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CAPITOLO II. Militta Zarpanit.

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Tra Nivitti Bel ed Imgur Bel, nel tratto settentrionale di quella lunghissima zona di lieta verdura che corre tra i due baluardi, come diadema intorno alla fronte d'una regina, è il sacro bosco e il tempio di Militta Zarpanit, la gran madre, la provvida fecondatrice del germe, colei che esalta la potenza dei figli di Belo.

Folte macchie di lentischi e di mortelle, di cedri e di salici, fiancheggiano le vie tortuose e i sentieri dove luce non giunge. Tutto intorno cespugli di gelsomini e di rose, liberali de' sottili effluvî che inspirano l'amore, siccome all'amore dispongono i leni susurri dell'aura vespertina e i gemiti delle colombe, libere abitatrici del luogo, venerate messaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo sarmentoso si leva coi tralci, si avvinghia alle piante maggiori, spandendo ombra di molteplici foglie e fragranza di rosei grappoli sui misteriosi recessi. Da un lato la via maestra, o regale; dall'altro l'Eufrate; in mezzo alla selva, murato su d'un poggio, è il tempio della Dea, con la sua cupola gialla, lungi splendente dal colmo dei rami intrecciati.

Militta Zarpanit! Donde il tuo culto, che le tarde generazioni vedranno fiorente presso tutti i popoli antichi, all'alba della lor vita affannosa? Gli Dei, che simboleggiano la forza degli elementi, ma più assai la paura degli uomini, spariranno dagli altari; i possenti della terra, i fondatori di città e di regni, santificati dall'ossequio del volgo, saranno dimenticati o confusi; ma il culto della bella natura, il culto della gran madre feconda, il tuo culto, o Militta, non perirà. Belti, Militta, Zarpanit, Thaaut, Rea, Istar, comunque ti piaccia esser nomata dalle genti di Sennaar; Astarte a Tiro, Derceto in Ascalona, Afrodite fra gli Elleni, Venere tra gli ultimi Esperii dei mondo antico, i tuoi riti saranno uguali dovunque, comechè sformati dall'indole varia dei popoli, dalla naturale trasfigurazione del simbolo, dal riuscir del mito in leggenda. A te sacro dovunque il mirto, a te le colombe, a te non mai sacrifizio di vittime fumanti, ma offerte di odorate ghirlande e incruento olocausto di cuori.

In te si venera la diva natura, che rinacque sorridente e gloriosa dall'onde. Te, sorgente dalle spume, vide la memore sapienza ellena; preceduta dalla colomba, lieta apportatrice del ramoscello verdeggiante, ti celebrarono le prime istorie della figliuolanza di Sem. L'apparir tuo fu mostra di possanza, non doma dal flutto devastatore; il ramoscello dell'alato messaggiero recò il tuo primo saluto ai superstiti, ricondusse la speranza nei cuori. E rinata alla luce, investita dalle vampe maritali del fuoco interno, vigilata dall'insaziabile sguardo dei corpi celesti, amata amante di avventurosi mortali, fosti feconda di nuovi frutti alle genti; le quali ti riconobbero madre, dalle tue cento mammelle succhiarono la vita, e il tuo culto leggiadro recarono divotamente con sè, allorquando, rifatte dai primi terrori, si sparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del mondo.

Imperocchè (chi nol sa?) da mezzogiorno e da occidente vennero i primi apportatori di civiltà alla terra di Sennaar, a mano a mano che su per l'erta delle convalli mediterranee li sospinse la piena crescente dell'acque, dopo che cadde inabissata nei gorghi marini la prisca terra d'Atlante e il tremuoto spezzò le immani serraglie di Abila e di Calpe. E dal mare ebbe Babilu i suoi fondatori, i suoi demiurghi. Ilu, il suo primo Iddio, il suo primo terrore, è librato sulla distesa dell'acque, o posa sulla vetta dei monti, negro come la nube che lo circonda, pregno di nembi e di folgori. Dal suo grembo squarciato escono le tre forze arcane, quasi le tre forme della sua medesima essenza: Anu, il caos primordiale, Bel, la potenza ordinatrice, Hoa, lo spirito intelligente dell'universo. L'ultimo tra questi è il dio più sensibile, il più noto, il più dimestico ai volgari intelletti; egli è il pesce dio, che reca i primi comandamenti all'umano consorzio. Daokina è la sua forma femminea, venuta anch'essa dal mare, emersa dai flutti dell'Eritreo. Lasciate che il mito si svolga; egli assumerà nuove parvenze, altri significati, altri nomi.

