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LETTURA SECONDA. IL CIELO.

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Il cielo appare negl'inni vedici con diversi nomi e sotto diverse forme; ma il suo nome proprio è Dyu, il cui nominativo è Dyaus (Zeus) e il cui genitivo è Divas; importa notare questo caso, perchè apprendiamo da esso che il cielo è il padre dell'aurora, che il luminoso è il padre dell'ardente o brillante Ushâ, e che Indra come Divaspati è il signore, il reggitore del cielo. Noi non abbiamo nessun dubbio intorno all'unico significato mitologico della parola Dyu; non solo esso è il cielo, ma il cielo nella sua forma più semplice. Vi sono altre forme divine, e però altri nomi del cielo negl'inni vedici, ma il cielo per eccellenza è Dyu. Nell'ellenico Zeus ci si affaccia un Dio complesso, polimorfo; nel vedico Dyaus ci si offre invece un Dio elementare. Esso è il cielo tal quale nel suo aspetto luminoso, e nella sua virtù fecondatrice. Non vediamo ancora la persona umana del Dio; esso è un essere animato, ma la sua forma esterna è quella che appare alla vista degli occhi, non alla mente immaginosa. La divisione del cielo in tre cieli, di cui il primo inferiore (Avama), il secondo medio[3] (Madyama), il terzo supremo (Uttama), è già vedica. Perciò troviamo negl'Inni vedici, oltre il cielo, ricordati i cieli (Dyavas).

Vediamo ora con quali appellativi Dyu (o Dyo), il cielo, venga salutato negl'Inni vedici. Egli è, sovra ogni cosa, pel suo aspetto, il grande, il vasto, il profondo, il fisso; per i suoi effetti, il mellifluo, il lattifero, il ricco di semi e conseguentemente il benefico; e, poichè il cielo opera pure sopra la terra con un certo ordine, esso diviene l'ordinato ed il giusto. Ma, finqui, noi non abbiamo ancora nessuna vera e propria persona divina. Sono epiteti naturali dati al cielo; nessun mito ancora si scolpisce. A scolpire il mito occorre non solo l'anima, ma l'animale. Mi si potrebbe forse opporre che vi è il mito anco in un'erba, in una fonte, in una pietra di virtù miracolosa; nè io codesto vorrei negare punto, ma soggiungerei come nella immaginazione popolare quell'erba, quella fonte, quella pietra ha sempre una virtù magica, per la riposta credenza che alcun genio o demone la possegga. L'animale poi può salire dall'infimo grado del bruto che non ha ancora vertebre, fino al perfetto vertebrato eroico, fino al nume metafisico che non ha più vertebre. Perchè il mito dunque nasca, occorre l'animale; ma, perchè l'animale viva, occorre la società. Noi abbiamo già il cielo ricco di semi; è necessario che questo seme non cada invano, che il ricco di semi divenga padre fecondatore, che il cielo divenga padre. Il cielo padre è il primo Dio, il primo mito naturale. Ma dove cade il seme celeste? dove si feconda il cielo? qual'è la sposa, qual'è la madre che il cielo feconda?

