Читать книгу Letture sopra la mitologia vedica - Angelo De Gubernatis - Страница 7

LETTURA TERZA. L'AURORA.

Оглавление

Indice

Gl'Inni vedici rappresentano a noi l'aurora sotto un aspetto molteplice; ora essa è l'aurora, fenomeno luminoso puramente fisico, quale noi lo osserviamo ancora; ora ci si mostra in forma di donna; ora in aspetto e virtù di vaga fanciulla o di eroina; ora in figura di dea. Questa molteplicità d'aspetti, ne' quali l'aurora vedica si manifesta a noi, anzi che mettere in confusione la nostra mente, la rischiara invece, dimostrandoci, in modo non meno evidente che poetico, in qual forma il fenomeno fisico abbia preso persona, e la persona sia diventata eroica e divina. Gl'Inni vedici all'aurora, quando si faccia eccezione per pochi frammenti, hanno tutti un carattere di veneranda antichità. Noi ci trasportiamo, per essi, ad una età patriarcale ed eroica, nella quale l'uomo ariano per la prima volta sembra espandere al di fuori di sè le sue giovani forze, con l'inno pastorale e con la epopea guerresca. Perciò essi hanno per noi un fascino irresistibile. Noi assistiamo al primo prorompere del poetico entusiasmo umano innanzi agli splendori della natura, varia ed una, potente e meravigliosa. Noi sentiamo, leggendo quegli inni, come, se l'anima nostra fosse più ingenua, recati innanzi allo spettacolo degli stessi fenomeni naturali, canteremmo ancora in quel modo. Gl'Inni vedici all'aurora non sono solamente note particolari poetiche del sentimento ariano, ma ancora più spesso espressione del sentimento universale che occupa l'uomo innanzi alla pompa del cielo mattutino e vespertino (e che si rinnova solenne al risorgere della primavera e al cadere dell'autunno).

A tutti noi è accaduto di osservare un bel tramonto di sole, il rosso di sera, che ci fa, dicesi, sperare il bel tempo pel giorno appresso: Rosso di sera buon tempo si spera. Ad alcuno di noi dev'esser pure accaduto di fantasticare sopra quel mobile quadro luminoso che ci presenta sul fine del giorno il cielo occidentale. Se potessimo considerare più spesso quel fenomeno, ci renderemmo più agevolmente ragione di molte forme della primitiva mitologia ariana. Ma, se molti di noi abbiamo contemplato un'aurora vespertina, pochi di noi, a motivo del nostro rinchiuso vivere cittadinesco, possiamo ricordare d'aver visto nascere l'alba e poi l'aurora del giorno, due momenti distinti nel tempo, che il mito ha pure espresso in singolari forme mitiche (prima il cielo d'Oriente albeggia, poi rosseggia). Io ebbi la ventura di contemplare la magnificenza di tali spettacoli sopra le vette alpine, e dall'impressione che essi fecero sopra di me, posso argomentare, in parte, la ragione che fece sugli altipiani dell'Asia centrale inneggiare con tanto ingenuo calore i primi pastori e guerrieri ariani. Per comprendere la natura, bisogna sentirla; per sentirla, bisogna accostarsi ad essa; gl'Inni vedici all'aurora sono l'espressione più fedele de' sentimenti, che la natura ha svegliato nel petto dei nostri più remoti e più immaginosi fratelli asiatici.

Ed ora osserviamo i diversi aspetti, ne' quali dicemmo apparirci descritta l'aurora presso gl'Inni vedici.

