Читать книгу Letture sopra la mitologia vedica - Angelo De Gubernatis - Страница 5
LETTURA PRIMA. IL DIO E GLI DEI.
ОглавлениеIl primo problema che ci si affaccia nello studio della mitologia vedica è questo: fu prima il Dio o furono prima gli Dei? Invece di rispondere, potremmo proseguire a rivolgerci altri problemi: fu prima il tutto o furono prima le parti? fu prima l'astratto o fu prima il concreto? fu prima il sovrannaturale o fu prima il naturale? Voi comprendete che il porsi innanzi tali questioni è quasi un risolverle, poichè il tutto suppone le parti, l'astratto il concreto, il sovrannaturale il naturale. Come non vi è re senza popolo, così non vi è principio senza fondamento, non vi è legge senza materia ch'essa possa regolare, non vi è il superlativo senza i diminutivi, non vi è il Dio ottimo, massimo, senza gli Dei minimi che concorrano a farlo tale. Nel nostro studio, per ritrovare il Dio uno, dovremo dunque incominciare a studiarne gli elementi divini, ossia gli Dei. Ma qui alcun filosofo potrebbe credere, con un po' d'arguzia, di sorprenderci in contradizione, avvertendo come logicamente, e secondo la nostra propria dottrina, i plurali sono collettivi, e ogni collettivo, ogni plurale, suppone il singolare; il che si può accordare volentieri, ma chiedendo la facoltà di esaminare la natura propria di questo singolare, che moltiplicato produce la pluralità degli Dei. Per ritrovare il valore intimo d'un nome, bisogna farne la storia, indagarne il suo primo valore qualificativo, ed estrarne la radice fondamentale. Per nostra fortuna, la storia vedica della parola che studiamo è assai trasparente. Il Dio, nella lingua vedica, ossia nella lingua ariana, della quale siano pervenuti a noi più antichi e più autentici documenti, è chiamato devas. Ognuno di voi saprebbe trovare le analogie tra questa voce e la voce con cui si esprime ora il nome dell'Essere supremo in parecchie lingue europee. Ma molti di voi potrebbero pure riconoscere, l'identità radicale di deus e di divus; e sapendo come il divus o divum, o dium de' Latini valga semplicemente il cielo, il cielo aperto, il cielo luminoso, e quello che i Francesi chiamano la belle étoile, avrebbe da questa sicura nozione un primo avviso per ricercare nel Dio nient'altro che il luminoso, ossia il cielo. Noi figuriamo il Dio splendido, eterno, infinito; ma il cielo è il solo che sia per noi eternamente splendido ed infinito. Quando il sole s'alza, abbiamo l'aria luminosa, ossia il dies, il diurnus, il giorno, il tempo luminoso. Quando l'aria s'imbruna e la terra si fa scura, occupata dalla notte, vi è pur sempre qualche cosa che risplende in alto, che ha un colore, che scintilla, che ha vita; il cielo appare sempre in veste luminosa, il luminoso è eterno, il Dio è immortale. Perciò, come canta Ovidio, il Nume, attraendo l'uomo a sè:
Os homini sublime dedit, coelumque tueri
Jussit.
