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LIBRO PRIMO
XI

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Davos scintillava adamantino e terso nel sole invernale.

Edith giaceva sulla terrazza dell'Hôtel Belvedere, con una coltre ravvolta intorno alle ginocchia e un parasole aperto sul capo.

Era felice. Sua madre le aveva allora allora portato una lettera di Nancy.

La piccola Nancy, che l'aspettava in Italia – (oh, non avrebbe avuto molto da aspettare! Ancora un po' di tempo, ed Edith sarebbe completamente guarita!) – le scriveva una lettera, tutta d'amore e di tenerezza, dicendole di far presto a guarire! La vita senza Edith, scriveva la bimba, era un brutto sogno; l'Italia senza Edith non era che una macchietta verde e un nome sulla carta geografica, ma in realtà non esisteva affatto! La zia Carlotta e la cugina Adele erano buone e care persone con voci forti e risate larghe – come tutti, del resto, a Milano – ma Nancy non le capiva e non le amava. Non amava che Edith. Non voleva che rivedere Edith, essere vicina a Edith! e non lasciarla più. – Ah, quasi dimenticava di dirle che aveva scritto due poesie in italiano; e sua mamma le trovava più belle di tutte le altre cose scritte prima. E addio! e arrivederci! e che Edith guarisse presto presto, per poter tornare tutti insieme in Inghilterra ed essere felici.

V'era un affettuoso poscritto di Valeria che le diceva di essere buona e di guarir presto.

Sì, sì! Edith sentiva che sarebbe guarita presto. Era l'ora in cui la temperatura le saliva, e il leggiero frizzore che la febbre le metteva nel sangue le dava un senso di eccitazione, quasi di fretta. Essa si sentiva vivere, intensamente, smaniosamente.

Strinse sulle labbra la lettera della piccola Nancy, e riaffondò il capo nei cuscini.

La sua seggiola a sdraio era la penultima di una lunga serie di seggiole identiche, tutte in fila sulla terrazza a mezzogiorno dell'Hôtel Belvedere. Da ambo i lati, Edith vedeva altre figure adagiate con coltri e parasoli, come lei. La sua vicina di destra era una giovane russa, di pochi anni, forse, maggiore di lei, con una faccia magra e contratta e un rossore fisso al sommo delle gote. A sinistra giaceva Herr Fritz Klasen, un tedesco di ventiquattro anni, fresco di carnagione, largo di spalle, con grandi occhi azzurri e irrequieti.

Quando Edith volse lo sguardo verso di lui, egli subito le parlò.

– Come le piace Davos? – chiese.

– Tanto, – rispose Edith.

E il giovane approvò col capo e sorrise.

La ragazza russa aprì gli occhi neri e guardò Edith.

– E' appena arrivata? – domandò.

– Sì, da tre giorni soltanto, – rispose Edith. – E lei, da quanto tempo è qui?

– Da quattro anni, – disse la ragazza, richiudendo gli occhi.

Edith volse il capo verso il giovane tedesco, scambiando con lui un'occhiata di compassione.

– E lei? – gli domandò.

– Io sono qui da otto mesi, – rispose il giovane. – Sono guaritissimo, e torno a casa in maggio.

La russa riaprì i cupi occhi infossati, ma non parlò.

– Va al ballo lei, questa sera? – chiese il giovane a Edith dopo un momento di silenzio.

– Un ballo? qui? – domandò Edith, sorpresa.

– Già, già! Proprio in questo hôtel, nel gran salone. Sicuro, si balla ogni mercoledì qui al Belvedere. E al Grand Hôtel ogni sabato. Questo è un posto dove ci si diverte molto! – E il giovane diede un piccolo colpo di tosse per schiarirsi la gola e canticchiò la « Valse bleue ».

Quella sera Edith andò con sua madre nel gran salone, e sebbene non ballasse, si divertì assai. La signora Avory le chiedeva ogni momento:

– Sei stanca? Sei stanca?

Ma Edith non era stanca. Sentiva nell'atmosfera intorno a lei un vibrante e intenso eccitamento, a cui ella partecipava senza capirlo: era il perturbante, febbrile eccitamento di una danza macabra.

Fritz Klasen le venne davanti e, dritto, battendo insieme i tacchi, si presentò a sua madre e a lei.

– Mai più avrei pensato che Davos fosse così gaia, – disse la signora Avory, levando sul viso del giovane i miti occhi celesti.

– Altro che gaia! – rispose lui, ridendo. – E' il posto più allegro del mondo; non abbiamo tempo qui da perdere in malinconie.

Una signorina vestita di seta gialla si precipitò verso di lui:

– Presto. La quadriglia! – esclamò, prendendogli il braccio e trascinandolo via.