1. L'aurora come fenomeno fisico. I suoi nomi Ushas e Ushâ valgono la brillante; e così il maggior numero degli appellativi vedici dell'aurora vibhâvarî, bhâsvatî, çubhrâ, ahanâ, dyotanâ, çuc'î, çukrâ, ruçatî hanno il medesimo significato. Gli appellativi çvetyâ e arg'unî o la bianca, e ghr'itapratîkâ o l'imburrata, la simile al burro (ghritamduhânâ, ossia mungenti o stillanti burro son chiamate le aurore nell'inno 41º del VII libro del Rigveda), rappresentano particolarmente l'alba, il giorno che si schiarisce; oltre a questo, l'aurora è ancora chiamata supeçasa, ossia la di bella forma (così denominata insieme con la notte luminosa); supratîkâ, ossia la ben fatta, la bella; ranvasandr'ik, sudr'içîkasandr'ik, ossia quella dal bell'aspetto; arushî, ossia la rosseggiante; arunapsu, ossia quella dall'aspetto rosseggiante; hiranya-varnâ, ossia quella dal color d'oro; sûnritâ, ossia la bene moventesi, l'agile, la ordinata; yuvati, ossia la giovine, la sempre giovine, la giovine immortale; odatî, ossia la umida. Quest'ultimo appellativo ci rappresenta l'aurora stillante rugiada, ch'è l'acqua della vita, l'acqua dell'immortalità, l'ambrosia del giorno: l'aurora è anzi chiamata amr'itasya nabhih (Rigv., VIII, 90), carattere che essa ha comune con la Pr'ithivî, la quale si è identificata talora con l'aurora. L'inno 51º del IV libro del Rigv., dopo aver invocate le aurore luminose figlie del cielo, invoca la grazia di Dyaus e della divina Pr'ithivî che in parecchi Inni vedici è celebrata per la sua facoltà di estendersi, di dilatarsi. Come Indra estende il cielo, così l'aurora la luce, l'aere luminoso (â dyâm tanoshi raçmibhir antariksham uru priyam ushah çukrena çocishâ; Rigv., IV, 52). E poichè quegli umori stillanti, quella luce diffusa, hanno virtù di avvivare e di allegrare, l'aurora è pure chiamata sumnâvarî, ossia ricca di gioie, di beni, poichè l'oro è emblema di ricchezza, e l'aurea aurora discopre ogni giorno le velate ricchezze del mondo; essa è ancora, come maghonî, citrâ-maghâ e dânucitrâ, la ricca; e poichè le ricchezze furono presto considerate come una fortuna, anzi come la fortuna stessa, l'aurora vedica venne ancora salutata con l'appellativo di subhagâ.

Abbiamo detto che l'aurora è chiamata sûnritâ, ossia la mobile, l'agile, la destra; e poichè in una mobile si videro parecchie mobili, perciò l'aurora si chiamò pure, oltre che sûnritâ, anche sûnritâvatî, sûnritâvarî, ossia la fornita, l'accompagnata con le mobili, con le agili. Non discostiamoci, di grazia, trattandosi di miti elementari, dal senso etimologico delle parole; e ci renderemo ragione più pronta della loro probabile formazione. Sunritâ vale la mobile; la parola go (gau) esprime l'andante (dalla radice gam, andare) e la sonante o muggente da un'altra radice che significò sonare e cantare; l'aurora vedica, come andante, si chiamò non solo sûnritâ, ma go; ora go è il nome che si dà alla vacca muggente; perciò la mobile aurora e le mobili nell'aurora chiamandosi gavas furono scambiate per le vacche; e come la sûnritâ o mobile diventò sûnritâvatî, o fornita di mobili; così la go aurora, propriamente ancora la mobile, diventò gomatî, ossia la fornita delle mobili. Ma poichè la parola go, come sonante, servì poi specialmente ad esprimere la vacca, si vide nella go aurora (mobile) come nella go nuvola (mobile insieme e tonante) una vacca, anzi molte vacche, alle quali sono paragonati i raggi luminosi (prati bhadrâ adr'ikshata gavâm sargâ na raçmayah), onde nacque non solo l'aurora concepita come vacca rosea (vacca innocente, eterna, Aditi la chiama l'inno 90º dell'VIII libro del Rigv.), ma l'aurora gomatî, ossia l'aurora fornita di vacche. Ed ecco la prima personificazione dell'aurora, cagionata da un singolare e poetico equivoco del linguaggio. Ma, se dobbiamo credere al commentatore Sâyana, in alcuni Inni vedici la parola go non rappresenterebbe soltanto la vacca (ossia la muggente), ma anche il cavallo (l'andante). Il nome proprio del cavallo, açva (equus), ha pure il significato di andante, penetrante, veloce. L'aurora, come mobile, non fu solo go, ma anche açvâ (propriamente), veloce; e non solo açvâ, ma açvâvatî, ossia fornita di celeri o cavalle, ricca di celeri o cavalle. Concepita per tal modo l'aurora come ricca di vacche e di cavalle, niente più naturale che il poeta vedico l'invocasse, come accrescitrice degli armenti, come liberale all'uomo di cavalli e di vacche (Nû no gomad vîravad dhehî ratnam usho açvavad purubhog'o asme; Rigv., VII, 75); e quando il poeta chiama l'aurora con frequente appellativo vag'înî, ossia fornita di cibi, i cibi desiderati, come ce ne assicura l'inno 81º del VII libro del Rigv., non sono altro che vacche (vâg'ân asmabhyam gomatah), il quale indizio ci proverebbe che l'età vedica non era punto pitagorica. Nell'inno 92º del I libro s'invoca dall'Aurora il dono di cibi, ne' quali le vacche siano la cosa principale (usho goagrân upa mâsi vâg'ân).