A noi viene naturale il pensare subito alla terra, e la cosmogonìa ellenica, e alcuni Inni vedici, ne' quali cielo e terra si trovano evidentemente invocati insieme, l'uno come padre, l'altro come madre, rendono non solo naturale, ma necessaria questa ipotesi. Se non che, mentre Dyu è indubbiamente il solo cielo, vi è dubbio che la Prithivî ossia la larga, ch'esso feconda, non sia sempre la sola terra. Vi sono due inni nel quinto libro del Rigveda, nei quali si parla evidentemente di una Prithivî celeste. Uno di questi inni (il cinquantesimo sesto) ci rappresenta la Prithivî come la Pluvia rallegrante che arriva; un altro (l'ottantesimo quarto) ce la nomina come la luminosa che versa torrenti di pioggia sopra la terra, la quale per distinguersi non è qui chiamata Prithivî, ma con l'altro suo appellativo di Bhûmi.[4] Qui è evidente che Prithivî è la nuvola, come la larga, la estendentesi a segno da occupare tutto il cielo, oppure il cielo stesso nuvoloso. Ma è raro che questa Prithivî celeste appaia esplicitamente distinta negl'inni vedici. Dyu è più spesso il fecondatore della terra, della larga terrena, sia col suo proprio nome, sia sotto forma del Dyu Parg'anya (lo slavo Perkun), che è il vero Giove Pluvio, e come tale trovasi distintamente invocato in alcuni Inni vedici. Parg'anya vale propriamente la nuvola tonante e pluvia, la nuvola tempestosa e la pioggia, il Dio della tempesta. Il cielo Tonante e Pluvio, il Dyu come Parg'anya è il fecondatore della terra, la quale perciò è venerata nell'Atharvaveda col nome di sposa di Parg'anya (Parg'anya-patnî). Abbiamo veduto esservi il cielo ed i cieli, così la pioggia e le pioggie, la nuvola pluvia e le nuvole pluvie; tuttavia come Dio, Parg'anya, al pari di Dyu, è sempre un singolare. La voce di Parg'anya sona bene e vigorosa (vâc'am parg'anyaçcitrâm vadati tvishîmatîm; Rigv., V, 63). Esso versa il seme e fa germogliare le erbe; per esso il cielo si riempie, e la terra si feconda (pinvate svah-Parg'anya Prithivim retasâ 'vati). Mentre Parg'anya tuttavia è rappresentato come benefico fecondatore della terra, il poeta vedico, nel descrivere, con molta verità d'immagini, il temporale, ci fa presente il terrore degli uomini nell'udire i venti che fischiano, nel vedere gli alberi atterrati, i lampi e fulmini che guizzano; tutto il creato è preso di spavento, quando Parg'anya si scatena; sebbene egli castighi solamente i colpevoli, anche gl'innocenti ne hanno paura. E in questo Dio, in questo Parg'anya che tonando ammazza i cattivi (Parg'anyah stanayan hanti dushkritah; Rigv., V, 83), noi abbiamo una prova evidente che già esisteva nel primo periodo vedico, poichè l'inno 83º del V libro del Rigveda a Parg'anya ha per me un carattere particolarmente antico, la superstizione ancora viva nel nostro popolo che il diavolo si pigli l'anima di quelli che muoiono fulminati (dove passa il diavolo lascia odore di zolfo; lo stesso odore lascia il fulmine ove cade; quindi è naturale che si credano portate via dal diavolo le anime dei fulminati).