La lingua latina ha conservato nelle voci divum, dium, il primo significato della parola deus; ma ha perduto il verbo che esprimeva l'idea elementare di quella parola, ricorrendo ad altre radici per rappresentarlo. Le lingue slave hanno conservato quel verbo, ma modificandone alquanto il significato; divo in russo è la meraviglia, divitj vale meravigliare. La lingua sanscrita ha vivacissima, mobile e flessibile nella coniugazione come nella declinazione l'antica radice, dalla quale si svolse la parola devas: le radici dî, dîp, dîv, div, dev, significano tutte splendere, brillare, abbagliare. Dalla radice div, splendere, abbiamo poi il nome mascolino e femminino div (dyu, dyo, dyâu), il neutro divam, il mascolino divasas, il neutro divasam, che valgono cielo e giorno, come lo splendido (cfr. il mascol. e neutro dinas, il neutro dinam, che valgono giorno), i femminini dyut, dyuti, i neutri dyumnam, dyotanam, splendore, e parecchi altri derivati contenenti tutti l'idea medesima. Da div, che vale cielo come luminoso, proviene nella lingua vedica l'aggettivo deva, ossia celeste, ossia propriamente appartenente al luminoso, e quindi luminoso esso stesso. Dall'aggettivo deva, celeste, si formò quindi il sostantivo mascolino devas, il celeste, il Dio. È dunque evidente che il Dio primitivo fu un essere celeste, e che conviene perciò ricercarlo solamente nel cielo. Tutti gli argomenti che si possano portare contro la nostra interpretazione de' miti, non valgono a distruggere questa verità fondamentale: il Dio primitivo fu concepito soltanto come un essere celeste; anzi, fu chiamato il celeste. E poichè il cielo è un campo vasto, animato da molti esseri, da molti aspetti diversi, da molti fenomeni singolari, così vi sono molti celesti, ossia molti Dei, senza alcuna necessità assoluta che vi sia un solo celeste, un celeste sovrano, quando questo celeste per eccellenza non sia il cielo stesso. E noi vedremo, per l'appunto come, nella mitologia vedica, il celeste principale, il Dio per eccellenza sia divenuto il cielo medesimo, col sole e la luna che si suppongono suoi reggitori nel giorno e nella notte. Ma dall'essere, come abbiamo veduto, il devas, in origine, non un sostantivo, ma un semplice aggettivo, ne viene tolta la necessità che i molti abbiano principiato da uno che fosse primo e sopra tutti; o, se un principale vi ebbe ad essere, esso fu, lo ripeto, necessariamente il cielo o il celeste per eccellenza, coi più splendidi animatori del cielo, il sole e la luna. S'intende che noi parliamo ora della primitiva mitologia, e non di quella che si svolse non solo nei periodi della vita brâhmanica, ma nello stesso ultimo periodo vedico, in cui incominciano a disegnarsi, col sistema delle caste nella società umana, per opera di riflessione, le teogonìe e cosmogonìe celesti.
Come sarebbe dunque temerario il giudicare tutta la mitologia vedica dalle ultime rappresentazioni della divinità che s'incontrano negli Inni vedici, così sarebbe ora per noi temerario non meno il rappresentare tutti i miti vedici secondo la loro sola forma più elementare originaria. Senza che abbiamo bisogno di ricorrere al Brâhmanesimo per ritrovare una mitologia diversa, nella stessa letteratura vedica è agevole lo scorgere la esistenza di parecchi strati mitologici, sebbene il determinarli in modo preciso sia lavoro non solo difficile, ma quasi impossibile. La loro esistenza tuttavia non può essere messa in dubbio, come non si mettono più in dubbio, dopo i dotti lavori de' professori Weber e Max Müller sopra la storia della letteratura vedica, i diversi periodi percorsi da questa letteratura. Degli Inni vedici, gli uni non sono altro se non canti di entusiasmo o di terrore innanzi alle forze benigne o maligne della natura. In altri inni, queste forze sono divenute vere persone poetiche, col loro dramma e col loro carattere. In altri abbiamo il Nume ora immagine d'una realtà poetica, ora astrazione ideale nata sopra l'immagine, invocata dal cielo a proteggere il suo devoto, intervenendo ne' suoi sacrificii, nelle sue opere pie, nelle sue imprese