2. L'aurora come persona. L'aurora mobile e rosea, che, denominata go, pigliò forma di vacca, o di un armento di vacche (l'inno 92º del I libro del Rigv. invoca non un'aurora, ma molte aurore e le chiama insieme le madri vacche rosseggianti), l'aurora mobile e rapida che prese nome di acvâ, e assunse perciò forma di cavalla (e rossastra come una bella cavalla la chiama il 30º inno del I libro, e il 52º inno del IV libro del Rigveda), e le aurore, che nell'inno 41º del VII libro trovo chiamate açvâvatîh, al plurale, sono tema specialissimo di quella che intitolai Mitologia zoologica.[7]

Noi dobbiamo soltanto veder qui che cosa abbiano potuto divenire nell'età vedica l'aurora gomatî, ossia fornita di vacche; l'aurora açvâvati, ossia fornita di cavalle. L'aurora go e poi gomatî, ossia fornita di vacche, diventò una pastorella; l'aurora açvâ e poi açvâvatî o fornita di cavalle, una guidatrice di carri e cavalli.

Proviamolo.

L'inno 92º del I libro del Rigv. ci dice che l'aurora aperse, ossia dissipò la tenebra, come le vacche rompono il loro recinto, ossia escono dalla loro stalla. Nell'inno 48º e 113º dello stesso libro l'aurora stessa è detta aprir le porte del cielo. Nell'inno 75º del VII libro l'aurora infrange le stalle delle vacche e queste muggono verso l'aurora. Nell'inno 124º del I libro l'aurora è chiamata gavâm g'anitrî, delle vacche genitrice; poco dopo, si dice ch'essa risplendette giovane in Oriente, ove congiunge la schiera delle rosee vacche (aveyam açvaid yuvatih purastâd yunkte gavâm arunânâm anîkam). Ed ecco rappresentata, con perfetta evidenza, nell'aurora, la pastorella celeste. La go diventò gomatî; la gomatî fu madre di vacche (mâtâ gavâm la chiama pure l'inno 52º del IV libro del Rigv.), e custode di vacche, ossia pastora, che tiene insieme raccolte le vacche rosseggianti (eshâ gobhir arunebhir yug'anâ; Rigv., V, 80), che guida le vacche, onde il suo nome di guidatrice delle vacche, datole per l'appunto da un inno vedico (gavâm netrî; Rigv., VII, 75). Abbiamo avvertito come la mobile aurora sia non solo açvâ essa stessa, ossia rapida cavalla celeste, ma ancora açvâvatî, ossia fornita di rapide cavalle celesti. L'appellativo açvasûnr'itâ, dato all'aurora nell'inno 79º del V libro del Rigv., non è quindi per me, come pel Dizionario Petropolitano, «Ushas vom Jubel der Rosse begleitet,» ma molto più semplicemente «l'aurora fornita di agili cavalli,» poichè come açva vale cavallo, così sûnr'ita, agile, mobile, rapido; onde il composto riferito all'aurora non parmi significare altro se non l'avente rapidi cavalli. L'aurora è la prima forma animata che appare sul far del giorno nel cielo orientale; essa è la prima ad arrivare, e però la rapida; e poichè il cavallo è il rapido od açva per eccellenza, anche l'aurora, come femmina, è un'açvâ. E come nell'aurora molte aurore, nella vacca luminosa si figurarono molte vacche luminose; così, oltre la cavalla, si videro molte cavalle, si vide l'aurora fornita di molti cavalli, l'aurora guidatrice di cavalli, l'aurora sul carro. Gli Inni vedici ci permettono ancora di dimostrare questo mito fino all'evidenza.

