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CAPITOLO IV. L'onniveggente.

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Già impallidiva Istar, la lucida stella del mattino, e il cielo biancheggiava all'orizzonte, allorquando, sul più remoto terrazzo della reggia di Semiramide, apparve un uomo, o troppo nemico del sonno ristoratore, o desideroso di respirare le prime e le più pure aure del giorno.

Egli era alto della persona e di valide membra; indossava una gran tunica nera, frangiata d'oro sui lembi e lunghesso il giro delle ampie maniche ricadenti sui fianchi; portava, a mo' di diadema, intorno alla fronte, un cerchio d'oro, donde la folta capigliatura gli ricadeva inanellata sul collo; la barba, folta del pari, nerissima e riccioluta, gli scendeva sul petto, dando risalto al viso, notevole per le maestose fattezze e pel colore bianco smorto della carnagione, a contrasto colle labbra porporine e colle sopracciglia d'ebano, sotto cui scintillava il mobile smalto delle profonde pupille. Era una bellezza di granito, la sua; bellezza nobile, contegnosa e fredda, che comandava l'ammirazione e non ispirava l'affetto. Così apparivano terribilmente belli i colossi di pietra sul limitare dei templi; così, mirabilmente severe, lungo le pareti babilonesi, le immagini dipinte dei sacerdoti e dei re.

Immobile come un nume di pietra, egli stette a lungo lassù, colle braccia conserte, ritto sull'altana, in atto di guardare agli estremi confini del cielo, donde veniva man mano crescendo un'ampia lista di luce, zona ranciata da prima, indi accesa di porpora, che circondava la nereggiante pianura.

Egli non era lieto per fermo; ben lo dicevano le ciglia aggrottate e lo sguardo fiso, che parea cercare le invisibili regioni, dove ha la sua culla il sole, mentre forse lo spirito irrequieto si addentrava negli abissi inesplorati, donde scaturisce il pensiero. E così rimaneva, guatando e pensando, raccolto in sè medesimo, come un colosso circondato da tenebre, il quale aspetti la luce, o come un'anima smarrita, sopraffatta dai casi, la quale aspetti da lontano evento un consiglio.

Poco stante fu giorno; lo splendido sole asiatico, improvvisamente apparso all'orizzonte, levandosi maestoso in un cielo di madreperla azzurrina, investì de' suoi raggi la dormente città e sfolgorò in più punti, riflesso dal dorso lucente delle sue cupole, dalle facce delle sue piramidi, dai fianchi delle sue torri.

Quella vista lo riscosse dalla sua immobilità pensosa. Egli si volse allora ad un altare di pietra, che sorgeva nel mezzo della piattaforma; frugò tra le ceneri che ingombravano il focolare e ne scoverse i carboni ardenti tuttavia; vi accatastò la stipa in bell'ordine; poscia si fece, in atto religioso, a soffiarvi su, per destarne la fiamma. Indi a poco la vampa si accese e crepitò, cercandosi la via per mezzo agli aridi tronchi, mentre egli, inginocchiatosi, e sollevando le palme alla crescente fiammata, venìa mormorando le sue preghiere al dator della vita.

— «Io invoco te in questa purissima fiamma, io celebro te, creatore Ahuramazda, luminoso, risplendente, massimo ed ottimo, perfetto nelle opere tue, mente e bellezza suprema, possessore della vera scienza, fonte di gioia, tu che ci hai creati, formati e nudriti, tu il santo, tu l'intelligente tra gli esseri.

«Tu sei vero, tu lucido e splendente, tu causa prima di tutte le ottime cose, dello spirito che è nella natura, di ciò che nasce dal suo fianco generoso, dei corpi luminosi e di quelli che splendono di luce propria; tu il verbo creatore, esistente avanti il cielo, avanti l'acqua, avanti la terra, l'albero, il toro ed il fuoco tuo figlio, avanti l'uomo veridico, avanti i Devas e gli animali carnivori, avanti tutto l'universo, avanti tutto il bene da te creato, e avente il suo germe nella verità.