Se ne andarono ridendo, e sdrucciolando come bimbi sul lucido impiantito.

– Non pare ammalato, quel giovane, – osservò la signora Avory.

– E la ragazza neppure, – disse Edith.

– Ma nessuno qui sembra ammalato; – e la madre girò lo sguardo sulla gaia folla danzante, chiedendosi con meraviglia se ciascuno di essi portava chiuso in sè il funesto e spaventevole spettro che ella sapeva rinserrato nel fragile petto di sua figlia. – Hai notato, – disse, – che non si sente mai nessuno tossire?

– E' vero, – disse Edith.

Dopo una breve pausa, la signora Avory disse:

– Probabilmente tutta questa gente è qui per godersi gli sports dell'inverno.

E per molto tempo, credette che fosse così. Vedeva intorno a sè visi giovani, e guancie colorite, e occhi vividi; e udiva chiacchierare molto, e ridere. Oh! sopratutto ridere, sempre ed eccessivamente. V'erano balli e concerti, feste e bazars; e sempre e dapertutto si ritrovavano gli occhi vividi e le guancie colorite e le folli risate.

Un'unica cosa singolare notava la signora Avory, ed era questa: quando, nell'augurare la buona notte ai nuovi amici, stringeva loro le mani, quelle mani erano strane al tocco, e la facevano trasalire. Non erano come le mani dell'altra gente, della cui stretta non ci si accorge. « Buona notte, » all'uno. (« Dio, che mano calda! » pensava la signora Avory). « Buona notte, » all'altro. (« Che mano fredda e umida! ») Mani di fuoco e mani di ghiaccio; mani aride che parevano doversi sbriciolare al tocco; mani umide che la facevano rabbrividire; deboli mani bagnate, da cui le sue palme rifuggivano. Ognuna di esse narrava la sua tragica storia. Ma i visi ridevano, ed i piedi danzavano e nessuno tossiva mai.

In breve anche Edith cessò di tossire. Il dottore glielo vietò. Ed essa tossiva soltanto di notte; quando nessuno fuor che sua madre la poteva udire.

Così passarono i giorni pieni di promesse, e pieni di delusioni. E Edith, sottomessa, con passo lieve, andava verso il suo fato.

Una sola cosa le straziava l'anima: era il desiderio angoscioso, lo struggimento intenso di vedere Nancy.

Nancy! Oh, Nancy! Nancy! Essa ripeteva piano quel nome mille volte al giorno, e chiudendo gli occhi, tentava rievocare il visino allettatore e i ricci neri ondeggianti al sommo della vaga testolina. Le pareva di sentire un vuoto, quasi doloroso, nelle mani febbrili, per la smania di stringere in esse quelle morbide mani infantili che in passato si erano così soavemente aggrappate a lei.

La signora Avory la consolava. In primavera, o al più tardi in estate, Edith rivedrebbe Nancy! Oh! certo, fra un mese o due Edith starebbe benissimo! Purchè bevesse molte uova crude e fosse ragionevole.

E Edith beveva molte uova crude ed era ragionevole.

Primavera, esitante e timida, scalò i mille cinquecento metri di montagna e arrivò a Davos alla fine di maggio.

Fritz Klasen partiva per tornare a Lipsia.

– Addio! addio! – Faceva il giro della terrazza nell'ora del riposo, stringendo la mano a tutti, e dicendo: « Gute Besserung » e « Auf wiedersehen in Deutschland! » a due o tre amici tedeschi.

Quando giunse presso la ragazza russa, questa dormiva. Edith lo salutò con un sorriso radioso:

– Addio! sono tanto contenta per lei, che parta. Sono proprio tanto contenta!

Quando egli fu partito, Edith si avvide che la russa aveva aperto gli occhi e la guardava fissamente.

– Mi avete parlato? – domandò Edith.

– No, – disse la russa, nella sua strana voce vuota – Ho pensato.

Edith sorrise.

– Che cosa?

– Ho pensato: perchè mentite, voi?

Edith si rizzò a sedere facendosi rossa in viso.

– Come? – esclamò.

Rosalia Antonowa tenne i suoi occhi profondi inchiodati sul viso di Edith.

– Avete detto che siete contenta di vederlo partire. Forse era vero, – soggiunse. – Voi non siete qui che da poco!… Ma tra un anno, tra due anni, tra quattro anni, le vostre labbra non potranno più pronunciare tali parole, e il vostro cuore si stringerà per l'amarezza quando un altro partirà, mentre voi sapete che non partirete mai. Mai!

Le fosche palpebre si richiusero.

Edith cercò qualche cosa di consolante da dire.