Brihadrathâ, ossia dal vasto carro, è chiamata l'aurora nell'inno 80º del V libro del Rigv.; nell'inno 65º del VI libro sono celebrate al plurale le aurore aventi carri luminosi (c'andrarathâh) che si avanzano coi cavalli dalle redini rosee (arunayugbhir açvâih); dal carro luminoso, mobile e faciente muovere (c'andrarathâ, sûnritâ, irayantî) è chiamata l'aurora nell'inno 61º del III libro; nell'inno 75º del VII libro leggiamo che bei cavalli rosseggianti apparvero portanti l'aurora luminosa, la quale se ne viene bella, sopra un carro tutto illuminato (o forse meglio, illuminante tutto). Nell'inno 77º del VII libro l'aurora è celebrata come arrecante il biondo, conducente il bel cavallo (s'intende il sole; vahantî çvetam, nayantî sudr'içîkam açvam); nello stesso inno la ricchezza dell'aurora dai molti doni è chiamata composta di vacche, di cavalle, e di carro, ossia de' doni ch'essa reca sopra il suo carro (isham c'a no dadhatî viçvavâre gomad açvâvad rathavac' ca râdhah); nell'inno seguente il carro dell'aurora è chiamato aperto, vasto, luminoso, ed essa sale sul carro che si attacca da sè tirato da cavalli che si aggiogano pure da sè (âsthad ratham svadhayâ yugyamânam â yam açvâsah suyug'o vahanti); nell'inno 51º del IV libro le aurore divine con cavalli infrenati ordinatamente (o a tempo) percorrono sempre i mondi, sveglianti il dormiente bipede e quadrupede che vive al moto (yuyam hi devîr r'itayugbhir açvaih pariprayâtha bhuvanâni sadyah prabodhayantîr ushasah sasantam dvipâc' catuspâc' carathâya g'îvam); nell'inno 61º del III libro del Rigv. si prega perchè l'aurora hiranyavarnâ (ossia l'aurora per eccellenza, aurora dal color d'oro) sia portata dai cavalli che hanno bei freni (o bene infrenati, suyamâsah) e dalla molta forza. Nell'inno 124º del I libro del Rigv. si celebra l'aurora come la prima delle arrivanti (o delle distendentisi) che splendette (âyatînâm prathamoshâ vy adyaut). Celebrando insieme la notte e l'aurora, l'inno 123º del I libro canta: «L'una va, l'altra viene, belle entrambe, diversamente, insieme vanno (ossia si seguono) le due luminose; delle due dominanti per turno, l'una la tenebra disperse, l'aurora splendette su carro rifulgente (çoçuc'atâ rathena).» Nell'inno 113º del I libro si dice che la nuova aurora segue la via delle aurore passate e succede alla prima delle arrivanti infinite (chiamate pure fra loro stesse in unione col nome di sorelle) e che svegliante coi cavalli rosseggianti arriva sopra un carro bene aggiogato. Nell'inno 92º del I libro i raggi rossi o luminosi dell'aurora chiamati gâh, che si aggiogano da sè, possiamo interpretare così bene per vacche come per cavalli (ud apaptann aruna bhânavo vr'ithâ svâyug'o arushîr gâ ayukshata). L'inno 49º del I libro del Rigv. incomincia così: «O aurora, arriva dalla parte luminosa del cielo coi fortunati; alla casa del devoto che a te propizia ti portino i rosseggianti; con quel bel carro di bella forma, sul quale, o aurora, tu sei salita, con quello ora proteggi, o figlia del cielo, l'uomo di buona fama (suçravasam ganam).» Nell'inno 48º del I libro traduco nel modo seguente la terza e la settima strofa: «L'aurora già splendette e risplende ora la dea guidatrice di carri, i quali, negli arrivi di essa, corrono come fiumi al mare (samudre na çravasyavah).[8] Essa (si) aggiogò lontano dove nasce il sole; questa propizia (o fortunata) aurora si avanza risplendente verso gli uomini sopra cento carri.» Nell'inno 116º del I libro del Rigv. la figlia del sole, che non può essere se non l'aurora, salendo sopra il carro dei due Açvin (i Dioscuri indiani) arriva alla mèta vincendo la corsa(â vâm ratham duhitâ sûryasya kârshmevâtishthad arvatâ g'ayanti). Di questa sfida alla corsa nel cielo, vinta dagli Açvin e dall'aurora, serba pure memoria la tradizione posteriore vedica brâhmanica.