Abbiamo detto che Dyu il cielo è lo sposo di Prithivî la larga; abbiamo aggiunto che allo sposo della terra, al fecondatore di essa si dà pure il nome di Parg'anya; ma giova aggiungere come un inno vedico (Rigv., VII, 102), invece di rappresentarci Parg'anya come un alter ego di Dyu, ce lo dice apertamente suo figlio. Sotto questo aspetto, Dyu il cielo si feconderebbe in sè stesso, unendosi con quella Prithivî celeste che abbiamo sopra ricordata, ossia la nuvola larga, per produrre la pioggia, il temporale, il Dio del temporale, Parg'anya. Sebbene adunque gl'Inni vedici non ci dicano in modo preciso che Dyu feconda la Prithivî celeste come feconda la terrena, nel trovarvi appellato Parg'anya figlio di Dyu, abbiamo qualche ragione probabile di supporre Dyu sposo della Prithivî celeste. Da prima egli si fecondò nel cielo, e poi una sua creatura, ossia un altro sè stesso fecondò la terra. Nè solo la Prithivî celeste, ossia la vasta, la distendentesi, dovettero in origine essere la nuvola, occupante tutto il cielo, ma ancora la tenebra notturna, la notte e la nuvola, e l'aurora, uno de' nomi vedici della quale è pure Urvâçî, ossia la larga avanzantesi. E, come troviamo Dyu che, oltre il cielo luminoso, significa anche il giorno, così interpreto pure la Prithivî celeste ora pel cielo notturno, ora per la prima e l'ultima parte del giorno rappresentate dalle grandeggianti aurore. E mi rappresento il vedico duale Dyavâ Prithivî come un equivalente di Mitra e Varuna, Mitra il giorno, Varuna il copritore notturno, e poi l'acquoso oceano. È solamente per mezzo di questa interpretazione che noi possiamo intendere come Dyu e Prithivî siano chiamati insieme Devaputre, ossia aventi per figli gli Dei; chè il cielo luminoso diurno e il cielo notturno e crepuscolare, che può essere luminoso anch'esso, sono i soli veri e proprii genitori degli Dei, ossia dei luminosi, mentre sarebbe un assurdo il supporre la terra madre degli Dei. Di Bhûmideva, o Dio della terra, gl'Indiani ne conobbero uno solo, il Bramino, per decreto della stessa casta brâhmanica, e il fuoco sacrificale sua creatura; gli altri Dei sono tutti celesti. E, quando nell'inno vedico (Rigv., VI, 50) si trova congiunto Dyaur devebhih Prithivî samudrâih, mi parrebbe ancora nel primo caso di vedere il cielo luminoso popolato di Dei, nel secondo il cielo tenebroso, o notturno, o nuvoloso, e però naturalmente acquoso, crepuscolare, mentre mi parrebbe un non senso il rappresentare la terra acquosa per rispetto a Dyu, ch'è appunto celebrato come quello che manda giù l'acqua. Non negando dunque io in alcuna maniera che la Prithivî ricordata negl'Inni vedici non sia spesso la terra fecondata dal cielo, credo si debba nel duale Dyavâ Prithivî considerare più spesso una Prithivî celeste, della quale può esser duplice, sebbene analoga, la natura, secondo che la si consideri nella nuvola o nella notte tenebrosa e luminosa e, come luminosa, anche nell'aurora, che vedemmo già chiamarsi larga. Che la nuvola sia chiamata l'ampia, la distendentesi; che la notte sia considerata come la distesa (âyatî), lo rileviamo dall'inno 127º del X libro del Rigveda, in cui la notte luminosa è cantata sotto il suo appellativo di râtrî: essa caccia, per mezzo de' suoi occhi risplendenti, d'ogni parte le tenebre; sul principio della notte, quando gli astri non brillano ancora in tutto il loro splendore, appaiono i mostri tenebrosi, che la notte luminosa deve tenere lontani; quando verso il mattino gli astri notturni impallidiscono, ritornano i mostri tenebrosi; allora è invitata l'aurora mattutina, la grandeggiante figlia del cielo, a disperderli. La relazione, in cui sono poste in quest'inno fra loro la notte e l'aurora, chiamate fra