terrene. In altri finalmente il Nume in persona od in ispirito ideale è disceso in terra, passa nel fuoco sacrificale, nell'ostia consacrata; l'idolatria incomincia. Perciò si può dire che la mitologia vedica può offrire armi a tutte le dottrine, a tutte le credenze, quando si voglia ammettere che sia lecito isolare in uno studio storico un'idea secondaria dalle cause e dalle forme anteriori, dalle quali si svolse, per giudicare sopra quella sola idea una civiltà molto complessa e due volte millenaria. Ma, non potendo definire i multiformi strati mitologici dell'età vedica, anco perchè non incomincia l'uno dove l'altro cessa, ma spesso, invece, si frammettono, si concatenano, si confondono insieme, gioverà solamente avvertire come la mitologia vedica si rappresenta a noi in due larghe forme distinte, secondo che i miti sono nati o meditati. Suolsi chiamare spontaneo il periodo inventivo, poichè il mito si crea in esso involontariamente e quasi inconsciamente; nel secondo periodo, invece, sebbene l'uomo segua ancora un suo istinto che lo porta a meditare il creato, in quest'opera egli è più attivo che passivo. Sorge in questo periodo su basi mitiche umiliate fino all'uomo un edificio religioso, nel quale l'uomo suo autore, in parte consapevole, inalza sè stesso e si solleva a concepire e ad operare il divino. Chè se poi il tempio si popola di ciechi idolatri, i quali, incurvandosi, non ne vedono più le cime, ciò basta a provarci come le religioni, al pari delle mitologie, hanno un periodo poetico ascendente, ed un periodo fatale di discesa, nel quale il cielo luminoso si restringe e si chiude. Negl'inni troviamo il mito che principia e che finisce, e la religione brâhmanica che dove questa età mitica finisce, incomincia a disegnarsi. Ma, lo ripeto, sarebbe un errore il domandare a quel solo momento che possiamo dir postumo, l'interpretazione di tutti i miti vedici, come il domandare la soluzione di tutte le formole religiose brâhmaniche ai primi idillii figurati da un popolo di pastori nell'Olimpo vedico.
Io vorrei dunque, in questa nostra ricerca, entrare in materia seguendo i metodi adottati dal Preller ne' suoi eccellenti trattati di Mitologia greca e latina, e la stessa sua distribuzione di capitoli, a fine di rendere più agevoli a quelli di voi che volessero quindi istituire un confronto fra le tre mitologie, i riscontri. Ma, come non si può, almeno per ora, insegnare la lingua indiana con lo stesso ordine con cui s'insegnano le lingue classiche, poichè la grammatica sanscrita è retta da una fonetica bene distinta, perfettamente analitica, ordinata, rigorosa, completa, motivo per cui questo singolare carattere di perfezione la fece, al primo suo manifestarsi in Europa, stimare la lingua madre di tutte le così dette indo-europee, non mi sarebbe, all'incontro, possibile descrivervi l'Olimpo vedico, con quell'ordine, con cui potrei rappresentarvi il greco, e, sebbene più indeterminato, il latino; poichè, oltre i caratteri nazionali che distinguono le due mitologie indiane, la vedica che ci occupa e la brâhmanica che potrà occuparci un giorno, vi sono nella mitologia vedica come nella lingua sanscrita i caratteri di un mondo che l'Ascoli chiamò proto-ariano, per rintracciare i quali ci è necessario uscire da' soliti sistemi della mitologia scolastica. I trattati di mitologia suppongono l'Olimpo come fatto d'un solo pezzo, nel quale ogni divinità è un essere compiuto. Vi sono Dei maggiori e Dei minori; vi sono genealogie molto minute, sebbene, secondo le fonti, alle quali si voglia attingere, molto spesso fra loro contradittorie; i poeti greci e latini conoscono perfettamente le gerarchie e i cerimoniali dell'Olimpo e li cantano, e spesso li adornano con la loro vivace fantasia; e i nostri trattatisti pigliano talora la fantasia d'un solo poeta, greco o latino, come sicuro indizio di una singolare forma mitologica. Nel numero di questi non è il Preller, il quale, erudito e critico, reca ed ordina le notizie de' miti greci e latini, secondo che le trova riferite negli scrittori dell'antichità, ma più