Così noi abbiamo sicuramente dimostrato l'aurora pastorella, e l'aurora guidatrice di carri.

Non dimentichiamo ora l'idea fondamentale, dalla quale siamo partiti, cioè che nell'aurora, oltre la luminosa, la bella, vuolsi pure osservare la mobile, per cui essa potè facilmente trasformarsi in go ed in açvâ. Come açvâ, è la prima ad arrivare, la prima ad apparire, la più sollecita. Noi abbiamo veduto l'aurora che è ad un tempo go e conduttrice di vacche, açvâ e guidatrice di cavalli. Abbiamo detto uno degli appellativi assai frequenti dell'aurora essere, negli Inni vedici, sûnr'itâ, che vuol dire mobile, agile, sollecita; ma essa non è solo celebrata come sûnr'itâ, ossia agile, ma come netrî sûnr'itânâm, ossia guidatrice delle agili. Ed eccoci un novissimo e poetico aspetto dell'aurora, l'aurora ballerina, l'aurora guidatrice del coro delle ballerine; eccovi le apsare, eccovi le ninfe celesti, con le quali gli Dei immortali temperano la noia dei loro ozii olimpici. Ma, perchè ogni affermazione tenta qui aver la sua prova, cerchiamo anche di questo poetico mito alcun esempio vedico che lo confermi. Nella quarta strofa dell'inno 92º del I libro del Rigv. leggiamo che l'aurora si orna come una ballerina; che si scopre il petto come una vacca (adhi peçânsi vapate nr'itûr ivâpornute vaksha usreva barg'aham). Nello stesso inno essa è chiamata splendida guidatrice delle agili (bhâsvatî netrî sûnr'itânâm), e per piacere, essa sorride come un lusingatore (çriyê ch'ando na smayate). Nell'inno 113º dello stesso libro ci ritorna la bhâsvatî netrî sûnr'itânâm, ossia la splendida conduttrice delle agili, giovane, in veste luminosa (yuvatih çukravâsâh). Nell'inno 123º l'aurora ci è paragonata ad una fanciulla che vezzeggia col corpo (hanyeva tanvâ çaçadânâ), giovine, sorridente, splendida, che in oriente si discopre il seno (samsmayamânâ yuvatih purastâd âvir vakshansi vibhâtî), e quindi ancora viene comparata ad una bella fanciulla adornata dalla madre che si discopre il corpo per farlo vedere (susamkâçâ mâtrimr'ishteva yoshâvis tanvam kr'inushedriçe kam). Nell'inno 124º traduco la terza strofa nel modo seguente: «L'aurora si manifesta come il seno d'una vergine; come la vacca (discopre il petto) essa discoverse a noi le cose care»[9] (upo adarçi cundhyuvo na vaksho no dhâ ivâvir akr'ita priyâni). Quest'ultima espressione (s'io avessi avuto la fortuna di bene interpretare il passo vedico) potrebbe essere di una terribile ingenuità, e varrebbe ad agevolarci la via di comprendere i misteri fallici che servirono di fondamento a tanta parte delle antiche religioni e mitologie. E gli Inni vedici all'aurora ritornano ancora altre volte alla stessa immagine. Nell'inno 64º del VI libro leggiamo: «Divina aurora, tu bella lucente co' tuoi splendori ti scopri il petto» (âvir vakshah kr'inushe). L'inno 76º del VII libro chiama l'aurora ora gavâm netrî, ora netrî sûnri'tânâm, ed essa si congiunge in tutti gli inni del VII libro con râdhas, rayi, la ricchezza; nell'inno seguente si paragona ancora l'aurora a giovine donna; nell'inno 115º del primo libro si dice che il sole va dietro alla divina aurora lucente, come un uomo dietro una donna (Sûryo devîm ushasam roc'amânâm maryo na yoshâm abhy eti paçcat; in questo inno ancora la Pr'ithivî trovasi identificata con l'aurora come quella che cresce e grandeggia nel cielo). Nell'inno 80º del V libro l'aurora discopre ancora il corpo dalla parte d'Oriente; e appare bella alla vista come un bel corpo che si scopre, come una donna levatasi dal bagno (eshâ çubhrâ na tanvo vidânordhveva snatî driçaye no asthât). Dopo tutte queste prove, io dovrei durar poca fatica a dimostrarvi come la Venere sia uno degli aspetti più frequenti dell'aurora vedica.