Difatti, agli Dei cosmogonici succedono a breve andare gli Dei siderali. Abbia la divinità un aspetto visibile; se il cielo è sua dimora, il cielo donde si sprigionano i nembi, il cielo donde ci piove la luce, vediamola nello spazio azzurro, vediamola in quelle grandi pupille di fiamma che assidue dardeggiano il mondo. Così i prischi ed oscuri elementi si rinnovano, ricompaiono in luce di stelle, ed alla vecchia triade cosmica, ecco tener dietro la triade celeste, Sin, Samas, Iva, anch'essi rinfiancati di lor forme femminine. Sin, l'astro della notte, risponde al dio delle tenebre, al caos; Samas, l'astro del giorno, risponde alla potenza ordinatrice del creato; Iva, lo spirito dell'etere, l'atmosfera trasparente, risponde allo spirito penetratore dell'universo, al pesce dio venuto dai gorghi del mare.

E adorati questi fulgentissimi numi, perchè non si adoreranno gli astri minori? Ecco, la triade si scempia ancora in tutti quei luminosi pianeti che scintillano la notte nel firmamento azzurro. I nuovi regnatori delle are son questi: Ninip, o Adar, il lontano astro che si circonda d'un candido anello, e i cui satelliti, nascondendosi tratto tratto dietro al suo disco, lo faranno apparire divorator de' suoi figli; Merodach, il più appariscente, il più splendido, epperò dal popolo babilonese chiamato figlio di Bel, e adorato più tardi siccome il vero monarca de' cieli; Nergal, il corrusco di luce rossiccia, fatto signore dell'armi; Nebo, il sapiente, protettore della eloquenza e della autorità regale, non ancora sformato dalle volgari leggende, che tra gli Elleni lo diranno rapitore di mandrie; Istar, finalmente, la stella dei soavi splendori, che la venerazione delle genti confonderà coll'antica Beltis o Bilit, forma femminea di Bel, e con Daokina, la compagna di Hoa. Astro in cielo, anima della natura in terra, diviene la consolatrice dei cuori, la increata bellezza, la fonte dell'amore; celeste, è Taauth; terrestre, è Zarpanit. Eccola adunque, sempre una in tutte le sue svariate sembianze, nata dalle onde, splendente nei cieli, vivente nel creato, cara ai mortali, madre, signora ed amante.

A lei sacro tutto ciò che risplende per grazia e leggiadria; a lei sacra la lieta fecondità; a lei sacro l'amore che ingentilisce i costumi. A lei dedicate le prime pietre che il volgo agreste ammirerà, sporgenti, solitarie, scalzate dalle acque, lunghesso il dorso dei monti; a lei i primi simulacri che il fantastico genio dell'India ornerà di cento mammelle, a significarne la materna abbondanza, laddove il genio più corretto degli Elleni la ritrarrà nelle sembianze della donna amata, e vedrà il sommo della sua divina beltà nel complesso di tutte le bellezze di Grecia. A lei consacrate le isole e i boschi odorosi, dove gemono le colombe e sguardo profano non penetra i dolci segreti. Ogni umana cosa si corrompe pur troppo, e la casta adorazione cederà il luogo a mostruosi misteri; dei quali, al postutto, è agevole il sentenziare, col sangue e il giudizio assottigliati da migliaia d'anni trascorsi.

E Militta Zarpanit chiamava ai suoi amabili riti la gente di Sennaar. Era essa la divinità più grata al popolo babilonese. Belo, insieme con le sette sfere lucenti, aveva la sua torre dai sette piani e dai sette colori nel borgo sacerdotale di Barsìpa. La triade antica delle fondamenta della terra aveva la piramide di tre piani, innalzata in quella parte occidentale della città che è più vicina all'Eufrate. Ilu, il temuto iddio delle acque, avea la città tutta quanta e la soggetta pianura; Nisroc, o Salman, núme dalle ali e dal rostro aquilino, Assur, il protettore, nella cui faccia umana e nelle membra di toro alato raffiguravasi la forza e l'intelligenza divina, custodivano, paurosi simulacri, le cento porte di Babilu Militta, più soave e più cara, aveva sulla riva destra del gran fiume il suo tempio, i penetrali, la selva e i riti notturni. Non risplendeva essa, amica stella nei cieli, la prima ad apparire dietro al sole cadente, l'ultima a dileguarsi ai primi chiarori dell'alba?

