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CAPITOLO III. La rosa di Sennaar.

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Le dolci parole, e più l'accento d'onesta preghiera, toccarono il cuore della donna velata.

— E se tu ti fossi ingannato? — diss'ella, dopo esser rimasta alcuni istanti raccolta in sè medesima, quasi volesse aspirare gl'incensi di quel lusinghiero discorso. — Se a me non arridessero i pregi che fanno cara la donna al tuo sesso?

— Oh, gli è impossibile! — sclamò il re d'Armenia, stringendosi al suo fianco, mentr'ella lentamente, ma senz'aria di voler dargli commiato, volgeva il passo al limitare del tempio. — Me lo ha detto il cuore, che non inganna mai. Nè basta; la tua presenza, ciò ch'io vedo e sento di te, non ti palesano forse? Tu ben lo sai, mia dolce signora; leggiadri son sempre i fiori odorosi, e il gelsomino, celato nel verde cupo del bosco, non tramanda più soavi fragranze di quelle che spirano dal tuo velo, o bellissimo tra i fiori di Babilu.

— Nebo t'ha ornata la mente di grate fantasie, — soggiunse l'incognita, — e il miele della poesia scorre dalle tue labbra. Così tu dicessi il vero, come parli cortese!

— Or dunque, — ripigliò Ara umilmente; — non darai tu l'aspettato guiderdone al poeta?

— Non qui; la luce del tempio non dee rischiararmi la tua confusione. Son donna, — aggiunse ella con un fil d'ironia, — e il vero mi potrebbe apparir troppo grave dal tuo aspetto mutato. Non dirmi nulla; so già la risposta. —

Così la sconosciuta, per troncar le parole al giovine, che già stava per richiamarsi a lei dell'ingiusto sospetto. Indi, come parlando a sè stessa, mormorò, per modo che egli potesse udirla:

— Infine, mi veda egli; è la Dea che lo vuole. —

E dato un cenno alle ancelle, che tosto riverenti si allontanarono, uscì con passo rapido e lieve sulla gradinata, quasi sfiorando il suolo, mentre Ara le venìa tutto sollecito al fianco.

Discesi sulla spianata, e usciti fuor della calca, ma non così prontamente come il re d'Armenia avrebbe voluto, piegarono a destra, dove per tortuosi sentieri si scendeva all'Eufrate. Egli ebbro di gioia; ella taciturna, lievemente reggendosi sul braccio che il principe le aveva profferto, e tratto tratto volgendosi a guardarlo in viso, per mezzo alla trama sottile del velo che ancora la diniegava agli occhi innamorati del giovine.

— Ah! — sclamò ella, premendogli il braccio, al primo svoltar della strada, che le consentiva di dare una fuggevole occhiata dietro di sè.

— Che è ciò, mia divina? — le chiese Ara turbato.

— Alcuno ci segue.

— Chi lo ardirebbe, dov'io sono? —

E così dicendo, il re d'Armenia si volse e si piantò fieramente in mezzo al sentiero.

Un uomo, ravvolto nel suo mantello, scendeva per quella medesima via. Ma egli non parve darsi pensiero dell'atto, e, giunto all'incontro d'una viottola poco lunge da essi, vi s'inoltrò con passo sicuro, come chi non avesse a fare altro cammino fuor quello.

— Tu lo vedi; egli non teneva dietro a noi; — disse il principe alla sua compagna, ripigliando la via verso il fiume.

Indi a poco, giungevano in vista dell'Eufrate, ampia zona d'argento, scintillante sotto i loro occhi, ai raggi del grand'astro notturno. Una barca era legata alla riva e due donne, in cui Ara fu pronto a raffigurare le ancelle della sua sconosciuta, andavano a quella volta.

— Tu dunque mi lasci? — gridò egli sgomentito; — ed io non avrò ottenuta la grazia tua!

— Perchè dubiti? — chiese ella, arrestandosi.

E mandando gli atti compagni alle parole, sollevò il velo importuno, lo arrovesciò sulla testa, lasciando così il viso scoperto al chiaror della luna.

Il re d'Armenia mise un grido d'ammirazione. Giammai egli aveva veduto cosa più bella.

