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CAPITOLO V. La reggia di Semiramide.

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Siccome il vigile Thuravara avea riferito a Zerduste, la cavalcata degli Armeni, entrando dal baluardo di Nivitti Bel, aveva già fornito buon tratto di strada per mezzo ai quartieri occidentali della città, avviandosi al ponte, che ne congiungeva le membra vastissime, attraversate dal fiume.

Ristorati da una notte di riposo, astersi dal sudore e dalla polvere del lungo viaggio, coperti dei loro arnesi più sfoggiati, i cavalieri del re d'Armenia faceano vistosa mostra di sè ai cittadini accalcati lunghesso le vie. Si notavano le sciolte criniere dei cavalli sbuffanti, le lunghe spade pendenti dal fianco, le luccicanti faretre, i lunghi archi ad armacollo e le mitrie folte di negri peli che davano ai montanari di Peznuni e di Armavir un così marziale aspetto, facendo così spiccato contrasto con le gentili e quasi muliebri fogge del popolo babilonese.

Ma gli sguardi della moltitudine erano in particolar modo attratti dalla nobil figura del re. Era costume dei monarchi lo andare in cocchio, con l'auriga dai piedi e il portatore d'ombrello da tergo. Il giovine Ara veniva in quella vece più modestamente a cavallo, ma con assai più vantaggio per la sua grande bellezza. Calze di porpora si aggiustavano alle gambe nervose ed eleganti; una tunica di bianca lana, ricamata d'oro sui lembi, gli si stringeva a' fianchi; la clamide regia, anch'essa di porpora, gli scendeva in molli pieghe dagli òmeri; la benda di perle portata da' suoi maggiori, gli girava intorno ai biondi capegli. Il piede, chiuso in un sandalo di morbido cuoio, posava su staffa d'oro; la mano leggiadra stringeva i capi delle redini gemmate, splendenti sul poderoso collo del suo bianco palafreno, a cui una pelle di leopardo servìa di gualdrappa.

«Ara il bello! Ara il bello! — gridavano i cittadini di Babilonia, come già, vedendolo passare, aveano il giorno addietro gridato i volghi suburbani. — Invero, egli non si è mai veduto un più leggiadro garzone sulla terra di Sennaar. Come la regina nostra risplende per sovrumana bellezza tra tutte le donne, così questo nobile straniero tra gli uomini. Ara il bello, sii tu il benvenuto in mezzo al popolo delle quattro favelle!» Così, per tutta la lunghezza del cammino che il re di Armenia aveva a percorrere, il mormorìo d'ammirazione destato dalla sua vista, venia man mano rompendo in esclamazioni, in grida di esultanza, in affettuosi saluti, come di popolo ossequente e devoto al suo re, anzichè di nazione avventurosa e superba al suo tributario. E tutti, come potevano, a spingersi innanzi e far ressa intorno al suo palafreno, che durava fatica ad innoltrarsi, sebbene una fitta schiera di soldati babilonesi lo precedesse, per isgomberare il passo al regale corteo.

Nel cuore di Ara il bello tornava a regnar la mestizia. Egli già sentiva la vicinanza di Semiramide; pochi istanti ancora e si sarebbe trovato al cospetto della grande regina d'Assiria, di colei che signoreggiava il più vasto impero del mondo. E l'immagine di Sandi, del suo povero amico galleggiante sull'acque dell'Eufrate, gli stava sempre nell'anima. Per discacciare quella crescente tristezza, egli pensava allora alla notte vegliata nel sacro bosco di Militta; pensava alla sua bellissima sconosciuta; pensava ai dolci colloqui, alle ineffabili ebbrezze che ancora gli scaldavano il sangue. E quella donna adorata non avea forse giurato esser la regina innocente della morte di Sandi? Poteva egli mentire, quel dolcissimo labbro? No certo, ed egli credeva alle parole di lei; ma, per contro, poteva amar Semiramide chi l'avea tanto odiata fino a quell'ora? Poteva andarne con allegrezza alla regina, chi ricordava d'esser sangue d'Aìco e non sapeva dissimulare a sè stesso di venire in atto di tributario alla gente di Accad? Poteva avvicinarsi desideroso alla donna, celebrata per insigne bellezza nel mondo, chi aveva pur dianzi veduta ed amata la bellissima tra tutte?