tosto per farci conoscere quello che l'antichità pensasse o dicesse de' suoi miti, che per indagarne egli stesso la vera natura o abbellirli a noi col prestigio di una eloquenza artificiosa. È questo il pregio principale, per quanto ne pare a me, di que' suoi dotti lavori, ed è, per questo riguardo, ch'essi mi paiono degni d'esservi raccomandati. Ma la poesia vedica, nella quale tutta la primitiva mitologia indiana, di cui sia a noi giunta notizia, è contenuta, non ci permetterebbe, ripeto, un metodo conforme a quello seguito dal Preller. La mitologia greca, per mezzo degli artisti e poeti greci, diventò un'opera d'arte. L'Olimpo, malgrado le ire, le gelosie, le vendette, le passioni elleniche, in somma, che dividono, fra loro, gli Dei, presenta, per mezzo dell'arte, un carattere estetico d'unità morale che lo governa tutto. L'Olimpo vedico manca di questo carattere estetico, che regge invece in età posteriore, per mezzo della teologia, l'Olimpo brâhmanico. E, con ciò, non intendo argomentare che l'Olimpo brâhmanico sia più alto o più perfetto del vedico, ma solamente ch'esso è più sistematico, e che si lascia perciò meglio esporre, poichè il suo quadro essendo più limitato, per quanto vi appaiano figure mostruosamente gigantesche, può essere minutamente descritto in un trattato scolastico, come in un catechismo religioso. La casta dei Brâhmani, come ne fu l'autrice, così volle essere l'artigiana, o l'artista che si abbia a dire, della seconda mitologia indiana. E questa si va quindi ancora insegnando nell'India; e questa udrete spesso ancora rammentare in Europa, ove divenne popolare la famosa indica Trinità, col suo Brahman creatore, col suo Vishnu conservatore e proteggitore, e col suo Çiva distruggitore; e per quanto incomplete, e in parte false, siano tali nozioni, s'accettano, si ricordano, si divulgano, perchè chiare, facili ed assolute.
Nell'Olimpo vedico, invece, vi è un po' d'anarchia. Il Dio più eroico, Indra, riceve da' suoi devoti molte lodi, ma la sua potestà in cielo non gli costituisce ancora alcuna beatitudine; egli è lodato, è grande, quando opera, ossia quando esso è congiunto col fenomeno fisico, da cui si svolge; ma, dov'egli non opera, il suo prestigio cessa. Nel periodo brâhmanico invece, nel quale Indra non opera quasi più, i poeti si occupano a descriverci il paradiso, in cui il Dio Indra, disoccupato, siede e regna glorioso. Negl'Inni vedici i miti si fanno; ne' poemi brâhmanici in parte si disfanno, in parte si incrostano e determinano con formole precise; il mito diventa dogma; e il dogma, com'è infallibile, così diviene immobile. Negl'Inni vedici non abbiamo ancora nè formole artistiche, nè formole religiose; gli Dei vi si muovono tanto più liberi, quanto più lieve e mobile è la persona che assumono. Talora abbiamo il semplice fenomeno fisico nel suo aspetto più naturale; talora il fenomeno che passa, piglia una forma personale; passa il fenomeno, anco la persona scompare e nessuno più la ricorda, e nessuno pensa più a venerarla, finch'essa non si ripresenta in un modo conforme ed analogo; ed è solo nella frequenza delle sue epifanie che si disegna una figura mitica, alla quale si dà un nome che col tempo diviene un nume. Con tale sembianza che i miti ci danno per lo più di sè negl'inni vedici, sarebbe egli lecito a noi fissare in modo preciso i contorni di quegli Dei, illustrarli, colorirli, animarli, come persone complete? Questo non ci sembra il dritto nostro. Questo fu bene il dritto di quel popolo stesso che avea creato i miti, il quale, associandoli fra loro, collegandoli, appassionandoli e raccontandoli, ridusse i fatti mitici all'unità dell'epopea, e coi frammenti delle molteplici figure assunte dal fenomeno luminoso celeste compose e foggiò lo splendido eroe che fa cose straordinarie. Questo, se non fu il diritto, fu almeno l'arbitrio delle caste sacerdotali, le quali, approfittando della meraviglia del popolo che i fenomeni naturali avea trasformati in fatti sovrannaturali animati da una potenza divina, separò il Dio dal suo fenomeno celeste e lo sollevò più in