loro sorelle, e la somiglianza dei loro ufficii, ci danno diritto a supporre la notte come figlia del cielo al pari dell'aurora. Siccome vedemmo Parg'anya esser chiamato figlio di Dyu, dicemmo Prithivî esser pure celebrata in due inni vedici come la nuvola pluvia; niente di più naturale che il considerare anche la Prithivî celeste come figlia di Dyu. Come poi l'aurora si congiunge con gli Açvin, i Dioscuri indiani, così, nell'inno 132º dello stesso X libro del Rigveda, essi trovansi uniti con la Bhûmî, noto equivalente della Prithivî, nuova analogia che ci permette di ravvisare nella Prithivî congiunta con Dyu un essere celeste. E questa probabilità cresce, osservando come nello stesso inno 132º, nel quale s'incominciano a celebrare Dyu e Bhûmî (altro nome di Prithivî), in relazione con gli Açvin, dei quali l'uno è in particolare relazione col giorno, l'altro con la notte, si cantano pure Mitra e Varuna, dei quali il primo regge il cielo diurno, l'altro specialmente il cielo crepuscolare e notturno. Quando poi i due cieli, il Dyu per eccellenza, il cielo diurno, e il Dyu notturno si riuniscono, abbiamo un essere supremo, che, come mascolino, si chiama Divaspati (una specie di Diespiter), ossia Indra, e come femminino si chiama Aditi. Indra si vede venir fuori dal Dyu, dalla Prithivî, dall'oceano, dal cielo nuvoloso (Rigv., IV, 20); è evidente che in queste sedi del Dio Indra si enumerano tutti gli aspetti del cielo. Ma la parola Dyu, div, non fu solo un mascolino, ma anche un femminino; questo femminino prese nel mito il nome speciale di Aditi, ossia la infinita, indestruttibile vôlta celeste, la luminosa insieme e la larga, la madre degli Dei luminosi, degli Adityas. Essa è pure la madre di Mitra e Varuna. Un inno (Rigv., IX, 97), dopo avere invocato il padre Cielo (Dyaushpitar), la madre Prithivî (Prithivî matâr), il fratello fuoco, gli otto Vasavas luminosi reggitori del mondo, e gli eroici Adityas o figli di Aditi, invoca finalmente Aditi come la Dea celeste che comprende in sè sola tutti gli Dei. Come madre dei venti (mâtâ rudrânam), che finalmente essa viene in un inno salutata (Rigv., VIII, 90), e sorella degli Adityâs e figlia dei Vasavas, essa non può essere che una personificazione celeste. La Prithivî pertanto ch'essa rappresenta mi sembra ancora dover essere una figura del cielo. Noi abbiamo già rammentati tre mondi, e tre cieli, o luminosi; dobbiamo aggiungere che gl'Inni vedici distinguono pure tre Prithivî, ossia tre larghe: una risponde al cielo altissimo, l'altra al cielo medio, la terza al cielo infimo; questa terza Prithivî può essere la terra nostra, ma tuttavia ne dubito, per quanto questa Prithivî sia originaria produttrice di Dei e di miti. Chè, se accennammo come il trimundio vedico sia già diviso in etere celeste, aria e terra, e come in ciascuno di questi tre mondi i poeti vedici della decadenza collocarono undici Dei, ho pure avvertito come questa enumerazione fosse capricciosa ed arbitraria. Il terzo mondo, il terzo cielo, la terza Prithivî, sono figurati per l'amore del numero tre; nato questo terzo mondo, questo terzo cielo, questa terza Prithivî, era naturale che si pensasse alla terra, come produttrice alla sua volta di Numi. Che la terra avesse fin dalla più remota antichità vedica carattere sacro e venerando, non può essere messo in dubbio; essa era chiamata matâr. Questa parola vale propriamente la produttrice; ma, significando perciò anche la madre, dimenticato il senso etimologico della parola, si vide solamente più in essa la madre, e come madre i poeti vedici le parlarono con quel linguaggio tenero ed affettuoso con cui si suole parlare ad una madre. Manu ha pur detto che la madre è un'immagine della terra.