Atossa, era il suo nome, il soavissimo nome che la sconosciuta gli avea susurrato all'orecchio. Altro non aveva egli saputo dell'esser suo, ma bene aveva argomentato com'ella fosse una tra le più riguardevoli donne di Babilonia. E non avrebbe egli dovuto vederla tra breve, in mezzo alle nobili compagne della regina? A volte lo sperava, o almeno gli pareva che ciò fosse probabile: ma un dubbio acerbo gli stringeva il cuore e vi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così meravigliosa bellezza! Mai più Semiramide avrebbe patito la vicinanza e il paragone di così splendida amica! Eppure, non gli aveva ella detto, a lui dolente di abbandonarla sui primi albòri del giorno, non dubitasse, non temesse di nulla, che presto ei l'avrebbe di bel nuovo veduta, ed ella medesima sarebbe stata la prima a farglisi incontro? Così procedeva, tra speranza e timore; frattanto venìa rispondendo con atti cortesi alle grida e ai saluti del popolo.

Indi a non molto, la cavalcata giunse alla svolta del ponte, miracolo dell'arte babilonese, che collegava le due sponde dell'Eufrate e i due palazzi regali, l'uno a riscontro dell'altro, ambedue meravigliosi a vedersi. Il primo, che era posto sulla riva destra, girava trenta stadii, rinfiancato di alte mura merlate, su cui si vedevano impresse figure di combattenti, città assediate, e lunghe file di prigionieri supplicanti. Di là dal ponte torreggiava la gran mole dell'altro, sopra un terrapieno di sessanta stadii, a cui si giungeva per ampie salite laterali, vigilate ad ogni ripiano da colossi di pietra. Aveva un giro di quaranta stadii il secondo recinto, ornato di ogni specie animali, così diligentemente condotti e coloriti, che pareano spiranti di vita. Nel terzo recinto, che era la cittadella, si ammiravano rilievi e dipinti di più egregio lavoro; tra essi una caccia, in cui le figure apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era effigiata Semiramide su d'un focoso destriero, nell'atto di scagliare il giavellotto contro una pantera. Poco lunge da lei era Nino, il suo sposo, che d'un colpo di lancia trafiggeva un leone.

Tutto ciò era stupendo a vedersi da lunge, vera montagna di edifizi sovrapposti, selva intricata di strane forme e di svariati colori. Immani architravi e fregi e merlature correnti per lunghissimo ordine su colonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umana, qua e là fieramente piantati a custodia degl'ingressi; lunghe aste variopinte, dalle cui cime sventolavano stendardi e orifiamme di porpora; scale e balaustrate di marmo; mura lucenti di smalto; varietà infinita di cose, che confondeva lo sguardo, senza nuocere alla grandiosa unità del complesso! E sui terrazzi più alti, l'occhio discerneva padiglioni e velarii, tesi a riparo del sole, fra mezzo ad alberi verdeggianti, òasi sospese tra cielo e terra da un capriccio di donna, da una fantasia di regina.

Come fu giunto il corteo sull'altra riva del fiume, la scorta dei babilonesi si fermò e si aperse in due ale, per cedere il passo agli Armeni. Il giovin re attraversò la spianata e andò difilato verso l'ingresso della reggia, che gli era addimostrato da due leoni colossali, l'uno a riscontro dell'altro, in atteggiamento di riposo.

Colà stavano ad attenderlo, per fargli le prime accoglienze, i grandi della corte, il gran maggiordomo, il gran coppiere, il capo degli eunuchi, il comandante delle guardie reali, con numeroso seguito di ufficiali minori e di servi. Tranne questi ultimi, tutti indossavano il candi, lunga tunica di lana scarlatta, con frangia d'oro sui lembi, la quale risaliva sul dinanzi infino alla cintura, parimente d'oro, donde pendeva la spada, con le insegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli appartenenti alla milizia, in cambio di mitria, portavano in capo una tiara foggiata ad elmo chiuso, che copriva loro le guancie ed il mento.