Aperto e sereno il volto, delicatissimi e in un severi apparivano i lineamenti, a cui cresceva incantesimo il morbido tondeggiar delle carni, splendenti dell'aureo colore di frutto maturo. Ampia la fronte e nitida come l'avorio, incoronata di chiome nere, ondate e lucenti, tra le cui copiose anella si nascondevano i capi d'una trecciera di perle, che ne faceano vieppiù risaltare la lucentezza corvina. Neri gli occhi del pari, sfavillanti a guisa di granati siriani, profondi come il mare, e com'esso trasparenti, facili ad esprimere le interne commozioni, o languidamente si celassero a mezzo, sotto il velo delle lunghe ciglia, o aperti scintillassero d'amore, o raccolti lampeggiassero di corruccio. Tra due grandi e sottili archi d'ebano si veniva leggiadramente incurvando la radice del naso, snello e ben profilato infino alle nari, rosee ne' delicati contorni, come il grembo delle conchiglie eritree. Le labbra di corallo acceso, tumidette e madide di voluttà, pareano invitare ai baci, siccome le dischiuse corolle dei fiori, imperlate di notturna rugiada, cercano desiose i primi raggi del sole; ma il taglio austero di quelle labbra dinotava un'alterezza acconcia a temperar gli ardori del sangue, a dissimulare, se non a padroneggiare, la impetuosità degli affetti. Il superiore, un tal po' rilevato, così che breve spazio intercedesse dalla bocca alle nari, giusta il tipo della gente semitica, lasciava scorgere, ad ogni moto di quella vaghissima bocca, due file di candidi denti, che faceano più grato il sorriso; il sorriso, che è il suggello della bellezza, come lo sguardo è il raggio dell'anima. Tre cose belle al mondo: il sorriso sul volto d'una donna; il sole nel cielo; l'amor nella vita.

Nè era manco leggiadra la persona, che già di per sè sola avea potuto cotanto sull'animo del re d'Armenia. Invano il candido pallio di bisso le si ravvolgeva dintorno, sopra la lunga stola violacea, frangiata di argento. Da que' veli trasparivano le elette forme d'una Dea, che solo tra' Greci aveva a rinvenire uno scalpello degno d'effigiarla nel marmo; e que' veli, lasciando indovinare i maestosi contorni di quella sfolgorata bellezza, le conferivano quel non so che d'arcano, donde lo spirito nostro attinge le sue voluttà più profonde. Il collo, che si mostrava ignudo, dintornato da una filza d'amuleti, le braccia del pari scoverte, intorno a cui si allacciavano i simbolici serpenti, disviatori dello influsso maligno, erano miracoli di grazia, che avrebbero ingelosito Militta ne' cieli, e trattenuto sulla terra, immemore dei gaudii superni, uno spirito immortale.

Così splendida di vezzi, cinta del suo candido pallio, di cui la lieve brezza notturna agitava mollemente le pieghe e i lembi disciolti, lumeggiata da quel mite chiaror di luna, che la faceva parere quasi uno vaporosa visione del sogno, eretta della persona, atteggiata ad un placido riso che diceva tutto l'intimo compiacimento della conscia bellezza, ella si stava immobile al cospetto di Ara.

Commosso da quella vista, che di tanto superava la sua medesima aspettazione, il re d'Armenia rimase alcuni istanti muto, estatico, a contemplarla. E bevve in quegli istanti per gli occhi, fino all'ultima goccia, l'amoroso veleno, che aveva a conquiderlo, a farlo altro uomo da quello di prima.

Si sentì perduto, allora, tratto fuori di sè, in balìa di quella donna, per lei forse felice come un dio, o disperato come l'ultimo dei viventi; nè gli dolse di ciò. L'amore è un abisso, di cui non si misura la profondità, se non quando s'è affacciati in sull'orlo periglioso. L'ignoto tira a sè; voci lusinghiere chiamano dal profondo, e in così alto mare è dolce il naufragio.

— Lascia che io t'adori! — le disse, cadendo a' suoi piedi.

Ella gli sporse con grazioso atto la mano, per rialzarlo da quella umil postura.

— No! — soggiunse egli. — Adorarti! adorarti! Concedimi di rimanere a' tuoi piedi, siccome al cospetto d'un nume. Non sei tu stessa una dea? Militta ha assunte le tue forme, io lo vedo, io lo sento, per farmi il più lieto, o il più triste degli uomini. —

Arcana virtù delle parole che sgorgano dal cuore! Colpita da quell'accento di preghiera, soggiogata da quell'aura misteriosa che sempre accompagna un amor vero e profondo, ella si lasciò cadere, senza far motto, su d'un sedile di sasso, nè ritrasse altrimenti la morbida mano, che egli avea stretta fra le sue, in quell'impeto di amorosa follia.