«Come il verbo dalla volontà suprema, così l'effetto non sussiste se non perchè procede dalla verità. La creazione di ciò che è buono nel pensiero e nell'azione, appartiene nel mondo a Mazda, e il regno appartiene ad Ahura, che il proprio suo Verbo costituì distruttore dei tristi.»

Dette in ginocchio queste preghiere, l'ultima delle quali ogni sacerdote di Ahuramazda dee ripetere cento volte al giorno, egli trasse di sotto all'altare una coppa di argento e vi spremè il succo dell'amòmo, dell'arbusto nodoso, che porta, per insigne privilegio celeste, il nome più antico di Dio, nella sacra lingua dell'Iran. L'hom (tale è il suo prisco nome) si riputava per ciò il primo degli alberi, come il toro era detto il primo tra gli animali. Consacrato davanti all'altare, esso era la medesima sostanza di Dio; bevuto dal sacerdote, esso era Dio che si trasfondeva nel petto dell'uomo.

— «Io ti volgo la mia prece, o Hom, elettissimo Hom, che dài la giustizia, la purità e la salvezza, ottimo di forma, splendido di luce, vittorioso, che hai nome di aureo!»

Spremuto il succo nella coppa, alzò questa con ambe le palme verso la fiamma, e ne sparse alcune goccie sugli ardenti carboni.

— «Per questa sola coppa che io ti presento, o dator d'ogni bene, rendimi tu quattro, sei, sette, nove, dieci per uno; ricompensami tu in questa guisa; dà la purezza al mio corpo. Veglia su me, purissimo Hom, ottima tra le sostanze, scendi tu stesso in me, sorgente di vita. Aprimi, o santissimo, allontanator della morte, aprimi le dimore celesti, sfolgoranti di luce, piene di felicità, superbe di gloria.» —

Ciò detto, accostò la coppa alle labbra e bevve il consacrato liquore dolcissimo, a mala pena spremuto, ma che tornerebbe fatale a chi lo bevesse dopo fermentato. Tale era il sacrifizio del fuoco, tale l'offerta dell'amòmo, presso le antichissime genti dell'Iran.

Il sacrificatore proseguì, levando le palme all'altare:

— «Come tu ardi in questa fiamma, come tu regni nei cieli, così regna in terra, o possente Ahuramazda; così stendi il tuo divino impero dai culmini dell'Iran fino alla pianura del Sennaar e più oltre ancora, fin dove stridono i flutti del mare allo inabissarsi del sole. Possa Babilonia, possa il popolo delle quattro favelle, inchinarsi alla tua legge, o spirito di verità! I suoi astri venerati, che sono essi al cospetto della tua luce? Le sfere celesti, le forze arcane della natura, dovranno sempre usurpare il tuo luogo, o creatore di tutto ciò che è, nell'ordine degli spiriti eterni e delle cose mortali?» —

Così disse, con fervido accento nella sacra lingua di Javan; così diè fine alla preghiera e si alzò per chiudere il rito. Un lieve moto del capo gli consentì di vedere dietro di sè, pochi passi discosto, ov'era un altr'uomo genuflesso, e un sorriso di superba contentezza sfiorò le sue labbra. Fingendo tuttavia di non avvedersi della presenza di quell'altro, egli attese con minuta cura a rasciugare la coppa e a gittar sul fuoco gli avanzi del sacrificio; quindi finalmente si volse e andò, con piglio affettuoso, incontro al nuovo venuto.