– Non bisognerebbe affliggersi di star qui. Davos è così divinamente bella! Non si può non amare questo splendore azzurro, queste montagne, folgoranti di neve e di sole.

– Oh! le montagne! – mormorò Rosalia, con le mani contratte. – Le montagne che mi pesano sul petto! E la neve che mi agghiaccia e mi soffoca, e il sole che mi brucia e mi accieca! Oh! – e alzò il pugno sottile verso l'immensità che torreggiava intorno a lei. – Oh! questa indescrivibile, questa mostruosa prigione della Morte!

In quel momento passò una giovinetta belga, con le labbra pallide e il vitino stretto, e si fermò per domandare a Rosalia come stava.

– Male, – rispose la russa, brevemente.

Quando la ragazza fu passata, si rivolse ancora a Edith.

– E saprete allora cosa vogliono dire quando vi domandano: « come state ». Non è il solito « come va? » che si dice, passando, quasi senza pensarci. No; qui vogliono sapere. Lo domandano sul serio. « Come state? state meglio di me? E' possibile che possiate guarire più presto di me? No, no; mi pare che stiate un po' peggio di me… Come? da un mese non avete emorragie? E nessuna febbre? Ma brava!! così va bene!… » E poi vedete nei loro occhi l'odio che vi vorrebbe morta.

– Oh! – esclamò Edith, – non mi pare possibile!

La russa tacque per un po', poi disse.

– Klasen tornerà qui. Non è guarito. Il dottore gli aveva detto di non partire. Vedrete che fra poco tornerà.

Tornò, diffatti, quattro mesi dopo. Edith fu desolata di vederlo così pallido, quasi grigiastro, in faccia. Ora doveva fermarsi a Davos ancora due o tre anni. Ma Klasen diceva che non gliene importava! Era felice. Era sposato da un mese!

Difatti sua moglie era con lui; ed egli la presentò a Edith e alla signora Avory il giorno dopo l'arrivo. Era una biondina di diciannove anni – un fiore di sangue azzurro dell'aristocrazia tedesca – e aveva voluto sposare Klasen malgrado le preghiere e i divieti dei genitori.

– Lo farò guarire io, – diss'ella ridendo alla signora Avory e a Edith.

L'estate era splendida; e la sposina usciva molto a far lunghe passeggiate e gite in montagna; e la sera cantava in tutte le feste e i concerti, perchè aveva una voce limpida e chiara, tutta trilli e gorgheggi come quella di un'allodola. Nelle ore del riposo stava sulla terrazza accanto a suo marito e vicino a Edith (poichè egli aveva ripreso il suo antico posto); ma dopo un po', la bella biondina si stancava di star lì; baciava in fronte suo marito e scappava a far delle visite, o andava in carrozza a Klosters; o studiava qualche romanza nuova.

I lucenti occhi azzurri di Klasen la seguivano; e la russa, dal suo giaciglio, lo guardava, leggendogli in volto i pensieri. Essa leggeva: « Ho preso moglie per non essere più solo – solo col mio male e il mio terrore, nel giorno e nella notte. Ma sono ancora solo. Quando mia moglie è con me, se io tosso, ella dice: « Povero tesoro! » E quando di notte soffoco e sudo, essa, nel sonno, sospira: « Povero tesoro! ». Poi si volta dall'altra parte e dorme. E io sono solo, col mio male e il mio terrore ». E alla russa pareva di vedere che gli occhi di Klasen ardessero di una luce che non era tutta amore.

Dopo qualche tempo la sposina cantò meno e fece meno visite.

Disse che era calata di peso; e un giorno andò con suo marito dal dottore. Sì… infatti… qualche cosa c'era – oh, una cosa da niente! – all'apice del polmone sinistro.

Così venne posta anche per lei una seggiola a sdraio sulla terrazza, accanto a quella di suo marito; e anche lei nel pomeriggio riposava con una coltre intorno, e un parasole sul capo.

Fritz teneva stretta la manina su cui brillava ancora nuovo l'anello nuziale; e quando lei tossiva, era lui che diceva: « Povero tesoro »! E non era più solo. Durante il giorno i due ridevano ed erano allegri; e di notte Fritz dormiva meglio. Ma sua moglie restava sveglia, e pensava alla sorellina e ai suoi due fratelli che erano a casa, sani e salvi, col papà e la mamma.

Talvolta, e specialmente d'inverno, arrivavano a Davos dei turisti e degli amanti di sport per restarvi una quindicina o un mese. La signora Avory notava che questi ridevano molto meno degli ammalati.