Ella seduta, in atteggiamento pensoso, turbata nell'intimo del cuore da un misto di nuove sensazioni; egli inginocchiato a' suoi piedi, palpitante, cogli occhi fisi ne' suoi; rimasero a lungo muti. Ma quante cose non disse quel loro silenzio!

Gli astri del firmamento piovevano una tacita luce su quelle fronti leggiadre; la brezza notturna recava loro le inebrianti fragranze del bosco, insieme col dolce mormorio dell'Eufrate vicino; da un'agil barca, che venìa rasentando la sponda, giungevano al loro orecchio i grati accordi d'un'arpa e i suoni indistinti d'una cantilena, lenta e malinconica come tutte le melodie della vecchia stirpe cussita. Il cielo, la terra e l'onda, tutto era, intorno ad essi, un soave inno d'amore.

Ad ambedue grato il silenzio; e la novità del caso loro lo facea necessario del pari. L'uno all'altro stranieri fino a quel giorno e a quell'ora, senza pure avvedersene, o presentirlo, senza esservi tratti da quella ordinata progressione di piccoli eventi che dissimula spesso, o fa parer meno singolare la prepotenza del destino, s'erano essi incontrati a mala pena, e già sostavano l'uno a fianco dell'altro. Occorreva loro anzitutto riaversi da quel subitaneo tumulto, misurare la via in così breve spazio di tempo percorsa, raccapezzarsi infine, leggersi scambievolmente nell'anima.

L'amore è cosa di tutti i tempi, naturale portato di tutti i cuori; cionondimeno, chi ben guardi, è sempre maraviglioso il suo nascere, siccome è miracolo la cosa più comune del mondo, il nascere del fiore sul ramo, il suo svolgersi rapidamente in tenere foglioline, il colorarsi dei petali, il vaporare ai primi raggi dei sole in soavi fragranze. Così il maraviglioso fior dell'amore era nato ad un tempo in quei due cuori, improvviso, spontaneo, alla prima veduta; ed essi, respirandone i primi effluvii, a vicenda confusi e rapiti, dimenticarono l'universo in quell'ora.

Il re d'Armenia (meglio sarebbe il dire lo schiavo di quella ignota bellezza) fu il primo a rompere l'amoroso silenzio.

— Parlami, te ne prego! — esclamò; — fammi udire il dolcissimo suono della tua voce.

— Che dirti! — chiese la sconosciuta. — So io forse ciò che tu pensi ora di me?

— Ah sì! — ripigliò Ara sollecito. — Perdonami! Io mi stavo qui muto, ad assaporar la dolcezza della tua vista, non d'altro curante che della mia felicità senza pari. Ma potrei io operare diverso? Che dire, quando si contempla e si adora? Ho io mai provato ciò che oggi provo? Ho io mai veduto figlia di donna, la cui beltà reggesse al paragone della tua? Mai, lo giuro pei sacri platani di Van, donde a noi si rivela il consiglio dei Numi, mai ho sentito così fiero, e in un così dolce tormento; nè tra' miei monti natali, o nella istessa Armavir, famosa per le sue donne leggiadre, ve n'ha una che ti somigli da lunge.

— Sei tu d'Armenia? — chiese ella con piglio curioso. — E il tuo nome....

— Ara; — rispose brevemente il giovane; — e il tuo, mia divina? Non mi sarà egli dato di udirlo, soave al certo come il suono della tua voce? —

Ma la sconosciuta non pose mente alla dimanda, o non la udì; tutta la sua attenzione essendo rivolta a quel nome.

— Ara! hai detto? Ara, figlio d'Aràmo? Esso è nome di re; — soggiunse ella, veduto il cenno affermativo di lui.

— Son io quel desso; — rispose egli umilmente; — re del popolo aicàno, e tuo schiavo. Ma dimmi, o bellissima; come ti è egli noto l'oscuro nome del figlio d'Aràmo?

— E a chi, lungo le rive dell'Eufrate e del Tigri, non è noto il nome del giovine re d'Armenia, del vincitore di Masciag, dov'egli ottenne ad un punto la palma della vittoria e la benda di perle? Non è ella forse una benda di perle che voi cingete in capo, o figli di Aìco, quasi a testimonianza del vostro corso vittorioso dalle cime dell'Ararat fino ai lidi eritrei?

