Читать книгу Letture sopra la mitologia vedica - Angelo De Gubernatis - Страница 3
AD ERNESTO RENAN.
ОглавлениеMio illustre e caro Signore,
Io non avrei bisogno di spiegare i motivi, per i quali desidero inscritto al nome di Ernesto Renan questo mio modesto volume, quando la gloria di un tal nome è tanta, che ogni studioso potrebbe stimarsi lieto di raccoglierne un raggio sopra di sè, col porre sotto il patrocinio ideale di tanto ingegno il frutto qualsiasi de' suoi poveri studii. Ma, in verità, io debbo confessare come non vi sarebbe altezza, alla quale, non saprei dire se per modestia o per orgoglio, oserei rivolgermi, ove, con un sentimento di riverenza profonda, non fosse pure penetrato nell'animo mio un sentimento più intimo, più vivo, più personale, che mi obbliga a Voi di simpatia insieme e di gratitudine; e da più lungo tempo che Voi non possiate credere, mio illustre Signore. Chè, s'io debbo al vantaggio d'avervi conosciuto di persona, presso il nostro venerato ed amatissimo Michele Amari, il vivo piacere, che mi dura e che mi auguro durevole, di trovarmi in più stretta corrispondenza ideale con Voi, m'eravate entrato nell'animo e nella mente molti anni innanzi di quel giorno propizio della mia vita, in cui ebbi la lieta ventura d'incontrarvi. Concedetemi qui pertanto di rischiarare alquanto questo ricordo personale.
Io debbo, non senza un po' di vergogna, confessare, come, quando uscii dottore in lettere dall'Università di Torino, mi restava ancora un'idea assai confusa della filologia comparata. Il Vallauri, co' suoi fiumi sonanti di latina eloquenza, avea fatto di me un sufficiente cultore delle latine eleganze; ma, in quanto a filologia comparata, se essa non era più un'incognita per me, mi rimaneva tuttora, pur troppo, una gran nebulosa. I nomi di Bopp, di Pott, di Grimm, di Kuhn, di Schleicher, di Curtius, di Max Müller, di Weber, di Steinthal e d'altri insigni Alemanni mi sonavano bensì negli orecchi, ma erano pur sempre suoni vani, de' quali io non misuravo sicuramente il valore. Con questa mediocre preparazione linguistica io fui lanciato ventenne ad insegnar rettorica a Chieri. Chieri è una graziosa città industriale del Piemonte, a sei miglia da Torino; l'aria vi è eccellente; operosa, allegra, vivace la popolazione; ma, tra le città di provincia, Chieri era, in quegli anni, non solo delle più incolte, ma delle più aliene dagli studii; non istituti scientifici o letterarii, non convegni geniali, non librerie; nessuna via di comunicarsi in ispirito, ove la cura materiale urge ed invade tutta la vita. In me frattanto un bisogno prepotente di nuovi e più larghi orizzonti, e l'impazienza di gettarmi con impeto giovanile nella vita. Ma, come vivere? Un giovine, costretto ventenne ad insegnare greco e latino, non ne ha il tempo ed il modo; non ne ha quasi il diritto. Allora un'altra impazienza mi prese; poichè non potevo più muovermi con la persona, desiderai di viaggiare lontano in ispirito; fondai da Chieri un giornale, un'Italia letteraria, per potere, se non vivere, almeno parlare coi lontani; e, per allontanarmi anche più dalla noia delle cure scolastiche presenti, mi posi in viaggio solitario alla ricerca delle origini della lingua italiana. Ma, in questo viaggio, ad ogni passo incontravo un inciampo. Sentii ben tosto che il mio molto latino ed il mio poco greco non bastavano più, perch'io mi rendessi ragione di certe misteriose evoluzioni del linguaggio; e mi nacque allora la curiosità ed il desiderio di cercare più addentro. Un benedetto giovedì, recatomi, secondo il consueto, da Chieri a Torino, scorrevo avidamente le vetrine de' librai, quando lessi il titolo seguente: Histoire des langues sémitiques. Non resistetti alla tentazione, ed acquistai il libro. La lettura di esso fu per me una vera rivelazione; io vi respirai nuova luce e intravvidi l'Oriente. Una settimana dopo, io mi poneva tra le mani una grammatica ebraica. Ma, ritornatomi, in breve, l'amore del mio primo studio sopra le origini della lingua italiana, m'avvidi che le lingue semitiche me ne avrebbero allontanato di troppo; sostituii pertanto lo studio della lingua ebraica con quello della indiana. Corsi tosto ai primi ferri che mi vennero alle mani, egregi ferri italiani, la Grammatica Sanscrita del Flechia, il Râmâyana del Gorresio e gli Studii Orientali e linguistici dell'Ascoli. Pochi mesi dopo ero a Berlino; dove il Bopp, coi dolci e sapienti colloquii e coi libri immortali, ed il Weber coi preziosi insegnamenti, apersero all'avida mia mente i loro tesori. E, a Berlino ancora, Voi veniste, mio illustre Signore, a visitarmi due volte, ed entrambe le volte, a scuotermi: la prima col saggio di Mitologia comparata del professor Max Müller da Voi, con parole sapienti, presentato al pubblico francese e che, insieme col saggio del Bréal sul mito di Caco, col libro del Kuhn sul fuoco e sull'ambrosia, con gli articoli di critica mitologica del Baudry nella Revue Germanique, decise, per sempre, della mia vocazione scientifica; la seconda volta, col poema della Vita di Gesù.