E Fritz Klasen diceva:

– Guardate un po' come esagerano lo sport, pattinaggio, ski, « bobsleigh », « curling »! Si logorano, si affaticano! Sì, sì, – aggiungeva piano a sua moglie e a Edith, – quasi tutti quelli che vengono qui come « sportsmen » ci tornano poi come ammalati. – E il suo risolino faceva rabbrividire Edith.

La sposina talvolta sussurrava al marito:

– Guarda, guarda, Fritz! altri due, arrivati oggi!

– Ma forse sono turisti?

– No, no! sono ammalati… – E negli occhi giovanili che si volgevano ai nuovi venuti, non v'era dolore.

Caddero, uno dietro l'altro, i giorni, come goccie stillanti, lente, limpide, uguali. Fluirono i mesi. Svanirono gli anni. Ed Edith li varcò con passo leggiero e sempre più leggiero. Ma ancora e sempre il desiderio di rivedere Nancy le mordeva, con dente avvelenato, il cuore. Ogni ora della sua giornata era amareggiata dallo struggimento di udire quella voce trillante e puerile, di sentire nella sua il tocco di quella tiepida manina. Pensava: « Se io morissi, Valeria permetterebbe a Nancy di dirmi addio! ». Poi pensava: « Ma se Nancy venisse, io guarirei. Adesso non posso mangiare, perchè ho sempre voglia di piangere… ma se Nancy fosse qui, non piangerei. Andrei a passeggio con lei, e mi verrebbe fame. E se potessi mangiare, lo so che guarirei. Nancy! Nancy! Nancy!… »

Ma Nancy era in Italia in casa della zia Carlotta e della cugina Adele; e nemmeno le lettere di Edith le venivano date, perchè su quei poveri fogli si era chinata Edith – Edith, di cui l'affetto, di cui il tocco, di cui l'alito, era veleno.

Nancy parlava italiano e scriveva versi italiani. Usciva a passeggio con Adele; ed era Adele che teneva la morbida manina, che udiva il trillo della voce puerile. Era Adele che imponeva il silenzio in casa, e faceva aspettare i pasti quando Nancy componeva. E quando Nancy aggrottava le sopracciglia, passandosi una mano sulla fronte con quel rapido gesto che le era famigliare, Adele rideva; e la sua squillante risata milanese faceva prendere il volo a tutte le farfalle della fantasia! Adele metteva ordine nelle cose di Nancy, e aveva buttato via le primole disseccate che Nancy aveva colte con Edith nei boschi dell'Hertfordshire. E la fila di perline azzurre che Edith le aveva messo al collo il giorno che era partita per Davos, Adele l'aveva regalata alla figlia del portinaio. Aveva anche stracciato le poesie scritte dalla piccola Nancy in Inghilterra, perchè, tanto, erano vecchie cose che nessuno capiva!

E così fluirono i mesi, svanirono gli anni: ed Edith passò fuori dalla memoria di Nancy. Pianamente, mitemente, con passo leggiero, la dolce virginea figura uscì dal suo ricordo, e si dileguò. Poichè fanciulli e poeti sono immemori ed egoisti. E un fanciullo che è poeta, è doppiamente egoista e doppiamente immemore.

Quando Nancy ebbe quindici anni, una casa editrice milanese accettò il suo primo libro: un ciclo di liriche. La posta che portò le prime bozze di stampa alla giovanissima poetessa, portò anche una lettera, listata di nero, dalla Svizzera per sua madre.

– Mamma, – gridò Nancy togliendo dalla larga busta i fogli stampati e facendoli trionfalmente sventolare; – guarda! Ma guarda, mamma, le bozze! Questo è il mio libro! pensa che è il mio libro! – E la fanciulla, chinando il viso sui sciolti fogli li baciò.

Valeria aveva aperta la lettera listata di nero, ed ora la contemplava pallida, con gli occhi inondati di pianto.

– E' morta Edith, – disse con voce tremante.

– Oh, poveretta! – esclamò Nancy. – Che dispiacere! Non piangere, non piangere, mamma adorata! – E baciò leggermente i capelli di sua madre. Poi si rivolse alle bozze, e trepida e solenne ne voltò la prima pagina.

– E' morta giovedì mattina, – singhiozzò Valeria. – Oh, Nancy, Nancy! E tu non sai come ti amava.

No, Nancy non sapeva.

Nè udiva più sua madre. Davanti a lei stava la sua prima poesia stampata. La striscia dei brevi versi in mezzo al largo foglio bianco, le pareva un sentiero…

E via per questo fantastico sentiero Nancy s'avviò, con occhi stellanti e mattutini, là dove il richiamo dell'amore o della morte non le giungeva più – guidando l'allucinante turba dei suoi sogni verso le lande favolose dell'immortalità.

I divoratori

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