3. L'aurora eroina. Noi abbiamo, in ogni maniera, finqui la certezza dell'aurora raffigurata come pastorella, come guidatrice di carri, come saltatrice del cielo, come donna bellissima. Vediamo ora le sue parentele celesti. Il suo nome più frequente è quello di duhitar divah, ossia di figlia del cielo, chiamata perciò anche divig'âs, ossia nata nel cielo. Ma, oltre il cielo, il Rigveda ci dà pure come padri dell'aurora, talora il Dio Indra, il sommo reggitore del cielo, talora Sûrya, il sole. Aditi le fu madre; talora invece parrebbe madre dell'aurora luminosa e chiara la notte scura (çukrâ krishnâd ag'anishta çvitîcî; Rigv., I, 123); ma, nello stesso inno, in cui ci si dice che la bianca è nata dalla nera, la notte vien chiamata sorella; e rappresentasi ora come buona, congiunta strettamente con l'aurora, ora come sua nemica ch'essa caccia lontano, e della quale rimuove le tenebre. Come sorelle concordi sono chiamate insieme ahanî (Rigv., I, 123), dyavâ (Rigv., I, 113), le due splendide, le due insieme congiunte, le due immortali, le due succedentisi, simili e pur diverse, che non stanno ferme e che pure non s'incontrano mai. Abbiamo qui una forma d'indovinello vedico; altri esempii somiglianti si potrebbero riferire dal Rigveda. Accennammo già come Varuna sia il reggitore divino della notte e Mitra, l'amico sole, il reggitore del giorno; uno dei sinonimi di Mitra è Bhaga. Come l'aurora è la sorella della notte, così nel citato inno 123º vien ricordata quale sorella di Varuna e di Bhaga (bhagasya svasâ varunasya g'âmir). Abbiamo finqui dunque il sole padre dell'aurora, come quello che è supposto mandarla fuori innanzi a sè; il sole fratello dell'aurora, come quello che appare quasi contemporaneamente con essa: ma il sole appare ancora, rispetto all'aurora, in due altri aspetti, come sposo e come figlio. A Varuna essa concede solamente le sue lusinghe e gli reca danno; al sole, a Mitra, essa invece aggiunge forza, potenza, splendore; perciò un inno del Rigveda (III, 61), forse con un po' di giuoco di parole, la chiama mahî mitrasya varunasya mâyâ (accrescitrice di Mitra,[10] di Varuna ingannatrice.) Da quella che accresce il sole, alla madre del sole è lieve il passo; l'inno 113º del I libro del Rigveda ci fa sapere che l'aurora generata per produrre il sole, ebbe dalla notte la yoni o vulva necessaria per quella produzione (yathâ prasûtâ Savituh savâya eva râtrî Ushase yonim arâîk); qui ancora abbiamo un piccolo giuoco di parole, come chi dicesse in italiano generata per la generazione del generatore.