Il gran maggiordomo, facendosi incontro al re d'Armenia, così parlò, levando in alto le mani:

— Ben giungi, o discendente d'Aìco, alla reggia di Semiramide, nostra gloriosa signora, cui Belo ha concesso la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potenti della terra. In quella guisa che Sanì regna nel cielo e diffonde per ogni dove i benefizi della sua luce, così ella regna in Babilonia e sparge i tesori della sua amicizia sui regnatori di popoli che la circondano. —

Il re d'Armenia chinò leggiadramente il capo, ma senza risponder parola. Gli eunuchi, fattisi innanzi a lor volta, pigliarono ossequiosamente le redini del suo cavallo, per condurlo entro il primo recinto e su per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo in compagnia degli ufficiali babilonesi, il giovine Ara potè, alla prima svolta dell'ampio viale, scorgere dietro a sè la lunga fila de' suoi, e il popolo di Babilonia accalcato sul ponte e sulle rive del fiume.

A quel grandioso spettacolo, un altro ne seguì, quando egli fu giunto all'altezza del secondo ripiano, vasto piazzale, dintornato da nobili edifizi, ov'erano gli alloggiamenti di tutti i grandi della corte. Colà stavano in bell'ordinanza schierati i guerrieri della regina, splendidi a vedersi nelle loro corazze di lino, coi loro tondi scudi imbracciati e gli elmetti di rame luccicanti al sole. Alla vista del re d'Armenia squillarono le trombe, rimbombarono i timballi percossi, e il canto guerresco degli Accad si levò fino al cielo.

La cavalcata proseguì fino al secondo ingresso, vigilato da due enormi tori dall'aspetto umano. Cessarono i canti ed i suoni ad un tratto e sul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi Iddii protettori di Babilonia. Alle vesti d'oro si conoscevano i sacerdoti di Sam, il dio sole, a quelle d'argento i ministri di Sin, che è il dio luna. Vestiano di nero i sacerdoti di Ninip, di aranciato i sacerdoti di Merodac, scarlatto i seguaci di Nergal, bianco quei di Militta, azzurro i dedicati al culto di Nebo. Di pietre preziose apparìano tempestate le tuniche e le tiare dei venerandi; frangie d'oro ne ornavano gli orli, e ghiande di smeraldo pendevano dai lembi.

— Gli Dei ti proteggano, o re d'Armenia; — gli disse il gran sacerdote, levando le mani in atto di benedirlo.

— Insegni a te la prosperità di questa reggia come soltanto dal patrocinio degli Dei gli uomini derivino ogni loro fortuna. Soltanto mercè l'aiuto celeste i re salgono in fama per le loro virtù, camminano nelle vie della giustizia e si raffermano nella santità, che li fa degni, dopo morte, degli onori divini. —

Ara chinò gravemente il capo e rispose:

— Tu parli il vero, o santissimo. Un re a cui venga meno il soccorso celeste, vaga nelle tenebre a guisa di cieco. Gli abitatori del firmamento azzurro, comunque nomati tra le genti vostre e le mie, assistano sempre il popolo delle quattro favelle! —

Ciò detto, spinse il cavallo sul limitare e, seguito dal venerando stuolo, penetrò nel terzo recinto, donde si ascendeva all'ultima spianata della regia piramide, innanzi al palazzo della grande signora di Babilonia.

Lassù lo aspettava una scena più meravigliosa a gran pezza. Davanti a lui si stendeva una piattaforma, lunga cinque stadi e larga per modo che dieci cavalli vi si potevano muover di fronte, senza occuparne i margini di pietra, l'uno dei quali correva lunghesso il parapetto, ornato a giuste distanze di figure simboliche, e l'altro circondava, come una fascia di candido lino, il magnifico peristilio del palazzo, formato da colonne di palma, che sorreggeano capitelli di granito, stranamente foggiati a chimere, sirene, ed altre creazioni fantastiche. La piattaforma era vuota, in attesa degli ospiti, che dovevano schierarvisi in bella ordinanza; per contro, l'intercolonnio appariva folto di gente, tra cui erano primi i trecento portatori di scettro, ministri dei regali voleri, splendidi a vedersi per le lunghe vesti di porpora e d'oro e per le ricche tiare che stringean loro le chiome inanellate e lucenti. Infine, sul peristilio, per quanto era lungo, si scorgeva un terrazzo, chiuso da una balaustrata di mattoni dipinti a smalto, e sormontato nel mezzo da un padiglione, o velario, partito a liste di varii colori, sotto il quale, circondata dalle sue ancelle, stavasi la regina ad attender l'arrivo del suo tributario d'Armenia.