Era questo un giovinetto, le cui strane sembianze comandavano l'attenzione. La grazia ingenua degli atti e del sorriso, la eleganza un tal po' impacciata delle forme e una certa inconsapevol ferocia dello sguardo, pareano contendersi l'impero su quell'aspetto di adolescente e lo faceano rassomigliare ad un lioncello, dai cui moti leggiadri, ma già di soverchio baliosi, trasparisce la forza e la crudeltà degli anni maturi. Sorridevano le labbra coralline, ma tumide di voluttà e d'orgoglio, lievemente ombreggiate dai peli vani della pubertà nascente; si rappicciolivano gli occhi sotto le ciglia, in atto tra ossequioso ed amorevole, ma lucidi e fissi, promettitori di lampi; soavi erano i contorni del viso, ma sotto quella bruna carnagione si vedeva correre vivace, impetuoso, il sangue della stirpe cussita. Egli appariva un misto di fierezza più che virile e di dolcezza femminea; cose del resto assai facili ad accoppiarsi nella umana natura. Per altro, la sua tenera età lo ravvicinava più ancora al femmineo; aiutando a questa apparenza la sua bianca tunica frangiata d'oro, con sopravveste violacea, la mitra aggraziata, dai capi pendenti sugli òmeri, e la collana di gemme, che dintornava un collo soavemente tondeggiante, siccome è delle donne o dei giovani.

Alzatosi in piedi sollecito, l'adolescente si mosse anch'egli, per farsi incontro al maggiore.

— Padre mio, — diss'egli inchinandosi, nell'atto di ricever l'abbraccio di quell'altro, — sia Ahuramazda con te, e i sommi Dei di Babilonia del pari! —

Aggrottò l'altro le ciglia a quelle parole del giovone.

— E' sono inferiori suoi; t'è già noto, o Ninia; — rispose egli con aria di paterno rimprovero; — eglino, quanti sono, adorati dalla stirpe degli Accad, obbediscono a lui, come i sei santi immortali e la innumerevole schiera degli spiriti da lui creati nel tempo. Da lui viene la luce, che dà splendore agli astri del cielo e infonde virtù agli elementi; in lui solo è la verità suprema, la bellezza e la forza, l'origine e il fine di ogni cosa creata.

— È vero! — disse l'adolescente, reclinando la testa sul petto.

Piacque all'altro l'arrendevolezza giovanile, a cui del resto s'aspettava, e il suo accento si fece ad un tratto più dolce.

— Or dunque, mio Ninia, consacriamo queste ore agli utili studi. Purificato dalle mattutine abluzioni e dalla preghiera, tu leggerai le prime tavole del Vidaè Vadàta, che è la legge di Ahuramazda contro gli spiriti malvagi. Tu vedrai come egli abbia create le schiere celesti per combattere la potenza del male, i sei genii Amsciaspandi, i benefici Izèd, e da ultimo i Ferveri, custodi dell'uomo nelle pugne della vita.

— Savio Zerduste.... — entrò a dire peritoso il giovinetto.

— Orbene?

— Questa mattina non puoi tu concedermi libertà? I miei giovani compagni mi attendono per una cavalcata fuori Imgur Bel. Si va fino al villaggio di Lahiru, donde si cominciano a scorgere le alte torri di Sippar.

— E dove è così dolce il riposo sotto le palme di Gomer; — aggiunse Zerduste, con accento da cui trapelava il sarcasmo. — Non è egli vero?

— Che vuoi tu dire? — esclamò Ninia, arrossendo. — Si rimane per breve ora colà, a ristorarci dalla fatica e far posare i cavalli all'ombra dei tamarischi.

— Bada a te, Ninia, bada a te! — proseguì Zerduste, senza por mente alle scuse. — Ahriman ti vuol suo. Il negro spirito ti fa velo agli occhi di gioie terrestri, per disviarti dal retto sentiero. —

Il volto dell'adolescente si rannuvolò.

— Ma dimmi, sapiente maestro, — disse egli, non senza un tal po' d'amarezza, — questa diritta via sarà ella dunque e sempre, la via del dolore?