Il suo bell'astro scintillava nell'azzurro sereno, accanto alla colma luna, rallegrando il creato di miti splendori, allorquando il giovine Ara, vestito delle nuove fogge babilonesi, si inoltrò, in compagnia del suo Bared, sotto i platani che faceano confine alla selva. Quel lieto viavai di gente sconosciuta, que' volti sfavillanti di gioia, quelle donne a mezzo velate che si appoggiavano fidenti al braccio degli amati, quel luccichìo di fiaccole, quell'effluvio di fragranze, quell'onda di musicali concenti tra i rami, rapivano il suo cuore, facendolo immemore d'ogni cosa, susurrandogli arcane parole, che avevano un'eco nel profondo dell'anima. Giovinezza beata! come le arride il futuro! e come i suoi dolci incantesimi possono far tacere in lei le mestizie d'un passato, che ancora non ha avuto agio di mutarsi in assenzio! A lui l'ignoto, con le sue lusinghe, le promesse, le speranze dolcissime, sorrideva sotto quei rami in quella moltitudine appariscente e festosa, immagine del mondo in cui egli era entrato per la porta d'avorio. Ed ammirato, estatico, fuori di sè, saliva lentamente, rasentando le belle coppie innamorate, pei meandri del bosco.

Com'egli fu giunto al sommo del poggio (chè tale era la forma del sacro recinto), gli si parò davanti agli occhi la maestosa mole del tempio, torreggiante su d'una piattaforma che gli facea terrazzo in giro, e a cui si saliva dai quattro lati, la mercè di ampie gradinate. Le mura di sostegno si vedeano fregiate di bassorilievi e dipinti, in onore della Dea, e di iscrizioni, scolpite nei venerati caratteri della stirpe degli Accad, somiglianti a chiovi impressi per lungo ed in mille guise intrecciati. A' piedi delle gradinate vegliavano leoni di granito; certamente posti colà, sotto gli occhi della Dea, come emblemi della forza, cui la bellezza soggioga. E il tempio difatti innalzavasi poco più in alto, cinto da doppio giro di colonne, coronato di capricciosi fregi e di eleganti merlature, sormontato da una svelta cupola, rilucente nello spazio azzurro ai raggi della luna.

Il suono dell'arpe e dei cantici era da pochi istanti cessato innanzi all'ara della gran madre Militta, e già la moltitudine devota scendeva a torme dal limitare, spandendosi lungo i terrazzi e per le scalinate, a guisa di fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano della gran porta appariva vestito dell'aurea luce, ond'era sfolgoreggiante l'interno, e di là venian profumi d'incenso, di gálbano, di cinnamomo e di mirra.

Dopo essere rimasto un tratto immobile a contemplare da lunge quella scena incantevole, il re d'Armenia si avviò verso la gradinata, in mezzo alla moltitudine, che scendeva dal tempio, o saliva.

I raggi della luna rischiarando il suo volto e la leggiadra persona, si fece a breve andare dintorno a lui quella ressa curiosa, quel bisbiglio, quell'avvicendarsi di domande e di ammirazioni, che furono mai sempre, e saranno, il più naturale omaggio reso alla bellezza dal volgo dei riguardanti. Ora, presso i babilonesi, come presso tutti i popoli antichi, più schietti adoratori della forma, quell'omaggio era più facile a rendersi, nè solamente riservato alla donna, come accade tra noi, non so se più austeri, o più invidi.

Turbato un tal poco da quegli atti curiosi e da quelle voci di meraviglia, il giovine affrettò il passo fin sopra la spianata; s'inoltrò sotto il pronao del tempio, che era sorretto da enormi tronchi di palma foggiati a colonne, ed oltrepassò il sacro limitare, fiancheggiato dai simbolici leoni di pietra.

Colà, un più meraviglioso spettacolo si parò davanti agli occhi del giovine. Sulle prime, tra per la luce riflessa dalle lamine d'oro e d'argento, che correano alternate sull'alto delle pareti, e per la nube d'incenso che si diffondeva nell'ampio recinto, parve a lui d'essere, anzi che tra' mortali, nella regione dei sogni, in cui si pregustano le delizie celesti. Ma, a poco a poco, avvezzando lo sguardo a quella vaporosa veduta, egli potè discernere partitamente ogni cosa.