Il gran maggiordomo, che veniva innanzi, tenendo per mano le redini del palafreno di Ara, annunziò al cavaliere la presenza della regina. E il principe allora si fermò in mezzo alla piattaforma; alzò gli occhi al terrazzo, mettendosi una mano sul petto; indi si tolse la benda di perle dal capo, trasse la spada dal fodero, e depose queste insegne del suo potere tra le mani del gran maggiordomo, il quale fu sollecito a raccoglierle e sollevarle con palme tese verso la regina, che dall'alto sorrise e con lo scettro accennò cortesemente di gradire l'omaggio.

A quel cenno squillarono da capo le trombe e risuonarono i timballi percossi. Il re d'Armenia scese d'arcione, per avviarsi all'ingresso; intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano sulla piattaforma, sotto gli occhi della regina.

Portavano queste salmerie i donativi del re alla grande signora di Babilonia; massi di rame naturale cavati nelle montagne di Armenia; pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatene, a levante del lago di Van; tappeti di finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe veglie invernali dalle donne di Peznuni; cavalli piccoli e forti, velocissimi al corso, cresciuti nelle mandrie regali di Armavir. E in quella che il gran tesoriere disaminava i ricchi presenti, e gli eunuchi aritmetici veniano con canne temperate annotando ogni capo su rotoli di papiro, i servi della reggia conducevano i seguaci del re d'Armenia alle stanze loro assegnate per alcune ore di riposo, innanzi che facessero ritorno ai loro alloggiamenti fuori il baluardo della città.

Guidato dal gran maggiordomo, seguito dai sacerdoti e dai portatori di scettro, il giovine Ara entrò nei vestibolo, dove gli fu data l'acqua ospitale alle mani, insieme con soavi profumi e ristoro di grate bevande, che adolescenti biancovestiti versavano dalle idrie capaci. Quindi ad un cenno recato dagli eunuchi, il re d'Armenia fu introdotto nella sala di Nemrod, a cui si ascendeva per un'ampia gradinata, in mezzo a due file di tori giganteschi, emblemi della possanza divina, le cui vaste ali erano dipinte di azzurro, la tiara di rosso, le corna e l'ugne dorate, laddove il volto, che figura l'umano, aveva il color delle carni e gli occhi appariano di persona viva, attraverso la vitrea scorza di smalto.

La sala, detta di Nemrod dalle imprese di quei re, che vi erano narrate in caratteri cuneiformi ed espresse in bassirilievi lunghesso le pareti, era di sterminata grandezza. Le mura, qua e là rinfiancate da enormi pilastri foggiati a colonne, misuravano ottanti cubiti e più, dallo zoccolo di marmo colorato insino al fregio dell'architrave, donde si partiano i correnti del sopracielo, condotto in legno di odoroso cipresso, sfarzosamente dorato e aperto nel mezzo alla luce del giorno, che scendea temperata da un velario di porpora.

Tra le colonne messe ad oro, con scanalature dipinte di rosso, erano vaste quadrature, ognuna delle quali divisa orizzontalmente in due parti; la superiore rivestita di mattoni lucenti, i cui rotti disegni concorrevano a formare in ogni intercolonnio l'imagine della divinità suprema, ch'era un cerchio con entro una figura d'uomo alato, il quale stringeva nella manca lo scettro e teneva la destra alzata nell'atto dello insegnamento; l'inferiore, poi, coperta di tavole d'alabastro, raffermate al muro da ramponi di rame, sulle quali erano scolpite scene di guerra e di caccia.