alto come un ente puro, salvo poi ad abbassarlo nella sembianza di un idolo sopra gli altari. Io non ho qui autorità nè voglia di disegnarvi alcuna mia teologia sopra gli Dei vedici; non potrò quindi offrirvi un Dio vedico che abbia tutte le virtù teologali; nè mi dovreste perdonare, se io per amore dell'arte e per la scienza del poi, che mi rende accorto come le epopee popolari si svolsero dalle mitologie, nello studio che mi farò d'esporvi la mitologia vedica, tentassi di farvi apparire gli Dei vedici, non quali possano offrirli a noi gli antichi inni, ma poetici e compiuti quali si trasformarono successivamente nella fantasia popolare. Con questi avvertimenti preliminari, io intendo dunque, indicandovi la via che terrò, premurarvi contro la noia che io possa molto involontariamente arrecarvi nel corso di queste letture. Noi faremo più spesso della chimica, o se più vi piace, dell'anatomia, che della poesia. I nostri Dei sono spesso poveri moncherini, e dovremo, per rimettere insieme qualche organismo vivente, andarne spesso cercando qua e là i frammenti. Io ho bisogno che mi secondiate in questa minuta indagine, poichè non avrebbe nessuna utilità lo studio presente, se io non avessi la fortuna di vedervi pigliar parte animata a questa ricerca. A chi poi voglia riscontrare il valore di queste nostre indagini e non abbia modo di approfondirle da sè sopra gli stessi testi vedici, io mi credo in debito di far noto, come una gran parte de' materiali, de' quali io dispongo, è quella stessa che un dottissimo indianista scozzese, il signor John Muir, recò già fedelmente tradotta nel quinto volume della sua bella raccolta dei Sanscrit Texts. Dichiarati così i nostri intendimenti, possiamo tentare di metterci in via.
Un inno vedico si esprime così: «Veneriamo i grandi, veneriamo i piccoli, veneriamo i giovani, veneriamo i vecchi (Dei); agli Dei, se è in poter nostro, sacrifichiamo.» Ora questa distinzione che si fa già nel Rigveda, di Dei grandi e di Dei piccoli, di Dei giovani e di Dei vecchi, giova pure a noi per incominciare qui ad occuparci degli Dei meno divini, di quegli Dei anonimi, che gl'Indiani chiamavano confusamente con un solo nome Viçve devâs (Tutti Dei), cui facevano un solo sacrificio in comune, come il Calendario cattolico ha destinato nell'anno un giorno solo festivo per tutti que' Santi (Ognissanti), ai quali non può concedere il privilegio di una festa speciale in loro gloria. Quanti fossero quegli Dei è difficile determinare. Parecchi Inni vedici, riconoscendo tre mondi, la terra, l'aria, il cielo, quando non parlano di centinaia e di migliaia di mondi, con metodica giustizia distributiva collocano undici Dei sopra la terra, undici nell'aria, undici in cielo. Ma da questi trentatrè Dei anonimi si separano talora, e si nominano quindi distintamente alcune altre divinità maggiori; così che que' trentatrè, presi insieme, riescono per lo più soltanto genii, spiriti, espressioni ideali senza figura, anzichè persone mitiche, con carattere individuale spiccato. Negli Dei poi che si suppongono presiedere ai sacrificii, non vi è neppure più il genio, ma si adorano le parti materiali del sacrificio stesso, come i Cattolici baciano ancora le sacre soglie, le porte sante, le sacre colonne, i sacri altari, i sacri arredi, i sacri strumenti che concorrono a celebrare il sacrificio divino. Lo stesso culto idolatrico che i Cattolici prestano non solo al sacrificio, ma alle parti, delle quali il sacrificio consta, si ritrova assai più minuto, o preciso e rituale, nell'ultimo periodo vedico.