— Tempi di gloria! — esclamò il principe, con malinconico accento. — Ora i leoni di Cus regnano sulla vasta pianura; le aquile aicàne si raccolsero crucciose sui greppi.

— Donde volarono spesso a settentrione, per piombare sui mobili campi dei predatori Turani, o ad occidente, per annientare la potenza dei figli di Canaan. —

Così parlava la sconosciuta, e le sue parole eran balsamo al cuore del pronipote d'Aìco.

— Grande è Babilonia, — proseguì ella nobilmente, — e non invidia la gloria ai suoi amici della montagna. Aìco e Nemrod si guerreggiarono aspramente; ma vivono in pace ed amistà i loro discendenti. E tu, glorioso tra tutti i forti della tua stirpe, da quando giungesti alle nostre mura ospitali? Ancora non hai veduta la regina? —

La fronte del giovine si rannuvolò a quelle parole.

— Son giunto poc'anzi, — rispose, — e la mia gente è qui presso, negli alloggiamenti a noi assegnati dalla possente regina. Soltanto domani oltrepasserò il baluardo di Nivitti Bel, con la pompa che s'addice ad un re... ad un re tributario! — aggiunse egli, mal reprimendo un sospiro. — Tu sei cortese, o mia divina; ma che giova il nasconderlo? la gloria dei figli d'Aìco s'è grandemente offuscata, ed io, l'ultimo tra essi, reco a Babilonia il tributo dell'amicizia, come il minore al maggiore. Felice, invero, dacchè ti ho veduta e t'amo; più felice, se mi saprò riamato da te; ma domani, pur troppo, io vedrò Semiramide!

— Pur troppo! e perchè?

— Perchè.... deggio dirtelo? Infine, sì; non sei tu la signora del cuor mio, e non debbo io aprirtelo intiero? Perchè il mio pensiero rifugge da costei; perchè, al solo profferire il suo nome, sento nell'anima come un misto di terrore e di odio.

— Tu la conosci già?

— Non lei, la sua fama. Ella è possente, ma crudele; grande il regno, ma feroci gli amori. —

Si riscosse a quelle parole la sconosciuta, e un lampo di sdegno le balenò dagli occhi, promettitore di più fiera risposta. Senonchè, nell'atto di guardare il compagno, così bello, così candido nel sembiante, le venne meno il proposto; l'ira si spense e il pietoso affetto prevalse. E allora, non senza un tal po' d'amarezza, ella prese in tal guisa a rispondergli:

— La fama? E tu credi a questa vile menzogna? Anzitutto, sai tu donde nasca? Non già dalla lode, così scarsa pei vivi e restìa; bensì dalla invidia, dal maltalento, a cui giova il perfidiare, e dalla stoltezza, cui torna agevole il credere. Semiramide ha i suoi nemici e non li cura; ma per fermo le dorrà di vederti fra costoro. In che t'ha ella offeso, perchè tu creda così ciecamente il peggio di lei?

— Tu l'ami, lo vedo; — le disse il re d'Armenia, con malinconico accento; — ma io pure ho amato, e l'amico del mio cuore non è più tra i viventi. Povero Sandi! Era egli il compagno della mia fanciullezza, egli il mio fratello d'armi, di caccie e di giuochi, egli il gentile poeta che mi allegrava lo spirito con le sue leggiadre canzoni. Vaghezza di gloria lo trasse pellegrino alle mura di Babilu. Chi non lo avrebbe amato, vedendolo? E lo vide costei, il biondo garzone d'Armenia, che avea cantata nei suoi versi innamorati la bellissima rosa di Sennaar; lo vide e lo amò, per ucciderlo. Così fu narrato in Armavir; una sera egli salìa chetamente ai pensili orti della regina; all'alba vegnente, l'Eufrate accoglieva nei suoi gorghi un cadavere.

— Ah, menzogna! — gridò ella balzando in piedi, con piglio iracondo. — E chi ha osato calunniarla in tal guisa? Ella non vide il tuo Sandi, io te lo giuro pe' sommi Dei, che ci stanno sul capo. Non dar vanto di regali amori, siano essi pure feroci, come tu pensi, o re d'Armenia, a chi forse lasciò la vita in un laccio volgare.

