di lingua e poesia, dimorando nelle tende dei Beduini in Arabia. In cotesta peregrinazione scientifica, durata sette anni, consumò quasi il suo avere. Riâdh-en-Nofûs, l. c.
485
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.
486
Intendo non solamente copista, come suonerebbe tal voce nel medio evo, ma uom dotto che sovente compilava sul dettato dei maestri. Costui segnalavasi tra gli editori d'Affrica per tenace memoria e scrupolosa esattezza.
487
Il testo dice che costui, per nome Ahmed-Kasri (ossia del Castel vecchio presso Kairewân), non avendo da comperar carta, si vendè il giubbone e col prezzo acquistò dei rokûk. Tal voce secondo i dizionarii è plurale di Rekk, “carta o pergamena.” La definizione è vaga, o il senso variò coi tempi e i paesi. Ma leggiamo in Masudi, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 2, che la pomice di Sicilia si adoperava a radere lo scritto nei difter e nei rokûk. Indi mi par manifesto che quest'ultima voce significava, nel X secolo, “pergamena vecchia.” La voce che ho reso carta è wark. Si comprende poi benissimo che la carta nuova dovesse costare in Affrica assai più cara che i codici latini e greci, merce inutile, da ripassarsi con la pomice prima di adoperarli. Quanti preziosi Manoscritti antichi dovettero perire in questa guisa!
488
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.
489
Ce ne fornisce un esempio curioso il MS. della Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 277, fog. 100 recto, seg. In questa compilazione legale del secolo XVI si tratta tra le altre cose delle acque stagnanti delle quali fosse lecito far uso nelle abluzioni. Come la traduzione vuol che queste acque abbian certo volume, così il compilatore si crede obbligato a indicare i modi geodetici di misurar la superficie delli stagni, e fa a quest'effetto un lungo trattato con figure geometriche.
490
Aggiungo questo perchè Ibn-Haukal parla del papiro di Palermo, nel Journal Asiatique, série IVe, tomo V, p. 98.
491
Riâdh-en-Nofûs, fog. 77, verso. Ancorchè cotesta biografia si legga nel 316, sembra errore da correggersi 312, secondo l'ordine cronologico che comincia poco innanzi nel Riâdh. Secondo Dsehebi, Kitâb-el-'iber, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 646, tomo I, anno 320, seguì in questo anno la morte di Meimûn, ormai centenario, paralitico e rimbambito.
492
Baiân, testo arabico, tomo I, p. 160.
493
Op. cit., p. 138. Marwazi è nome etnico che si riferisce a Merw in Khorassân, ad un borgo di Bagdad, e fors'anco ad un villaggio. Veggasi il Lobb-el-Lobbâb di Soiuti, ediz. di Leyde, p. 242, con la nota t.
494
Makrizi, Mokaffa, MS. di Leyde 1366, al nome Mohammed; Soiuti, Tabakât-el-Loghawîn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 681, e MS. del dottor John Lee, allo stesso nome. L'epoca e la qualità di liberto degli Aghlabiti, fan supporre nato costui in Sicilia, ove si fossero rifuggiti i genitori. La famiglia par di origine persiana a cagion di quel nome di Korassân, quantunque non abbia la forma di aggettivo patronimico che sarebbe Khorassânî. I Beni-Korassân furon signori di Tunis nel XII secolo.