Immaginatosi quindi un terzo cielo, prossimo alla terra (forse il cielo delle nuvole e dell'aurora, il più vicino alla terra), gli Dei di questo terzo cielo si unirono con la Prithivî loro corrispondente, la quale suppostasi quindi essere la terra stessa, questa diventò alla sua volta sede amata degli immortali, i quali posero pur amore alle figlie della terra, come ce lo provano le leggende del periodo brâhmanico. Ma la terra che raccolse alcuni Dei, non ne ha creato alcuno vivace, nella sua forma originaria. E s'io ho tanto insistito su questo punto e se vi insisterò ancora un altro poco, non ho bisogno di dichiararvene il motivo, dopo il principio che abbiamo posto, tutti gli Dei primitivi essere nati nel cielo. S'io potessi ammettere che la Prithivî del duale vedico Dyavâ-prithivî è sempre la terra, dovrei, per questa sola interpretazione, alterare tutto il carattere della mitologia vedica. Ma quello che abbiam detto sembra darci il diritto di distinguere negl'Inni vedici una Prithivî celeste che concorre essa stessa a produrre Numi e miti, dalla Prithivî terrestre, la terra, la quale non fa altro se non ricevere i beneficii del cielo, e però della stessa Prithivî celeste, per diventare alla sua volta benefattrice degli uomini. Escluso pertanto dal nostro studio quello che non appartiene propriamente al mito, vediamo ora come il cielo si manifesti negl'inni vedici in congiunzione colla Prithivî celeste. Dyu è il luminoso, Prithivî è la larga; la luce si propaga nello spazio. Senza spazio non vi è splendore; lo splendido e la larga ci danno insieme tutto il cielo nel suo colore e nella sua estensione. Il giorno ha bisogno per riuscir pieno di occupar tutto lo spazio celeste; così pure la notte non è compiuta se non quando tutto il cielo s'è popolato di stelle. Sotto questo rispetto, avremmo due luminosi e due larghe celesti, il luminoso diurno e il luminoso notturno, la larga diurna e la larga notturna. Noi avremmo congiunte più tosto due qualità del cielo stesso, che due mondi diversi; la luminosa larga diurna, la luminosa larga notturna; e le due qualità considerate come femminine (osservo come Dyu staccato da Prithivî appare mascolino, mentre Dyavâ congiunto con Prithivî si manifesta un femminino) costituirebbero la Dea universale Aditi (Dyavâ-Prithivyau è nel Nighantu un sinonimo di Aditi), come le due qualità interpretate quali mascolini ci darebbero il Dio diurno come notturno Indra, il signore del cielo per eccellenza, nel giorno del pari che nella notte. Noi abbiamo tuttavia fin qui proceduto anzi che per dimostrazioni dirette, per ragione di analogia ad argomentare della natura propria della vedica Prithivî congiunta con Dyu mascolino, con Dyavâ femminino. Vediamo ora più dappresso negli stessi inni del Rigveda la natura propria della mitica Prithivî; nell'inno 159º del I libro del Rigveda, Dyavâ-prithivî appaiono come due sorelle gemelle, insieme coabitanti. Nell'inno seguente, Dyavâ-prithivî sono chiamate insieme rodasî, quasi due fiumi di ogni abbondanza, capolavoro del più operoso degli Dei; da entrambi gl'inni non si rende tuttavia chiaramente manifesto se la Prithivî sia la terrena o la celeste. Ma, nella prima strofa dell'inno 185º dello stesso libro, sembra già identificarsi il duale Dyavâ-prithivî col duale ahanî, che vale propriamente i due giorni, ossia le due parti del giorno, la luce del giorno e la luce della notte stellata lunare (o quella dell'aurora). Come si potrebbe domandare che cosa sia stato prima fra il giorno e la notte, il poeta vedico si esprime, rispetto a Dyavâ-prithivî, nel modo seguente: «Delle due, quale è la prima, quale la seconda; come son desse nate? o poeti, chi lo sa? esse, in verità, sostengono il tutto, quando il giorno e la notte, come una rota, vanno girando. Le due che non si muovono, sostengono molti che si muovono; le due non andanti (o prive di piedi, prive di andanti) portano molti che vanno (ossia forniti di piedi, di andanti); come sempre il figlio presso i suoi parenti, o Dyavâ-prithivî, liberateci dal male.» Poco dopo si dice che Dyavâ-prithivî hanno gli Dei per figli, e che stanno entrambe fra i due giorni divini (ossia, come aurore crepuscolari, le rive celesti, fra il giorno e la notte). Ma la relazione fra Dyavâ-prithivî e il cielo diurno e il cielo notturno, ossia fra il giorno e la notte che s'incontrano nel mattino e nella sera, mi sembra evidente in quest'altro versetto: «Sempre giovani s'incontrano le due sorelle gemelle presso i loro parenti, arrivanti al punto medio dell'universo.» Evidentemente abbiamo qui in Dyavâ-prithivî due esseri femminini, che senza muoversi dal loro posto salgono più alto per ritrovare il supremo polo, il pitror upastha: a questo supremo polo, o umbilico celeste, non possiamo concepire ascendente la terra, mentre è naturalissimo l'immaginare ch'esso sia il punto medio della notte come il punto medio del giorno. Le Dyavâ-prithivî a mezzogiorno e a mezzanotte ritrovano nel cielo la yoni o vulva materna, onde si svolsero gemelle (sayonî) ed il pitror upastha, da cui furono generate.