Divenni quindi io stesso, se felice o disgraziato non so, un mitologo comparatore indipendente, e mi appassionai per gli studii comparativi, per un bisogno dell'animo mio tutto espansivo, che mi spinge naturalmente ad abbracciare quanto si conviene, e pel forte convincimento che, aiutato dagli studii comparativi, si radicò nel mio intelletto sopra l'unità fondamentale della vita, e sopra la necessità di studiarla come un tutto armonico, e non come una caotica mischianza di parti indifferenti. Perciò, come io studio comparando, così per lo stesso istinto naturale vivo amando, abbracciando, accostando, tutto ciò che può compararsi, combinarsi e convivere. Quando, pertanto, Voi, mio caro Signore, gemevate allo scoppiar della guerra franco-germanica; quando Voi, dalla Francia minacciata, facevate un nobile appello al lontano collega Strauss, affinchè almeno gli uomini di scienza tenessero unito ciò che i politici venivano barbaramente a dividere, io sentii crescere fortemente il mio affetto verso di Voi. Quando, finalmente, in giorni per la Francia dolorosi, ne' quali, per gli equivoci della versipelle politica, Voi, vedendo raffreddarsi alquanto le vive naturali simpatie che legavano fin qui Francesi ed Italiani, coglievate l'occasione per dir parole piene d'affetto all'Italia, per la nobiltà del vostro coraggio, m'entraste tutto nel cuore; e vi rimanete, e v'assicuro che non vi state a disagio.
Io sento aver già detto molte parole; e ben altre ancora ne direi, se non temessi, continuando, di stancarvi con la dimostrazione di un sentimento, del quale ho fiducia che Voi non dubitiate più.
Dovrei ora aggiungere qualche altra parola sopra il libro che vi viene innanzi, confidato al vostro gran nome. Ma esso deve parlare da sè, posto che sappia parlare. Io non posi, pur troppo, nessuna cura a farne uno scritto elegante; e non ho l'ambizione d'aver compiuto, con esso, opera intieramente originale. Mi contenterei se si potesse dire che non feci cosa inutile. Non presumo di offerire un trattato completo di Mitologia vedica, nè d'illustrare tutti i miti vedici; ordino, descrivo e tento di spiegare gli essenziali. Seguo, nell'ordine, la storia naturale del mito: il primo mito che nasce è, specialmente, un'immagine; il secondo è, specialmente, una persona; il terzo è, specialmente, un'idea: il primo è una lieve figura, il secondo un mobile eroe, il terzo diviene un nume od un idolo che sta fermo innanzi al suo cieco adoratore; il primo è fisico, il secondo è umano, il terzo riesce metafisico nel cielo, brutale sopra la terra. Nella descrizione, a costo di riuscire talora alquanto monotono, mi studio di adoperare i soli colori del linguaggio proprio degl'Inni vedici. All'ordine che seguo, ed ai colori indiani che adopero nel rappresentare i miti, si conforma necessariamente il mio commento. Il mio lavoro parrà forse troppo lieve a molti eruditi, troppo grave a molti indotti; ma, se il desiderio non m'inganna, esso ha pure il merito di dare un po' di luce ad una materia erudita che giaceva fin qui quasi interamente perduta e silenziosa in frammenti isolati, privi talora di senso per quegli stessi benemeriti eruditi che l'avevano scavata, ed agl'indotti offrirà finalmente il modo di erudirsi un poco nella Mitologia vedica fin qui ignorata dai più, e dai pochi che ne avevano qualche notizia superficiale, citata spesso, a sproposito, sopra fonti di autorità sospetta. Se il metodo poi, col quale ho proceduto nella esposizione de' miti vedici, avesse la ventura d'incontrare il suffragio de' critici più spassionati, più sinceri e più diligenti, avrei pure speranza che il mio tentativo fosse per giovare qualche poco ancora all'intelligenza delle altre antiche mitologie, quando s'abbia non solo a rappresentarle, ma sì ancora ad indagarne criticamente le origini. In alcuna delle letture poi, quelle, per esempio, sull'Acqua, sul Fuoco, sul Vento, su Indra, su gli Açvin, su Brahman, ho istituito alcune nuove e speciali discussioni, sopra le quali ardisco richiamare particolarmente l'attenzione degli studiosi. Chè, se l'opera mia paresse tuttavia ad alcun investigatore troppo insufficiente, e lo invogliasse a ritentarne presto una migliore, io sarei pure contento di questo suo merito negativo; e mi parrebbe di non avere perduto il mio tempo, quando fossi riuscito a dare una spinta, che oserei chiamare felice, a qualche ingegno meglio nutrito e più gagliardo del mio, verso una più matura investigazione del vero.
E mi consolerei poi sempre per l'occasione che mi si sarebbe offerta, mio illustre e caro Signore, di esprimervi una volta, secondo il mio potere, in pubblico quei sentimenti di profonda osservanza e d'amicizia devota, coi quali godo rimanere
Firenze, ottobre 1874.
Il vostro deditissimo
Angelo De Gubernatis.