La cella sacra, dov'egli avea posto piede, era un'ampia sala quadrilunga; conterminata da un'abside, su cui si levava la cupola, già veduta di fuori. Le mura tutto intorno apparivano ornate di stucchi, con iscrizioni e bassorilievi colorati, fino all'altezza degli stipiti di un gran numero di porte, le quali mettevano alle camere dei sacerdoti. Ai lati di queste grandeggiavano leoni e tori alati, dal volto umano, o dalla testa d'aquila, che parevano vegliare riverenti, a custodia delle mezze figure chiuse nel circolo eterno, con lunghe ali distese, emblemi della divinità suprema, i quali si vedeano scolpiti più in alto. E dove finivano le sculture e i dipinti, incominciavano i fregi di lamine d'oro, intelaiati a guisa d'arazzi nel vano di un finto colonnato d'argento, che saliva a sostenere un sopraccielo di legno prezioso, partito a cassettoni, con entro rosoni ed altre fogge di fantastici fiori, messi ad argento ed oro, siccome le colonne già dette. Nell'abside, sotto la cupola, sorgeva l'altare di Militta, masso di diaspro riquadrato e lucente, su cui s'innalzava il bianco simulacro della Dea, che poggia il piede sul domato leone, e reca tra mani il fiore della vita. Ai quattro angoli dell'altare, fumavano, entro bracieri sostenuti da tripodi di bronzo, i quattro aromi più grati agli abitatori del cielo; e d'ogni parte pendevano, in lungo ordine disposte, le lampade d'argento, donde i lucignoli di bisso attingevano l'olio fragrante, per dar luce e profumi all'intorno.

E per mezzo a quella nube d'incenso che si diffondeva dall'abside, il principe vide uno stuolo di sacerdoti, i quali posavano dalle cerimonie e dai cantici, seduti su sgabelli d'ebano, il cui nero lucente faceva vieppiù risaltare la candidezza delle lunghe stole (il bianco era il color sacro a Militta) e degli ampii mantelli in cui ravvolgevano la persona. Il gran sacerdote si discerneva, tra gli altri, per la tunica sfoggiatamente trapunta e frangiata d'oro sui lembi, per l'aurea cintura tempestata di gemme e per l'aurea mitria foggiata a testa di pesce, la cui infula scendeva ad accappatoio sulle spalle, simulando le squamme dell'animale e la coda a due punte. Militta, non lo si dimentichi, era altresì Daokina, e la mitria del pesce dio, portata dai sacerdoti di Babilu, doveva coprire il capo ai ministri di ben altre divinità, posteriori nel tempo.

Una mensa di lucido argento, sorretta da figure simboliche, era collocata davanti all'altare e sovr'essa splendevano le liberali offerte dei più ricchi adoratori. Capaci coppe di bronzo si scorgeano dai lati, nelle quali ogni donna che uscisse dal tempio gittava la sua moneta, d'argento, o di rame. E tratto tratto si vedeva alcuna di esse, muoversi dal fondo, inoltrarsi fino all'altare, e deporre il suo tributo, levar le mani in atto di adorazione ed uscire.

Ciò ricondusse più indietro gli sguardi del giovine. Il sacro recinto non era anche spopolato del tutto; imperocchè, sedute in lungo ordine su panche di legno, attorniate da curiosi che le veniano squadrando degli occhi, stavano molte donne in attesa, con funicelle ravvolte intorno al capo, e, ognuna di esse giusta la sua condizione, nobilmente vestite ed adorne. Quella era per fermo la celebrazione d'un rito; nè il re d'Armenia lo ignorava, essendo allora i misteri di Militta Zarpanit famosi per tutte le circonvicine regioni.

Così voleva il costume, che ogni donna babilonese dovesse, una volta in sua vita, rimanersi nel tempio aspettando, fino a tanto non avesse pagato il suo tributo alla Dea. Ciò ch'ella riceveva dall'ignoto, il quale accostavasi a lei, rivolgendole la frase «invoco per te la dea Militta,» dovevasi gittare in offerta nella coppa di bronzo. Nè ella, poichè s'era così seduta in attesa, con la funicella intorno alle tempie, potea più respinger l'omaggio dello straniero, chiunque egli fosse. Mostruoso rito; ma non è in balìa del narratore il mutarlo. Forse era naturale corrompimento d'un alto concetto; forse reliquia di più rozzi costumi, non potuta cancellare del tutto, epperò saviamente dissimulata dalla santità della cerimonia; fors'anco, nell'uso, era temperato da acconci convegni, da gentili artifizi, che la storia non ha tramandati alle tarde generazioni, e che il senno di questo può argomentar verosimili. Ma di ciò pensi ognuno a sua posta.