[2] Moltiplicato così senza fine il numero degli esseri divini, a ciascuno de' quali il Rigveda attribuì pure la sua forma femminina, ossia una Dea compagna, i devâs perdettero pure, nel loro aspetto collettivo, ogni loro importanza, in modo che non solo si isolarono dagli Dei massimi, ma si rappresentarono pure come avversi ad essi. Un inno del Rigveda ci fa sapere come tutti gli Dei combatterono Indra. Nel Yag'urveda nero, gli Dei si rappresentano come abitatori della terra, che rubano l'offerta sacrificale, che recano danno ai sacrificatori. Nell'Atharvaveda, il fuoco sacrificale è pure invitato a cacciare gli Dei. A questo punto, al quale ci conducono gli stessi Inni vedici, in cui cioè gli Dei stanno già in terra, e rimuovono gli uomini dalle opere pie che devono conciliar loro la grazia de' luminosi celesti, noi vediamo staccarsi la religione iranica dalla vedica. Il deva indico diviene lo zendico daeva, un vero genio maligno, mentre invece l'asura, lo spirito, e specialmente lo spirito maligno, demoniaco dell'India vedica diviene lo zendico Ahura, il genio buono, che entra nel nome di Ahura-mazda, ossia Ormuzd. Il moltiplicarsi infinito dei devâs vedici nocque dunque alla loro gloria; poichè nel moltiplicarsi, discesi in terra, degenerarono, e riuscirono finalmente a combattere contro la loro propria primitiva natura. Il deva non risplende se non in cielo; abbassato sulla terra, incomincia col diventar idolo; e l'idolo diviene finalmente mostro. Questo è l'ultimo aspetto che ci rappresentano i vedici devâs nella fantasia popolare. Ma quasi contemporaneamente, per un altro ordine d'idee, con l'idolo terreno, sopra il Dio reale celeste, divenuto ideale, si produce il nume astratto dei devâs, che godono nell'alto, onnipotenti, amici de' mortali ad essi devoti, che ascoltano le preghiere, che ne appagano i desiderii, e (secondo il Çatapatha Brâhmana) ne indovinano i pensieri, contro ai voti dei quali è vano ribellarsi, che amano l'ambrosia, e perciò sono immortali (e i mortali che si cibano di ambrosia, non solo divengono ancor essi immortali, ma acquistano il privilegio di conoscere gli Dei). Nello studio di queste nozioni vediche intorno agli Dei di un periodo mitico di decadenza, fondarono evidentemente i Brâhmani la loro teologia e religione gangetica. È questa parte, per così dire, ora brutale, ora spirituale e metafisica della mitologia vedica, la quale si trova sparsa qua e là negl'Inni vedici, che i Brâhmani si proposero d'illustrare e ridurre ad unità. Perciò la letteratura di commento ai Vedi rappresentata dai Brâhmana, dalle Upanishad e dai Sûtra, e i sistemi filosofici vedantini, che si mostrano indifferenti ai miti propriamente detti, raccolgono scrupolosamente dagl'Inni vedici tutto ciò che può giovare a costituire dommi religiosi e riti sacrificali corrispondenti. La così detta cosmogonia vedica appartiene pure a questo periodo secondario, e quegli Dei, nella prima età de' quali, secondo un inno vedico, dal non essere fu creato l'essere, non sono più figure di fenomeni fisici, ma forze arcane, ideali, già dominanti metafisicamente la materia. Appartiene pure a questo periodo la produzione di numi come Prag'âpati, Brahmanaspati, Purusha, Brahman, e simili figure astratte del Dio, delle quali avremo, al fine del nostro studio, a considerar la natura specifica. Intanto ho creduto mio dovere, innanzi di entrare ne' miti vedici, accennarvi a tutto ciò che si mescolò con essi, senza avere con essi analogia di origine e di carattere. Quando il deva discende a terra, abbiamo veduto ch'esso perde la sua prima e propria natura mitica; quando egli diviene nel cielo un'astrazione, e non corrisponde quasi più ad alcuna forma fisica, incomincia la religione, e finisce la mitologia vedica; esclusi dalla quale gli elementi che non le sono proprii e caratteristici, il nostro studio diviene più semplice, e, s'io non m'inganno, più efficace; e possiamo ancora noi affacciarci la grave e consueta, ma un po' oziosa questione che preoccupa la storia d'ogni antica religione: se cioè nell'età vedica domini il Monoteismo od il Politeismo. Per risolvere tale questione dobbiamo dunque semplicemente distinguere l'età vedica in tre periodi: il più antico, assolutamente politeistico, ci offre gli Dei fisici; in un periodo secondario, gli Dei fisici pigliano persona eroica; in un terzo periodo, appare il Dio uno, ossia il Dio metafisico, che nasce generalmente al di fuori degli Dei personali, sopra un nome che non appartiene ancora o non appartiene più ad alcuno; si crea allora il Dio per l'attributo, e non più l'attributo pel Dio.