Vedevasi in una di queste il fortissimo Nemrod, potente cacciatore al cospetto di Ilu, correr sull'orma di un leone, piagato dalle sue freccie. Su d'un'altra era incisa la torre delle sette sfere celesti, lasciata a mezzo per la confusione delle lingue. Altrove il gran re presiedeva alla fondazione di Erech; più oltre si vedeva nel suo cocchio di guerra, con l'arco teso in pugno, nell'atto di scacciare Assur, figlio di Sem, dalla terra di Sennaar.

Seguivano le imprese di altri re della stirpe cussita, da Bel, figliuolo di Nemrod, infino allo sposo di Semiramide, il felicissimo Nino, che si vedeva raffigurato in più tavole, giusta il numero delle sue vittorie. In una di quelle sculture, il gran monarca era effigiato sul suo trono d'argento, con la tiara ricinta dal regio diadema, la veste bianca frangiata d'oro e due servi da tergo, l'uno de' quali in atto di agitare il flagello, emblema del suo assoluto potere, l'altro con le armi del re tra le mani, mentre davanti al trono passavano lunghe file di vinti, coi polsi legati dietro le spalle. Più oltre si vedeva l'assedio d'una città fluviatile. Gli assedianti spingevano torri di legno, cariche d'armati, contro le mura, dall'alto delle quali il popolo assediato si difendeva gagliardamente scagliando freccie e bitume infuocato. Da un altro lato della città, le donne fuggivano su carri tirati da buoi, ed uomini paurosi si gittavano a nuoto, aggrappandosi ad otri gonfiati, giusta il costume dei luoghi.

Di contro ad uno di questi scompartimenti della sala, ergevasi il trono di Semiramide, alta e splendida mole d'argento e d'oro, sormontata da un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli vinti, alla quale si ascendeva per parecchi gradini, coperti da un sontuoso tappeto. Il cerchio e la immagine alata, simbolo della divinità, splendevano per aurei riflessi e per vivezza di smalto sopra lo scanno della regina, e intorno a questo, distribuiti sui gradini dei trono, stavano immobili ed ossequiosi i flabelliferi, con alti ventagli di penne di pavone, i melofori, con le armi in pugno, significanti la virtù guerriera di Semiramide, e i portatori di scettro, interpreti e ministri de' suoi cenni regali. Seguivano le nobili compagne della regina, sfoggiatamente vestite: indi tutti gli altri uffiziali di corte digradanti man mano, tanto erano essi numerosi, lungo le pareti della sala. Tutt'intorno, poi, guerrieri sfavillanti nell'armi, suonatrici d'arpa e di cetra, musicisti in buon dato, ancelle e schiavi, diversi di nazione e di foggie.

Semiramide, bella come il sole nascente, sfolgorava dall'alto. La copriva dalla radice del collo insino alle piante una tunica di bisso, tinta in violetto di porpora marina e partita in mezzo da una larga striscia bianca, intessuta di ricami d'oro e di gemme. Una sopravveste, simile al peplo argivo, scendeva in molli pieghe dal colmo seno, rattenuta da un'aurea cintura e coperta a mezzo da una gorgiera a sette filze di pietre preziose, agate, onici, crisoliti, lapislazzoli, perle d'ambra, ligurini e giacinti. Le bellissime braccia apparivano ignude infino al sommo degli òmeri, e armille d'oro, e anelli gemmati, ne facevano risaltare vieppiù la marmorea bianchezza. Nella destra teneva lo scettro; insegna del comando; nella sinistra il fiore del loto, emblema delle sue conquiste fin sulle rive dell'Indo.

Una gioia profonda e calma traspariva dal volto della regina, il cui riposato atteggiarsi, lasciando i soavi contorni in tutta la loro serena maestà, diceva l'onesto compiacimento della bellezza, che è sicura di vincere dovunque ella si mostri. I suoi grandi occhi neri, accortamente allungati, giusta il costume orientale, la mercè di sottilissime linee, impresse con polvere stemperata d'antimonio, tramandavano una luce intensa e penetrante, come di zaffiro incontro ai raggi del sole.

Per mezzo alla gran moltitudine regnava un alto silenzio, che dimostrava sol esso la regia potenza di Semiramide, più che non la raffigurassero agli occhi del re d'Armenia tutte le splendidezze di quella sala, in cui mettea piede, guidato dal gran maggiordomo.