Ben ci raccontano gli antichi, ed è anche agevole il credere, che le più nobili e ricche sdegnassero di mescolarsi cosiffattamente alla comune delle donne babilonesi, nella celebrazione dei sacri misteri. Elleno per fermo non si ristavano dallo accorrere al tempio; ma in lettighe coperte e accompagnate da uno stuolo di servi, che recavano i loro donativi e le debite offerte all'altare.

Una di queste felici era appunto allora nel tempio, prostrata dinanzi ai gradini dell'abside, su d'un morbido cuscino che sotto i ginocchi le avea posto un'ancella, mentre un'altra deponeva sulla mensa il presente della signora, aromi e polvere d'oro in vasi d'alabastro.

Quella donna, veduta appena, trattenne lo sguardo del giovine. O fosse la singolar leggiadria delle forme, non potuta nascondere dalle pieghe del velo che tutta le involgea la persona, o il suo rimanersi in disparte e la compagnia delle ancelle, che la dicevano donna di ragguardevole stato, od altra più riposta cagione (che molte ve n'ha, sottili, inavvertite ed arcane, per disporre in varie guise la trama degli eventi), fatto sta che quella donna velata, lontana, ignara di lui, gli occupò la mente, lo disviò da tutta quella moltitudine di aperte e sorridenti bellezze, che in lui figgevano i grandi occhi neri, pieni di schietta ammirazione a di dolci lusinghe.

Tanto può l'ignoto sull'animo nostro! Così tenui sono le fila in cui ci avvolge il destino!

Ella era inginocchiata dinanzi all'altare, in atto di preghiera, mentre alcuni adolescenti ministri del tempio venìan raccogliendo di mano alle ancelle i preziosi donativi della sconosciuta supplichevole.

— Militta ti vede e ti ascolta! — le avea detto il gran sacerdote; — ti conceda ella ciò che le tue preghiere dimandano. —

Ara non poteva distogliere lo sguardo da lei. E più la rimirava, e più si riempiva il suo cuore di dolcezza ineffabile; come se da quelle forme mal note emanasse un tiepido effluvio che, tutto investendolo, gli s'infiltrasse per ogni meato nel sangue. E una speranza, un desiderio, uno struggimento gli cresceva grado grado nell'anima, di vederla in volto, d'essere veduto, di non essere un ignoto per lei.

Donde nascono essi, questi moti repentini del cuore, soventi volte datori d'un nuovo indirizzo alla nostra esistenza, che ci fanno di punto in bianco, quasi per virtù d'incantesimo, consapevoli di noi, cosicchè ci sembri, o di vivere per la prima volta, o di non aver vissuto mai di vera vita da prima? Bagliori improvvisi nelle tenebre dell'intelletto, voci arcane all'orecchio, tumulti nel cuore, inni prorompenti dai penetrali dell'anima, donde traggono essi l'origine? Dal nulla, chi guardi all'apparenza, come dal nulla hanno vita i fantasmi dei sogno; ma il savio, che scruta i segreti della natura e argomenta le cause non viste, si raccoglie umilmente nella sua pochezza, e ciò che ancora è sfuggito al suo spirito indagatore, non deride egli, per fermo, e non nega.

Così ammaliato, ignaro di sè, il giovane s'era fatto più innanzi e più presso alla sconosciuta, quasi volesse inebbriarsi dell'arcano effluvio ond'era soggiogato, o raffigurarsi, comechè imperfettamente, il profilo di quella testa, sotto le pieghe del velo che l'ascondeva, o cogliere a volo, respirare un alito di quelle preghiere che ella rivolgeva all'altare.

— Che chiede ella a Militta? Forse il suo cuore arde, si strugge d'un amore disperato, e prega la Dea che versi sovr'esso i balsami dell'oblio? O le voci dell'affetto non hanno ancora parlato all'animo suo, e implora il conforto, fors'anche lo strazio, d'un amor vero e profondo? Ed io ti chiedo, o Militta, che quella donna mi ami. —

Fu un impeto subitaneo, irresistibile, e decisivo del pari. Ascese incontanente il primo gradino del santuario e recò la mano alla sua cintura tutta adorna di gemme. L'aveva egli portata seco d'Armenia, e per vezzo giovanile, rigirata al fianco, sulla tunica babilonese pur dianzi indossata. Un grosso e trasparente smeraldo ne fregiava il nodo, ed egli fu pronto a strapparnelo.

— È questa la mia offerta, — diss'egli avvicinandosi alla mensa, per deporvi la gemma, — se Militta non isdegna il presente d'uno straniero.