Così l'aurora è essa stessa generata e generatrice, figlia e madre del sole; nè solo figlia e madre del sole, ma anche figlia e madre del cielo luminoso, ossia della luce; svâr g'anantî, ossia generante il cielo luminoso, l'appella perciò l'inno 61º del III libro del Rigveda. E poichè abbiamo detto che il cielo luminoso è la sede degli Dei, non reca meraviglia il trovar l'aurora la generatrice del giorno che si schiara o primo giorno (g'anatî ahnah prathamasya; Rigv., I, 125), chiamata non solo l'apportatrice degli Dei, ma anche la madre degli Dei (mâtâ devânâm; I, 113), che sono per noi le forme animate del cielo luminoso. Ma, oltre il sole fratello, il sole marito, l'aurora ha pure degli amici; questi amici suoi del cuore sono i due fratelli Açvin (così l'Elena ellenica trovasi congiunta coi Dioscori); l'inno 52º del IV libro del Rigveda ce lo dice in termini espliciti: l'aurora fu la compagna (od amica) degli Açvin. Noi abbiamo già veduto come gli Açvin, con atto gentile e cavalleresco, abbiano fatto salire sul loro carro la bella aurora, perchè potesse vincere la corsa ed arrivare prima alla mèta. Ora con questo episodio è probabile che se ne debba congiungere un altro, vedico ancor esso. Noi vedemmo già di che sorta lusingatrice fosse l'aurora per i poeti vedici; e quell'epiteto di bhuvanasya patnî o sposa del mondo che un inno le dà, ci fa nascere il sospetto che il marito legittimo dell'aurora se ne sia offeso, ed abbia preso dispetto contro la troppo lusinghiera sua consorte. L'inno 79º del V libro del Rigveda invita l'aurora ad apparire, a non distendere troppo lungamente la trama dell'opera sua, perchè non venga il sole ad abbruciarla come si abbrucia un ladro nemico. La strofa è molto caratteristica, per la notizia che ci dà di un uso poco civile di quell'età primitiva; ma è importante anche, perchè ci permette di sospettare la ragione probabile di un atto brutale commesso dal Dio Indra nel Rigveda, a danno dell'aurora. Indra non fu già marito dell'aurora; eroi del carattere d'Indra non possono pigliar moglie stabile; ad Indra non ispiacciono punto le donne, anzi è per cagione di esse ch'egli viene finalmente sbalzato dall'Olimpo; ma ei non si lega con alcuna Dea o donna mortale, con patto eterno; è vago di avventure, si compiace di belle forme, e sa anche, in qualche occasione, mostrare un cuor tenero. Nell'inno 80º dell'VIII libro del Rigveda appare in relazione con Indra una fanciulla di nome Apâlâ, che io sospetto essere la nostra aurora. L'aurora della sera si fa brutta, ossia si oscura nella notte; è Indra che compie il miracolo di ritornarla bella, passandoci sopra, dopo essere stato pregato da lei, dopo avere inteso il voto della pia fanciulla discesa alla fonte per attingere acqua, affinchè il Soma od Indu, o l'ambrosia (lunare) in essa trovata, scorra verso Indra sempre avidissimo del soma ambrosiaco; Indra, passando tre volte, con la ruota, col carro, col timone sopra di essa, ossia sopra la testa, sopra il petto, sopra il basso ventre di lei, ne leva via la pelle orrida e scura, e purificandola in tal modo, le dà una pelle aurea (apâlâm Indra trish pûtvy akrinoh sûryatvac'am). Qui Indra appare come benefattore della fanciulla aurora; ma bisogna aggiungere ancora come questa fanciulla si mostra vergine, semplice, pia e debole. Ma, quando l'aurora ardisce, come guidatrice di carri e di cavalli, emulare i guerrieri, e ribellarsi forse al potere stesso d'Indra, il guerriero per eccellenza, e contrastargli indomita, questa prima forma d'Amazzone offende il belligero Indra, che pone, come Teseo, come Siegfried, tutto il suo orgoglio nel vincere la fiera virago. Indra che squarcia le tenebre, Indra che squarcia le nuvole, non pare così potente come Indra che caccia dal cielo gli splendori talora malefici dell'aurora, rovesciandone e spezzandone il carro. I Greci trasportarono il mito del guidatore di carri che cade nel fiume, dall'aurora al sole Fetonte. Nel Rigveda è il carro dell'audace aurora che, per la forza d'Indra, è precipitato. «Allora, o Indra (canta l'inno 30º del IV libro del Rigv.) tu hai compiuto un atto eroico e virile (vîryam Indra c'akartha paunsyam), quando colpisti la figlia del cielo, la donna malefica; l'aurora figlia del cielo grandeggiante tu, Indra il grande, abbattesti; dal rotto suo carro l'aurora fuggì spaventata, quando il potente Indra lo spezzò. Quel carro di lei giace intieramente disfatto e sconnesso; ed essa fuggì lontano.» Un altro inno del X libro del Rigveda (X, 138) ci fa sapere che Indra compì quell'impresa col fulmine; e che l'aurora, per lo spavento del fulmine distruggitore d'Indra, si allontanò dal proprio carro. Qui il mito incomincia a diventare leggenda eroica; ed un mito concatenandosi con l'altro, si disegna forse nello stesso Rigveda una specie di romanzo epico; poichè, quando gli Açvin pigliano sopra il loro proprio carro l'aurora che ha fretta di arrivare, le usano probabilmente quell'attenzione cortese, oltre che per naturale simpatia ed analogia, perchè l'aurora ha perduto il proprio carro distruttole da Indra, del quale gli Açvin come i Marut sono talora i compagni, ma qualche volta anche gli emuli. Un inno dice che l'aurora appare, quando gli Açvin aggiogano il loro carro. Ma, se la leggenda mitica si complicò, l'origine del mito dev'essere stata semplicissima. Come l'aurora, nel maggior numero de' suoi osservatori, desta un senso di grata meraviglia, così nell'infanzia della nostra stirpe potè ad alcuni osservatori inspirar terrore. Noi stessi, i quali diciamo per lo più che il rosso di sera lascia sperare il bel tempo pel giorno seguente, diciamo ancora qualche volta che il rosso di sera è segno di sangue, e che annunzia guerra. Qual meraviglia, che nella prima età patriarcale quell'aurora che gl'Inni vedici chiamano così spesso grandeggiante, paresse voler minacciare di occupar sinistramente, come una strega perversa, tutto il cielo? Come nell'aurora vespertina vedremo nascere la fucina di Vulcano, così nell'aurora, specialmente nella vespertina, si dovette vedere alcuna volta una fata maligna, una selvaggia e sinistra virago, che, nel bisogno di pioggia, prometteva invece giorni sempre sereni, e apportava nuova siccità sopra la terra, e benedirsi perciò il potere d'Indra pluvio, che, fulminando, si scatenava nella tempesta, cacciando dal cielo le troppo ardenti aurore.