— Perchè ti sdegni? — le chiese Ara turbato. — Amica della regina, troppo poco lo sei di chi t'ama. E sia pure! L'oracolo di Peznuni me lo aveva pur detto, innanzi ch'io lasciassi Armavir! «La terra di Sennaar ti sarà fatale!» Accusami alla regina; domani non andrò al suo palazzo, sibbene alla morte. Non mi dorrà il morire, se dalle tue labbra mi verrà la sentenza. —

L'accento appassionato commosse la sconosciuta.

— T'inganni; — soggiunse ella, ad un tratto mutata. — Troppo facile trascorsi allo sdegno; ma non temere! Chi t'ha veduto una volta non può tradirti, per fermo. A te l'amicizia offuscò la ragione; a me l'amicizia dettò le irose parole. Se tu conoscessi Semiramide, — e qui la voce di lei assunse un tono d'infinita mestizia, — sventurata la diresti, non rea. Nessuno amò la povera regina, nessuno! Ella è sola, si sente sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul mare. Chiede affetto (e chi, tra i nati all'amore nol chiede?) ma invano, gagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna. Tu la vedrai, re d'Armenia, e se non somigli a quanti le stanno tementi dintorno, se hai virtù di penetrare con lo sguardo oltre il fasto regale che la circonda, vedrai dolore che non ha uguale in terra, e che mal si tenta di nascondere nel profondo dell'anima; vedrai fastidio d'ogni grandezza, d'ogni vanità, d'ogni ossequio bugiardo; vedrai desiderio infinito di verità, di schiettezza e di fede. E allora... allora non crederai alla fama, allora, forse, tu amerai quella donna. —

Il giovane crollò mestamente il capo, come chi, non potendo assentire, non ardisce pure far contro.

— Perchè, — entrò egli a dire, — ci diam noi pensiero di ciò? Tristi ricordi hanno fatto forza all'animo mio; lasciamo ora in disparte ogni cosa che non sia l'amor nostro; te ne prego. Parliamo di noi; parliamo di te, — aggiunse con voce carezzevole, — di te, che sei tanto leggiadra, anco negl'impeti dello sdegno. Celebrata è Semiramide nel mondo per maravigliosa bellezza; ma ella, mentre tu l'ami e la difendi, per fermo invidia la tua. —

E rimase ad attendere una sua parola, curvo in atto amoroso di fianco a lei, che s'era di bel nuovo seduta, modesto e ardente ad un tempo, lo sguardo fiso in quei grand'occhi neri, che lo guatavano tra curiosi ed incerti.

— M'ami tu molto? — gli chiese ella cedendo ad un moto repentino dell'animo.

— Lo chiedi? — gridò egli, nell'atto di afferrarle la destra e di stringerla al petto, come se volesse farla consapevole degli ardori ond'era tutto compreso. — Odimi, o figlia di Babilu, odimi, ignoto astro di luce! Nei miei monti natali, sono i costumi più semplici e rozzi, ma forti. Si ama una volta sola, ma per tutta la vita. Veloce, prepotente a guisa di fulmine, scende l'amore nel cuor nostro e lo strugge; però sono una cosa sola il vedere e l'amare. Io ti ho veduta e ti amo; non ti amavo io già, prima di vederti in viso, di udire il suono della tua voce? E tu, dimmi, nel nostro incontro non vedi, non senti, alcun che di fatale?

— Fatale, sì, tu l'hai detto, fatale! — ripetè con vibrato accento la sconosciuta. — Così è bello, non altramente, l'amore; così s'avrebbe mai sempre a volerlo: o incendio o nulla. Amare è darsi intieramente, è confondersi, vivere in una due vite, se felici o sventurate, non monta, ma gloriose, ma ardenti, fino al punto di consumarsi a vicenda e morire, a guisa degli astri, in uno sprazzo di fuoco.

— Così t'amerò, — disse Ara; — fosse anco la morte nei tuoi baci. Chi ama, ha vissuto.

— E dimmi... — soggiunse ella peritosa, fissando i suoi grandi occhi neri in quelli del giovine, — per questo tuo medesimo affetto, non potrai tu farti più umano nel giudicar la regina?

— Che chiedi tu ora? — esclamò egli turbato.

— Gli è un mio capriccio, — rispose ella prontamente. — Donna amante non si reputi amata, se prima non abbia messo il cuore dell'uomo alla prova.

— Ah! — proruppe Ara. — Dubiteresti ancora di me?

— Non dubiti tu ancora delle mie parole? — diss'ella di rimando. — Non dài tu orecchio, anzi che alla mia voce, alle perfidie del volgo?