— Non già; — rispose Zerduste; — fine della vita è la gioia; ma il savio impara a vivere, innanzi di prender cammino. Due sentieri guidano alla meta; aspro e malagevole il primo, irto di rovi e povero di ombre consolatrici; facile l'altro e piano, smaltato di fiori, liberale di liete fragranze, ricco d'amabili incanti. S'attenga al primo, ne patisca animoso le angustie, chi vuol giungere speditamente al fine desiderato; guai a chi sceglie il secondo, imperocchè Ahriman s'appiatta insidioso tra i rami, persuade all'animo i fallaci consigli, e ad ogni fior che si coglie, ad ogni ora di soave riposo che si gusta, fugge la vita veloce e l'intento s'oblìa. Odimi, o dolce figliuolo, chè tale ben posso chiamarti per l'affetto del cuor mio; non cedere alle blandizie dello spirito malefico, tu che hai potuto intravvedere gli arcani splendori del vero; non ti adagiare nelle mollezze anzi tempo, tu che sei nato alle nobili cure del regno. Strana fiacchezza è la tua, o sangue di Nemrod! Dov'è la tenacità di propositi, dove l'ardire e l'ambizione, che ti facciano degno de' tuoi possenti maggiori?

— Faticose virtù! — rispose Ninia, sospirando. — Pur troppo dovrò conoscerle un giorno e saper come pesano! Babilonia ha un gran re, mia madre, e vogliano i sommi Dei.... voglia Ahuramazda, — soggiunse prontamente il garzone, — serbarla lunghi anni all'amore, alla gloria del suo popolo.

— Ti ascolti Bahman, lo spirito protettore della regia autorità; — disse asciuttamente Zerduste; — ma egli è debito tuo di prepararti ai supremi voleri; è colpa grave in te il non far degna stima dei doni celesti. Oh Ninia! — incalzò egli con accento inspirato; — che vuoi nascondermi? Il tuo Ferver, il tuo genio tutelare, ti vede; egli ti accompagna dovunque; egli ti legge nel cuore; egli non m'ha nulla celato.

— Che dici tu mai? — chiese Ninia, con aria da cui trapelava più incredulità che sgomento.

— Che tutto mi è noto; — incalzò Zerduste; — che i tuoi giovani amici ti traggono su d'una via perigliosa e che io non ho abbastanza vegliato su te.

— Ma, infine.... — balbettò l'adolescente; — di che mi riprendi? Io non so di avere in cosa alcuna fallito. Se ignoti nemici ti hanno dato a credere....

— Non ischermirti così! — interruppe quell'altro. — Zerduste non ha bisogno di gente che venga spiando i tuoi passi; egli tutto sa, tutto vede, e perfino i più riposti pensamenti dell'animo. Ne dubiti? Orbene, alla prova, ed ascoltami; narrerò a Ninia il segreto di Ninia. —

Il giovinetto, tremante, confuso, si lasciò cadere sopre un sedile, di contro al parapetto del terrazzo. Zerduste, in piedi davanti a lui, tranquillo e severo a guisa di un giudice, così prese a parlargli:

— Era il mattino del terzo giorno di Bagayadisc, che è detto a Babilonia il mese di Sivan; giorno sacro, pei seguaci della vera luce, al divino Ardibehest, pei vostri sacerdoti al sanguigno Nergal. Non sono adunque trascorsi da quel giorno molti altri, — notò Zerduste, — poichè Bagayadisc non è giunto ancora a mezzo il suo corso. Un regio adolescente, diletto ad Ahuramazda, sebbene e' non sia nato sotto la sua legge, nè ancora egli creda alla sua onnipotenza, galoppava, seguito da uno stuolo di cavalieri, tutti coetanei suoi, scelti tra i primi di Babilonia, fuori di Imgur Bel, sulla via che risale lunghesso l'Eufrate, fino al villaggio di Lahiru. Colà giunti, fecero sosta nella macchia di tamarischi che scende con dolce pendìo fino alla riva del fiume. Il sole, alto nel firmamento, dardeggiava sulla pianura gli ardenti suoi raggi, consigliando i baldi garzoncelli a chiedere un'ora di riposo al meriggio degli alberi. Uno di essi, tratto da giovanile vaghezza, era andato più oltre a ristorar le membra nelle acque scorrenti. E là, mentr'egli, già tornato alla riva, stavasi contemplando quell'ampia striscia di liquido argento che volgeva con poderoso corso agli amplessi della sua città prediletta, gli venne veduta, nuotante a fior d'acqua, una leggiadra figura di donna...