4. L'aurora dea. L'aurora sinistra, nata specialmente dall'aurora vespertina, ha la sua importanza nel mito; poichè, per essa, si possono spiegare le Elene argive, le Amazzoni, le Medee, le Crimildi, e simili tipi di donne, belle di bellezza terribile e fatale. Ma nell'aurora vespertina non si vide solamente la fucina del negromante, e la donna perfida e funesta, ma ancora, come vedremo, la porta del regno de' beati, de' morti maggiori, dove le anime de' morti cercano, morendo, il sole; onde, con pensiero tutto gentile e poetico, un poeta vedico (Rigv., VII, 76) immaginò che le anime dei poeti vedici anteriori fossero andate a rintracciare la luce nascosta, per farla risuscitare nell'aurora mattutina. E l'aurora alla sua volta, che abbiamo già conosciuta come madre degli Dei, chiamati perciò usharbudhah, ossia risvegliantisi con l'aurora, oltre le qualità ch'essa ha comune con altre divinità come liberale, splendida, benefica, ha pure come sua facoltà speciale quella di far muovere, quella di risvegliare; essa è la bodhayantî, ossia la risvegliante per eccellenza. E poichè dalla radice budh, «risvegliare,» nacque ugualmente la bodhayantî, ossia la risvegliante e la buddhi, ossia la intelligenza, ecco nell'aurora vedica mattutina (e poi, per somiglianza di fenomeni, nella primavera) che diffonde la luce, che vede tutto, perchè scopre con la sua luce tutto, che sveglia; ecco, io ripeto, disegnarsi vagamente, presso la bella aurora una Venere, presso l'aurora eroica una Pallade, e finalmente un Athênê o Minerva nell'aurora luminosa e illuminante, svegliata e risvegliante, sollecitamente operosa e ridestante dal sonno i mortali all'opera sollecita, come dice l'inno vedico, e sospingente ciò ch'è vivo a muoversi.

Letture sopra la mitologia vedica

Подняться наверх