— Bellezza e gioventù spirano dal tuo volto, come una dolce fragranza, — gli rispose il gran sacerdote, accompagnando le parole con un paterno sorriso. — Il tuo aspetto è d'uom caro a Nebo, ai veggente Iddio, che dà lo scettro ai reggitori di popoli. Qual cosa dimandi tu, che Nisroc, il signor delle sorti, non t'abbia concesso il dì che nascevi? Pure, è bello il non fidarsi nei doni della natura, e tutto in quella vece aspettar dagli Dei. Essi non deludono la speranza di chi li invoca con animo riverente. E Militta, invocata, conceda a te, o giovine straniero, il compimento de' tuoi voti, conservi a te il regno de' cuori.

— D'un solo, e sarò il più avventuroso tra gli uomini! — esclamò il re d'Armenia nel ritirarsi dal santuario.

Agli atti improvvisi, alle parole del giovine, la donna velata avea rivolto il capo da quella banda; di certo essa lo aveva veduto per mezzo alla trama sottile del bisso che le copriva il sembiante. A lui parve che più d'una volta, e lungamente, gli occhi della sconosciuta si fossero soffermati a guardarlo; invero, ei non li aveva veduti, ma sentiti, e il benefico raggio gli era penetrato al cuore, che aveva dato un sobbalzo.

Bared, in quel mentre, gli si era accostato da tergo.

— Va; — disse egli concitato al suo fedele servitore; — va a riposarti, mio povero Bared!

— E tu, mio signore?

— Io? Non dormirò più questa notte.... nè poi; la mia pace è perduta. —

Bared, senz'altro aggiungere, si allontanò. E il re d'Armenia, tiratosi alquanto in disparte, per non dar più oltre nell'occhio ai curiosi, stette immobile, estatico, a contemplare la donna velata.

Poco stante, ella si alzò, e, seguita dalle ancelle, si mosse per uscire dai tempio.

Al giovine parve allora di veder cosa non mortale, una dea, la stessa Militta Zarpanit, discesa dal suo altare di diaspro, per farglisi incontro; tanta era la maestà del portamento, tanta la leggiadria delle forme. Ed egli credette di non potersi reggere in piedi, e istintivamente si appoggiò ad uno di quei colossali leoni di pietra, che sporgevano dalla parete, allorquando la vide avvicinarsi, e argomentò che gli occhi della nobil donna fossero volti su lui.

Ma si riebbe ad un tratto, volle esser forte, per cogliere al varco la fuggente occasione. Infine, che dirà ella, se parlo? E che penserà ella, se taccio?

Commosso, palpitante, combattuto da desiderio e da tema, fu per accostarsi a lei; e fatto il primo passo, si rattenne ancora. Ella si accorse dell'atto, in quella che stava per passargli dinanzi, e balenò irresoluta a sua volta.

Non era più da rimanersi perplesso. Ara si mosse verso di lei e con accento soave le disse:

— Perdonami!

— Che cosa? — dimandò ella, arrestandosi.

Il principe non rispose parola, tanto era turbato. Nè forse ella pose mente a cotesto, o se vi pose mente, non le parve irriverenza. Il rossore del giovine non era egli la più eloquente risposta e la più schietta confessione dell'animo suo?

Ella stessa, o compassionevole, o grata, ruppe l'uggioso silenzio.

— Tu se' straniero? — gli chiese.

— Sì, sono, — rispose il giovine, pigliando animo dalle cortesi parole e più ancora del soavissimo accento; — e se non t'incresce.... se nulla ti chiama così presto lontano da me.... amerei dirti, o signora, una preghiera insensata, che io feci poc'anzi alla Dea.

— Ti ascolto; — disse a lui di rimando l'incognita.

— Di vederti, — proseguì Ara sommesso, — di poter dirti che t'amo, di essere amato da te. —

Ella rimase un tratto in silenzio, forse turbata dalle inattese parole. Il giovane, temendo di averle recato offesa, già era per chieder venia del soverchio ardimento, quand'ella si fece, senz'ombra di sdegno, a domandargli:

— Mi conosci tu forse?

— No; e tu ben lo vedi, — rispose Ara, con voce carezzevole, — questa è follia. Ma son io forse più signore di me? La Dea mi ha condotto a forza quassù, perchè io smarrissi la pace dell'anima. E là, presso l'altare, ho detto a me stesso che tu eri la più leggiadra donna di Babilu. Per Militta, che tu invocavi poc'anzi, io ti chiedo in cortesia di sollevare un lembo di quel tuo velo geloso. —

Semiramide: Racconto babilonese

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