— Padre mio! — esclamò Ninia, turbato.

— Sì, — proseguì Zerduste, senza por mente alla interruzione, — era una vezzosa fanciulla, che venia nuotando verso di lui, là dai palmeti di Gomer, di cui si vedeano sorgere i tronchi sottili e incurvarsi i lunghi rami verdeggianti dalla riva sinistra dell'Eufrate. Un candido lino le custodiva il capo e gli òmeri dalla vampa del sole; una ciotola di terra le posava sulla manca, alzata fuor d'acqua, mentre con la destra ella venia fendendo il flutto, per avvicinarsi alla sponda, dov'era il garzone, immobile, estatico, a contemplarla.

«Vieni a me, vezzosa fanciulla! le gridò egli, come fu certo che ella potesse udirlo. E la fanciulla poggiando a destra sul braccio disteso, si fece più presso alla riva. Certo ella conosceva per lungo uso quel tratto dell'Eufrate; imperocchè, come fu giunta a forse cinquanta passi distante da lui, si lasciò cader ritta, per toccare il fondo col sommo dei piedi, e leggiera, saltellante, a guisa di danzatrice, si affrettò al lido, con la sua ciotola eretta sulla palma all'altezza del viso. Così man mano egli vide sorger dall'acque il suo corpo snello e flessuoso come un tronco di salice, coperto di una bianca tunica che le si aggiustava, così molle com'era, alla persona, seguendone fedelmente i graziosi contorni.

«Neri, lucenti i capegli, vivide le pupille per profondi riflessi di zaffiro, ma velate a mezzo da lunghe e morbide ciglia, colorate le guancie come il frutto del melagrano, parea la voluttà discesa sulla terra in forma di donna, per volere di Mazda, innanzi che lo spirito tentatore la volgesse a danno degli uomini. Il collo nitido a guisa di avorio, svelto ed agile come quello del cigno, sorgeva con soavissima curva dai mal celati tesori del seno palpitante. Sorrideano timidamente le labbra di corallo, lasciando scorgere due file di perle, che non han le più candide i meravigliosi recessi del mare.

«Timido, palpitante del pari, il giovinetto si accostò a lei, che balzava sul lido, profferendogli la sua ciotola ricolma di latte. E bevve a lenti sorsi, più lenti che gli venisse fatto, il fresco umore che gli era ministrato da quelle mani leggiadre, mentre i suoi occhi, più sitibondi a gran pezza, beveano da tutta la persona di lei i primi effluvi d'un'arcana dolcezza.

«— Come ti chiami? — le disse egli amorevole.

«— Anaiti, — rispose la giovinetta.

«— Il nome di una dea! — soggiunse il garzone. — Invero, al primo vederti, io t'avevo tolta per Daokina, la moglie di Ao, emersa dai flutti del mare; chè certo la vezzosa regnatrice delle onde non è più bella di te.

«Il volto della fanciulla si tinse del color della fiamma, e il cuore di lui ne fu colmo di ebbrezza. E così amabile sulle guancie d'una donna il rossore che le nostre parole fan nascere! Ambedue rimasero un tratto in silenzio, commossi, anelanti, ella con gli occhi a terra, egli col guardo fisso in quel raggio di giovanile bellezza. Indi, facendosi anche più rossa, e con accento che diceva tutta la commozione dell'animo, la fanciulla chiese a lui di rimando:

«— E tu, mio signore, come ti chiami?

«— Il mio nome è assai men leggiadro del tuo; — le rispose egli; — son Ninia.

«— Ninia! — esclamò ella alzando i suoi grand'occhi verso di lui ed abbassandoli tosto; — il principe di Babilu!

«E fu per cadere al suolo, tanta era la sua confusione. Ma Ninia si affrettò a sorreggerla, e in cosiffatta guisa, Ahriman, che vigila ai danni della creatura, li ebbe gittati, senza loro saputa, l'una nelle braccia dell'altro.