Ritornando, quindi, al nostro primo asserto, nel principio si adorarono le sole forze e forme singolari e molteplici della natura; ma, se nell'Olimpo vedico si vuol rappresentare con una sola parola tutti gli Dei, non troviamo altro centro di unità all'infuori del cielo. Così, nel nostro linguaggio, siamo ancora soliti ad invocare il cielo come sommo nostro protettore. Più spesso che il nome di Dio, il quale non può essere proferito invano, le nostre donnicciuole pregano il cielo, perchè faccia le grazie da loro desiderate; il cielo rappresenta, per esse, l'Onnipotente. Il cielo deve accompagnare gli amici che si mettono in viaggio, e s'impreca avverso ai nemici; per amor del cielo si supplica; ed è il cielo che ci deve guardare dal fare il male. La nozione del cielo come sede del divino, passata nel primo versetto della Orazione domenicale cristiana, è più antica del Cristianesimo. Invocando il cielo, noi, se pensiamo a qualche cosa (il più spesso non pensiamo a nulla), ci raffiguriamo la sola vôlta azzurra; ma, nel nominarlo, gli attribuiamo una potenza arcana, che, per essere incombente sopra di noi, immaginiamo a noi inevitabilmente propizia o funesta. Il cielo è ornato di astri luminosi e armato di fulmini; non vediamo chi li muove; ma vediamo che si muovono dal cielo; perciò veneriamo il cielo come Dio, parola che, in origine, come abbiamo già detto, valeva soltanto il celeste. Se il cielo fisico si voglia pertanto ammettere (come, studiando i miti vedici originarii, si deve), non solo quale equivalente del Dio, ma come sede di tutto ciò che è Dio, ossia di tutto ciò ch'è celeste, e però come Dio per eccellenza, avremo pure nella primitiva mitologia vedica una forma di Dio unico, da cui partono tutti gli Dei e al quale, come sue qualità, forze, ornamenti, fenomeni, essi fanno universalmente capo. Ma è troppo evidente che questo Dio fisico non ha nulla di comune col Dio supremo, unico, universale delle teologie; e che non può giovare in alcuna maniera a sostegno delle loro dottrine, le quali si fondano sopra il principio che l'uomo ha sempre sentito ingenito in sè il bisogno di adorare un Creatore supremo, un supremo Rettore dell'universo. Io non ho qui a discutere questo principio, ma solamente a dimostrare che gli antichi Inni vedici non ne recano traccia, come si fondano invece sopra di esso parecchi inni dell'ultimo periodo vedico. Quali possano essere le nostre credenze, noi dobbiamo in uno studio storico e critico, come quello che abbiamo intrapreso, far conto di non averne alcuna, per attribuire ad ogni età il suo proprio carattere. Ora, per conchiudere intorno agli Dei vedici, dobbiamo, a fine d'intenderci, insistere sopra la distinzione da noi fatta tra gli Dei fisici, eroici e metafisici; dal non averla fatta son nate, parmi, finqui le molte oziose discussioni sopra il carattere primordiale della religione indiana. Nel primo periodo vedico abbiamo cose celesti e lievi persone celesti; nel secondo periodo abbiamo il dramma eroico di queste persone; nel terzo periodo, accanto ad idoli, idee umane elevate ed astratte in una forma divina e quasi impersonale; si è detto che, nel mito, i nomi sono diventati Numi; io potrei soggiungere che alla loro volta i Numi si sono astratti in semplici nomi fatti immobili, perciò sterili, inetti a divenir plurali, se non addizionando e moltiplicando sè stessi per sè stessi, ossia facendosi infinito assoluto. Il mito quando discende troppo basso, o quando sale troppo alto, si distrugge; il suo posto è nel cielo; staccandosi dal cielo, perde la sua natura; perciò è nel cielo che lo dobbiamo essenzialmente esaminare: vedremo pertanto, prima di ogni cosa, come il cielo nell'età vedica fosse appellato, quale persona mitica avesse, quali fossero i suoi caratteri divini, per indagar quindi come fosse popolata quella scena olimpica.