E ancora ritroviamo una Prithivî celeste in quelle due Dyâvâ-prithivî larghe, solide, vaste, invocate per ordine, genitrici, di bell'aspetto, che custodiscono l'ambrosia. Chè, se le leggende posteriori brâhmaniche fanno discendere l'ambrosia, l'acqua della vita, sopra la terra, ove gli eroi fortunati la sottraggono ai draghi guardiani, la vera, originaria sede dell'ambrosia è il cielo. L'inno si termina, pregando Dyavâ-prithivî d'essere padre e madre, ossia protettore completo per i loro devoti invocatori. In tutto l'inno non abbiamo un solo indizio d'una Prithivî terrena, nè un solo epiteto che non possa convenire alla Prithivî celeste. Nell'inno 40º del II libro del Rigveda, Dyu e Prithivî sono considerati come creature degli Dei Soma e Pûshan, i custodi di tutto l'universo e della divina ambrosia; nell'amritasya nâbhi di Soma e Pûshan è agevole il riconoscere l'amrita od ambrosia, di cui vedemmo già Dyavâ-prithivî custodi, e il nâbhi supremo, a cui nel loro apogeo Dyavâ-prithivî arrivano. E della natura primeva celeste degli Dei vedici Soma e Pûshan non è lecito il dubitare. Nell'inno 41º del II libro del Rigveda, Dyâvâ-prithivî s'invocano perchè cerchino fra gli Dei l'offerta sacrificale arrivante fino al cielo, e gli Dei perchè si veggano fra loro; non mi par possibile qui immaginare la terra come messaggera; e mi convien perciò supporre una Prithivî messaggera celeste. Nell'inno 55º del IV libro, Dyavâ-bhûmî equivalenti di Dyavâ-prithivî s'invocano insieme coi Vasavas, con Aditi, con Mitra e Varuna, ossia con persone mitiche di certa origine celeste. E, in un'altra strofa dello stesso inno, come a definirci meglio il carattere di Dyavâ-bhûmî dopo la materna Aditi si nominano i due giorni, ossia il giorno e la notte, l'aurora e la notte (ahanî-Ushâsânaktâ). Nell'inno 70º del VI libro del Rigveda, le Dyavâ-prithivî sono le fornite di burro, le larghe, le belle, le melliflue, le ricche di seme, tutti attributi che convenendo al celeste Dyu potrebbero pure convenire ad una Prithivî celeste; ma quegli epiteti di ghritaçriyâ, ghritapric'â, ghritâvridhâ, ossia godente nel burro, saziantesi nel burro, accrescentesi nel burro, riferiti alla terra, non si sa troppo quanto le si appropriino, mentre si comprende come la Prithivî ambrosiaca celeste (il burro, il miele e l'ambrosia assimilandosi) possa in tal modo denominarsi. Quando l'ultimo inno del settimo libro prega la Prithivî, perchè liberi dal male che viene dalla Prithivî e l'atmosfera dal male che viene dal cielo, è possibile che si tratti della terra e dei mali che possono all'uomo derivare dalla terra. Ma quando il Dio Indra, nel sesto inno dell'ottavo libro, estende come una pelle le due rodasî, e come esse sono chiamate Dyavâ-prithivî, in queste rodasî che si distendono a piacere di Indra, in queste due vesti acquose che coprono il cielo, in questi due oceani celesti che Indra allarga, in queste due rive, spesso luminose, ch'egli supera, non possiamo riconoscere che il cielo diurno e il cielo notturno, il cielo luminoso e il cielo tenebroso o nuvoloso, o le due estremità luminose del cielo. La luce, la tenebra, la nuvola, l'aurora sono elastiche, ed Indra, il signore del cielo, le può a suo piacere distendere; Indra che allarga la terra non si potrebbe spiegare. È incerto, se si debba vedere la terra nel 58º inno del X libro del Rigveda,[5] che tradurrò per intiero. È un inno funebre, in onore del morto Subandhu: «Poichè l'anima tua se ne andò lontano presso Yama, figlio di Vivasvant (il Dio dei morti), perciò noi ce ne ritorniamo qua ad abitare ed a vivere. Poichè l'anima tua se ne andò lontano nel cielo, nella Prithivî, nella Bhûmî dai quattro angoli, ne' quattro punti dell'orizzonte, nell'oceano acquoso, ne' lampi,[6] nelle acque, nelle erbe, nel sole, nell'aurora, ne' monti giganteschi, in tutto il mondo, negli estremi confini; e poichè l'anima tua se ne andò lontano in quello che fu, in quello che sarà (ossia, poichè non è più presente), noi ce ne ritorniamo qua ad abitare, a vivere.» Da questo interessante inno panteistico si comprende che l'anima del morto si disperde in tutto l'universo; ma, poichè ogni versetto ci fa sapere che si disperde lontano, dubito che la Prithivî e la Bhûmî non sia qui la terra, come le acque e le erbe, in cui l'anima del morto passa, debbono essere le acque e le erbe mitiche, ossia originariamente celesti e luminose. E tanto più ne dubito, poichè gli altri Inni funebri vedici consegnano alla terra ed al fuoco sotterraneo malefico il corpo, ma non mai l'anima, la quale invece viaggia, e viaggia in alto, e viaggia lontano, sulla vetta delle alte montagne, ove l'aurora si mostra, nella sfera luminosa del sole, a traverso le stelle, nel mondo lunare, ne' quattro punti cardinali. L'anima divien genio, e quel genio ama le forme più lievi, le sedi più elevate; se esso penetrasse subito nella terra opaca non potrebbe più muoversi, nè fare altri viaggi, secondo la sua mobile natura. Io m'induco pertanto a credere che anche in quest'inno funebre la Prithivî, la Bhûmî lontana che l'anima del morto visita, è una Prithivî, una Bhûmî celeste.