«Fu questo il primo incontro, e non fu il solo. Due volte ancora la vezzosa nuotatrice varcò la corrente del fiume, recando la sua ciotola di fresco latte all'assetato garzone. Il terzo dì, fatto più ardito, egli non volse già ai tamarischi di Lahiru: bensì, uscendo da Babilonia sulla riva sinistra del fiume, e lasciatisi indietro i giovani amici, cavalcò ansioso fino ai palmeti di Gomer. Vuoi tu udire ciò che si bisbigliasse ieri, sulla quinta ora del giorno, in quel nido di verdura, celato agli sguardi profani? Pon mente, e vedi se alcuna cosa è sfuggita al vigile orecchio del tuo genio tutelare.

«— Ti son io così cara? — dicea la fanciulla. — Non mi dimenticherai tu un giorno, o mio principe?

«— Principe! — ripetè con accento di amarezza il regio garzone. — Tutti mi chiamano così e il nome mi suona sgradito. Tu chiamami Ninia, il tuo Ninia, il fratello, il giovine amico del tuo cuore. Dimentichiamo la reggia; nessuno mi ama laggiù!

«— E tua madre? — gli chiese Anaiti.

«— Mia madre, tu dici? Io l'amo, e credo che ella mi ami; ma le gravi cure del regno la distolgono sempre da me. Mi ama Zerduste, il savio principe dei Medi, che la regina mi ha dato a maestro e custode. Mi ama! — aggiunse sospirando il garzone. — Lo dice; soventi volte lo dice; ma io non ho mai visto il sorriso di quell'uomo, il sorriso, in cui si manifestano i dolci sensi dell'anima, il sorriso, che mi fa parer più leggiadro il tuo volto e m'innonda il cuore di così nuova dolcezza! Sempre grave, cupo, accigliato, è Zerduste, pauroso come il suo dio, circondato di spiriti invisibili, che riempiono le mie notti di arcani terrori. Con te son lieto, Anaiti; bella e pietosa come l'aurora, tu sperdi le tenebre addensate su me, tu mi rinfranchi lo spirito abbattuto, mi rechi la fede, la speranza e l'amore. Non son queste le tre consolazioni della vita? E non è bello che mi vengano tutte da te?

«Così ragionando egli, e la fanciulla rispondendogli con la muta eloquenza degli occhi radianti, errarono a lungo sotto i palmeti di Gomer. Colà Ninia vide per la prima volta la casa di lei, umile tugurio di pescatori, dove si nasconde quel miracolo di leggiadria, come entro vil gleba il diamante. Ma essa non vi rimarrà a lungo, se a Ninia sarà dato di colorire i suoi amorosi disegni. Nel cuore della rusticana fanciulla si agitano confusi i desiderii e le ambizioni della donna. È soltanto dell'uomo il restarsi ignaro e contento nell'umile stato a cui lo condannò la natura; la donna, in quella vece, sol che le arridano gioventù e bellezza, può levarsi in alto, fors'anco apparir degna di un trono. Non è egli vero, o Ninia? Non è ciò che tu pensi?» —

Così Zerduste, con progressione implacabile, era venuto scoprendo i più riposti segreti di quell'anima giovanile. Ninia, attonito da prima, indi sgomentito, esterrefatto, lo aveva ascoltato tacendo.

— Padre mio, — gridò egli finalmente, con voce lagrimosa, nell'atto di buttarsi ai piè di Zerduste, — se tu la vedessi! Ella è così bella, ed io l'amo tanto! Strappami il cuore, se così ti piace, ma non strappar Ninia da lei! —

Zerduste lo rialzò, senza profferir verbo.

— Non mi dirai tu nulla? Non mi perdonerai tu? — chiese il garzone con supplichevole accento. — Se io ti ho mal conosciuto finora, non vorrai tu condonarlo alla mia giovinezza inesperta? Sì, io lo vedo, lo sento; tu sei il ministro d'un Dio, tu che sai ogni cosa, tu che leggi nel profondo dei cuori, onniveggente maestro!