Poco prima di introdurlo al cospetto del trono, questi avevo detto al giovine re:

— Sai tu, mio signore, qual sia il nostro costume, nell'accostarci, umili, o grandi, alla maestà regale?

— Io no; — aveva risposto Ara; — e qual è il vostro costume?

— Prostrarci a terra e adorare. Sì, — ripigliava il gran maggiordomo, notando un gesto di ripugnanza del principe, — la più bella delle nostre leggi è questa, che ci comanda di onorare i re e di onorare in essi l'immagine degli Dei conservatori d'ogni cosa creata. A te, mio signore, omaggio in Armavir, come a Semiramide nella sua reggia di Babilu. —

Il re d'Armenia, bene intendendo il senso risposto di quella distinzione del suo introduttore, non avea più fatto parola; e, lasciandolo inconsapevole de' suoi propositi, era entrato nella sala di Nemrod, avviandosi con passo modesto, ma sicuro, in mezzo a quelle due ale di cortigiani, che si prolungavano, lasciando vuoto un grandissimo spazio, dai lati del trono all'ingresso.

Lungo era il cammino, sterminatamente più lungo tra quella doppia fila di sguardi, che egli ben sapeva tutti rivolti sul nuovo venuto. Ma Ara non sentiva turbamento di ciò; bensì gli cuoceva di aversi a por ginocchioni, come ogni altr'uomo, davanti alla signora di Babilonia, e veniva appunto maturando in cuor suo il proposito di ristringere l'ossequio ad un cortese inchino, che egli del resto avrebbe fatto di gran cuore alla donna. Foss'ella stata la sua divina amica! Come sarebbe caduto volontieri ai piedi di lei! Altra maestà sopra la sua non conosceva il re d'Armenia fuor quella.

Andando così verso il trono, avea intravveduto, come in barlume, uno stuolo di donne, e il cuore gli avea dato un sobbalzo. Ah, foss'ella nel numero! E ciò pensando, s'era fatto in volto del color della porpora. Intanto un mormorio di ammirazione, correndo sommessamente tra la folla, salutava l'apparire di quel leggiadro garzone, la cui bellezza accresceva decoro al grado, più assai che il grado non facesse risaltar la bellezza.

Giunto egli finalmente a' piedi dei trono, si fermò, e, recatasi la destra al petto, chinò il capo davanti alla regina, di cui non aveva pur contemplato il sembiante.

— Gran Semiramide, vivi in perpetuo! — egli disse.

— E tu pure, nobil sangue d'Aìco; — rispose una voce melodiosa dall'alto.

Tremò egli in udirla, e il sangue, acceso ai memori suoni, gli scorse con impeto al cuore. Alzò gli occhi a guardare e li abbassò prontamente, come abbacinato da una gran luce; indi gli parve di aver male veduto e risollevò le pupille, ma per chinarle da capo. Fu un batter d'occhio, fu un lampo; e in quel lampo si stemprò la fierezza del giovine, che cadde allora sulle ginocchia, contro i gradini del trono.

Semiramide gli era venuta incontro amorevole e lo aveva preso per mano. Egli, a stento rimettendosi in piedi, ma non riavutosi del colpo, la guardava inebriato e confuso.

— Regina.... — balbettò egli, nel rialzarsi da terra.

— Atossa! — gli susurrò la regina all'orecchio, con carezzevole accento.

E presa la benda di perle, che un donzello recava, insieme con lo scettro, sopra un ricco cuscino, la rimetteva con le sue mani sul biondo capo di Ara.

— Sorgi, re d'Armenia! — diss'ella con piglio maestoso. — Ecco il tuo scettro; impugnalo per la felicità del tuo popolo, come hai impugnata la spada, per terrore de' tuoi nemici. Figlio d'Aràmo, tu non sei tributario di Semiramide, ma alleato ed amico. —

Indi, volgendosi ai grandi della sua corte e alla moltitudine congregata, proseguì con voce sonora:

— Il re d'Armenia è l'ospite nostro. Amicizia eterna regni tra l'aquile della montagna e i leoni della pianura. —

Semiramide: Racconto babilonese

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