Io non so se queste prove bastino a persuadere della natura celeste della Prithivî vedica congiunta con Dyu o con Dyavâ; ma quello che io credo poter sicuramente affermare è, che, negl'Inni vedici, nulla c'induce ad ammettere la personificazione di una Dea Terra. Questa nozione venne più tardi, quando cioè la Prithivî celeste si dimenticò, ed alcune delle sue qualità furono attribuite alla terra propriamente detta. È importante questa distinzione, non solo perchè ogni verità ha la sua importanza per sè, ma ancora per interpretare le leggende del ciclo eroico indiano, ove gli Dei vedici hanno preso aspetto di eroi umani. A me non par dubbio che la Sîtâ sia una persona eroica dell'aurora mitica; ma chi lo nega, cercherà avvertire la impossibilità di un tale ravvicinamento, poichè l'Aurora è nel Rigveda la figlia del cielo (duhitar divas), mentre Sîtâ apparirebbe la figlia di Prithivî, ossia della terra. Ma quando noi avessimo potuto provare che esistette una Prithivî celeste, della quale il padre dell'aurora appare ora sposo, ora fratello, tutto l'edificio de' nostri contradittori cadrebbe. Ed ecco il motivo, per cui ho tanto insistito sopra una sola minuzia; la tela d'Aracne è entrata nella mitologia; se noi non tenessimo conto anche de' fili più tenui, la nostra opera, per quanto industre, non approderebbe a nulla. Il concepimento indiano della Terra madre fecondata dal Cielo padre si riduce ad esprimere la fecondazione naturale della terra per mezzo della pioggia celeste; i poeti vedici ed i latini hanno cantato questa relazione tra il cielo e la terra quasi con le stesse parole, senza che tuttavia da questa relazione poeticamente descritta si generassero miti vivaci e fecondi. I poeti vedici non hanno a questo riguardo detto niente più di Lucrezio, il quale, nel primo libro De Rerum Natura, cantava:

Postremo pereunt imbres, ubi eos pater aether

In gremium matris terrai praecipitavit;

e nel secondo libro:

Denique coelesti sumus omnes semine oriundi:

Omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis

Umoris guttas mater cum terra recepit,

Freta parit nitidas fruges arbustaque laeta

Et genus humanum.

Questi versi sono il miglior commento ch'io possa offrire agl'Inni vedici per ciò che spetta la parentela fra il cielo e la terra; il cielo è padre degli Dei, e fecondatore della terra, la quale, fecondata, alla sua volta diviene madre degli uomini; perciò Giove potè con ragione chiamarsi pater hominumque deumque. E noi non abbiamo punto dismessi quegli antichi appellativi, quando diciamo per celia allo scoppio del tuono che il padre Giove è in collera. In Piemonte e nel Veneto, Giove è divenuto zio (barba Giove), ma è un appellativo anche più carezzevole di padre. Il cielo fu sempre, sotto tutte le forme, cantato come un benefattore, quantunque in esso si producano pure forme tenebrose, demoniache ed infernali. Ma queste forme sono al cielo stesso avverse; esso le combatte come nemiche, e, nella vittoria sopra di esse, il Dio diviene eroico.

Ma il cielo che è, per noi mortali, e per molte figure celesti, padre, da chi fu creato esso stesso?

I poeti vedici ammettevano già un creatore del cielo e della Prithivî, e, nella loro ingenua ammirazione, cantavano che il Dio loro autore, poichè poteva solamente essere un Dio, aveva dovuto essere il più operoso operaio. Abbiamo detto che Indra abbraccia il giorno e la notte, il cielo diurno e il cielo notturno, e che è cantato come Divaspati, ossia come signore del cielo; esso è pure celebrato come genitore del Dyu, e genitore della Prithivî (Rigv., VI, 30; VIII, 36), genitore del padre e della madre ch'egli trasse dal proprio corpo (tanvah svâyâs): perciò essi sono considerati ciascuno per sè come una sola mezza parte del Dio Indra, il quale abbraccia tanto il Dyu quanto la Prithivî, che lo seguono, come il rotante carro segue il cavallo (Rigv., VIII, 6), altro indizio che ci conferma come si tratti qui d'una mobile figura di Prithivî celeste; il giorno e la notte seguono Indra, ossia Indra regge il cielo diurno e notturno. Quando Indra tona, i suoi due figli ne tremano. Ma perchè in Indra vi sono le qualità del Dio Pûshan e quelle del Dio Soma, così Dyu e Prithivî si raffigurano pure come figli di Soma e Pûshan: e perchè Mitra (o Savitar) e Varuna sono altre due forme corrispondenti alla duplice qualità diurna e notturna del Dio Indra, Dyu e Prithivî appaiono pure figli di Mitra e di Varuna, di cui il primo presiede al giorno, il secondo alla notte.

Indra stesso, come artefice per eccellenza, piglia il nome di Tvashtar, forma che quindi si distingue da lui per divenire l'artefice privilegiato degli Dei, per i quali crea ogni forma celeste, e però anche Dyu e Prithivî. L'espressione d'Indra creatore del cielo equivale dunque a quest'altra il cielo crea sè stesso, poichè, come vedremo, l'antico Indra non fu altro se non il cielo. Relativamente moderne consideriamo la tradizione cosmogonica dell'uovo d'oro (Hiranyagarbha), da cui, secondo un inno vedico (X, 121), sarebbero venuti fuori anche Dyu e Prithivî, e quasi brâhmanica quella, per cui dalla testa di Purusha, il maschio universale, sarebbe uscito Dyu, il cielo, dall'umbilico di Purusha l'aere intermedio, dai piedi di Purusha la Bhûmî, che in questo caso appare veramente la terra, dove, pertanto, discesi ci fermeremo, per risalire con miglior animo, nella prossima lettura, in cielo, a conoscere la poetica figlia di Dyu, la bellissima delle Dee, l'Aurora, la quale, come la forma più luminosa del cielo, diede pure origine ad alcuni de' miti più eleganti e più splendidi.

Letture sopra la mitologia vedica

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