— Non io, — soggiunse umilmente Zerduste, — ma i santi Amsciaspandi, gli Ized, e i Ferver, invisibili spiriti che ti incutono spavento. Eglino, per altro, non fan paura ai saggi; chi segue la legge di Mazda non ha nulla a temere da essi. O Ninia, ed è il tuo labbro che ha potuto giudicarmi così malamente? Non t'amo? Non hai veduto mai Zerduste sorriderti! E che? Dovrei io allegrarti di vane lusinghe, come una vil femminetta, io che ho sacrata la mia vita agli arcani della divinità, io che consumo le notti sulle tavole sacre, io che nutro il tuo spirito dei reconditi veri?

— Padre mio! — gridò Ninia, piangente. — Sono colpevole; qual pena m'infliggi?

— La preghiera, mio figlio, la preghiera che innalzerai al trono di Mazda, nel fervore dell'anima tua. Ancor lungo cammino ti è mestieri di correre, innanzi di giungere alla vera sapienza; ma la fede e la preghiera possono farlo più breve. Tu allora accosterai sicuro le labbra al calice delle umane delizie, che non avrà più veleno per te.

— Maestro, — disse il garzone, riaprendo il cuore alla speranza, — e se io avessi questa fede... se io ti giurassi...

— Va; — interruppe Zerduste, sorridendo la prima volta al discepolo; — Ahuramazda non è un tiranno dei cuori. Va coi tuoi giovani amici; ma pensa...

— Che egli regna in cielo, — proseguì il giovinetto esultante, — e che tu sei il suo ministro sulla terra. Io lo adoro e ti amo. —

Così dicendo, Ninia era per inginocchiarsi ai suoi piedi. Zerduste lo trattenne con piglio amorevole e lo strinse al suo seno.

L'adolescente col cuore in festa, il volto sfavillante di gioia e il piè leggero, si dipartì poco stante da lui. Lieto al pari di Ninia, ma di più profonda allegrezza, Zerduste rimase solo lassù.

— Grazie, — esclamò egli, levando gli occhi e le mani al cielo, — grazie a te, Ahuramazda, lume delle anime, signore della gente di Javan! Sei tu che vinci quest'oggi, e l'abbattimento di questo lioncello del sangue di Nemrod mi è presagio felice. —

Indi misurando la piattaforma a passi concitati e sicuri, come d'uomo che ha piena balìa di sè medesimo e degli eventi, si volse a guardar la città sottoposta e le alte moli scintillanti da lunge al cospetto del sole.

— Bitzida, Niprùti, — soggiunse fissando lo sguardo sulla torre delle sette sfere e sulla piramide sacra alle fondamenta della terra, — i vostri Dei cadranno; la fiamma purissima di Mazda arderà sulle vostre cime. E tu, superba regina, disprezzami! Il mio giorno verrà; nè te salveranno i favoleggiati natali dal grembo di Derceto, o venturiera d'Ascalona! —

In quel mezzo, un uomo apparve sul terrazzo.

— Mio signore... — diss'egli.

— Che vuoi, Thuravara?

— Il re d'Armenia si è mosso, con la sua cavalcata dal baluardo di Nivitti Bel. Tra un'ora egli sarà in vista del ponte, per venire alla reggia.

— Ben venga! — esclamò Zerduste. — Tu vanne e sii pronto al comando. Io sarò tra breve nella gran sala di Nebo, ad aspettar la regina. —

Thuravara s'inchinò e disparve giù dalle scale onde era venuto.

— Ben venga, sì! — proseguiva Zerduste. — È pena acerba la mia, ma sarà acerba la vendetta del pari. Ah, tu l'hai voluta, Semiram? E sia! Militta Zarpanit, che ti ha ministrato il dolce veleno, non potrà profferirti altrimenti il rimedio. —

Semiramide: Racconto babilonese

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