— No, t'inganni; io non dubito, ma il mio cuore sanguina tuttavia; concedi al tempo di rammarginare la piaga. Tu taci? Deh, mia diletta, non t'offenda il diniego! Più tiepido amico, ti parrei forse più fervido amante?

— Amore, dolore! — mormorò ella tra sè, quasi rispondesse ad una voce segreta dell'anima. — E sia così, come vuole la Dea!

— Rispondimi, te ne supplico! — incalzò il re d'Armenia, cadendo in ginocchio e tendendo le palme verso di lei. — Non mi lasciare in questa tormentosa incertezza, peggior d'ogni morte! Vedi, non sempre si è padroni di sè: v'hanno cose da cui l'animo rifugge. Comanda che io m'allontani; comanda che io ti dimentichi; potrà forse il mio cuore obbedirti?

— Giuralo, dunque; — diss'ella con piglio risoluto; — giura che mi ami, e che, qualunque cosa avvenga... Bada bene; qualunque cosa avvenga, — ripetè solennemente, — tu sarai mio, sempre mio!

— Che vuoi nascondermi? — chiese il giovine attonito. — Che vedi tu nel mio futuro?

— Tremi già? — soggiunse la sconosciuta.

— Oh, se tu credi che io m'arresti per tema... — rispose egli sollecito; — ecco, io lo giuro; qualunque cosa avvenga, sarò tuo, sempre tuo! —

Un divino sorriso irradiò il volto della bellissima donna, che si fece allora a chiarirgli il suo pensiero con più dolci parole.

— Tu domani vedrai la regina, e chi sa? forse in vederla, ti fuggirebbe dal cuore ogni affetto per me.

— Di ciò temevi! — gridò Ara, con accento d'amoroso rimprovero.

— Di ciò, d'altro ancora, di tutto! — rispose ella trepidante.

— Oh, crudele! — ripigliò il garzone innamorato. — Io giuro nel santo nome di Militta, che ti ha fatta pietosa alle mie preghiere, giuro per la mia fede di re, che non s'è macchiata di tradimento mai, giuro per la sacra memoria di Sandi, che fu sino ad oggi l'unico affetto vero della mia vita, giuro di non amar che te sola, te sola e sempre, checchè mi serbi il dio delle sorti! Sei paga? Non accoglierai tu il mio giuramento? —

E stette anelante, lo sguardo fiso, in atto supplichevole, ad aspettar la sentenza dalle labbra di lei, che rimase un tratto immobile e muta a contemplarlo.

— Acerba pena ti preparo forse, o mio cuore! — mormorò ella, raccogliendosi sgomentita in sè stessa. — Ma sia! non l'ho io chiesto poc'anzi a Zarpanit, d'essere amata per me, per me sola, checchè potesse accadermi? —

Il giovine era tuttavia ai suoi piedi, spiando ogni suo moto, chiedendole mercè con la muta eloquenza degli occhi. La luna, librata a mezzo il suo corso, accarezzava, coi candidi raggi, quell'amoroso sembiante. Ed ella, impietosita, chinò il viso sul viso di lui, lo trasse a sè, lo guardò ancora; un ricambio d'ansiose interrogazioni, di fervide promesse, di soavi languori, parlò in quegli sguardi confusi; indi, un'arcana virtù ravvicinò le labbra alle labbra, le strinse in un bacio, lungo, intenso, come il desiderio che ardeva nei cuori.

— Ti credo; — ella disse quindi, gettandogli al collo le braccia e nascondendo il bellissimo volto sul seno palpitante del re; — ti credo e son tua. —

Così l'uno all'altro ristretti, a guisa di due giovani fidanzati, ebbri d'amore, dimentichi d'ogni cosa creata, ripigliarono leggieri la via del tempio, guardandosi in volto, bisbigliandosi all'orecchio cento di quelle parole, soavemente vane, che l'aura stessa non può udire, nè l'eco ripetere, senza toglierne il pregio.

Si erano essi a mala pena partiti di là, che una testa curiosa sbucò fuori da un vicino cespuglio. Indi, raffidato dalla solitudine, un uomo ne uscì con tutta la persona, ravvolto in un bruno mantello; strisciando a guisa di serpente, attraversò il sentiero, e si cacciò da capo nell'ombra, in una macchia di lentischi, che risaliva lunghesso l'erta del colle.

Semiramide: Racconto babilonese

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