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II.

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Ogni città pertanto soleva avere molti nemici e di molte sorta: primi fra tutti, i fuorusciti che avevano avuto le case arse e disfatte, a furia di popolo e talvolta per sentenza del magistrato, e tutti i beni pubblicati, ossia confiscati; onde peregrinavano condannati essi stessi a morte o all'esilio, insieme colle donne e coi figliuoli (quando pure questi non fossero stati trattenuti come ostaggi): bensì costoro, senza perdersi d'animo, costituivano subito uno Stato fuori dello Stato; si raccoglievano a consulte, si eleggevano capi, stavano uniti ed armati, offrendo i loro servigi in cambio dell'ospitalità a quelli della loro parte, e spiando l'occasione di tornare in patria, per render la pariglia ai loro avversari: taluni pure stretti dal bisogno si mettevano agli stipendi di qualche signore italiano o straniero, facendosi così precursori delle compagnie di ventura. C'erano inoltre altri nemici del Comune, più coperti, ma non meno pericolosi: dentro, la moltitudine dei malcontenti, cioè degli esclusi dagli onori: e questi solevano essere, in Toscana, i nobili e i plebei, poichè coloro che in sul finire del secolo XIII si erano recati in mano lo Stato erano generalmente i popolani grassi; ma ai grandi poi vennero ascritte, per astio e per vendetta, molte famiglie d'origine cittadina, e gli stessi popolani grassi, divisi in consorterie e in nuove fazioni, si fecero guerra tra loro. Fuori poi, stavano le terre e le città soggette le quali erano tenute in freno più che altro dalla paura; e quanto più esteso era il dominio, tanto più eran temibili le ribellioni; nè si ristavano dal fomentarle i feudatari della campagna, che non tutti si erano condotti a vivere dentro le mura, ma parecchi serbando una mezza indipendenza eran venuti a patti col Comune, nè avevano scrupolo di violarli ove a loro tornasse conto. Non occorre accennare alle insidie e alle guerre degli emuli vicini o lontani, essendo sorte che tocca a tutti gli Stati. Bensì i Comuni, per la loro natura, vi andavano più esposti degli altri.

Invero varie città, guerreggianti coi signori del contado, avevano ordinato l'affrancazione dei servi della gleba; talvolta li avean persin ricomprati; e famosi sono i decreti promulgati da Bologna nel 1256 e 83, da Firenze nel 1289 e 97, che sembrano precorrere, nella consacrazione della libertà personale, le dottrine filosofiche del secolo XVIII. Ma tali atti, ristretti alla sola servitù rurale, possono equipararsi alle emancipazioni sancite dai pontefici qual conseguenza delle bolle di scomunica; poichè come da un lato non ponevano ostacolo alla servitù domestica (di cui si trovano traccie negli Stati italiani fin oltre al seicento), così dall'altro non iscioglievano tutta la compagine degli ordini feudali; ed i Comuni vietando di vendere o di comprar coloni e abolendo le angherie dovute ai Signori, non intendevano menomamente di rinunziare alla giurisdizione civile e politica sui loro vassalli. Anzi, persino accettando la dedizione spontanea o l'accomandigia di qualche terra, non mancavano d'imporle un tributo od almeno un atto d'omaggio, insieme coll'obbligo di obbedire ad ogni loro comandamento. Figuratevi dunque come trattassero i conquistati!

Al Machiavelli che in un capitolo dei Discorsi sulle Deche di Tito Livio aveva vagheggiato l'idea d'una grande Repubblica italiana, il Guicciardini obbiettava, nelle sue Considerazioni, che ciò sarebbe stato a vantaggio d'una sola città e a rovina delle altre, dappoichè repubblica non concede il benefizio della sua libertà “a altri che a' suoi cittadini propri„, mentre la monarchia “è più comune a tutti„. Tal contrasto, sagacemente notato dallo statista fiorentino, si trova espresso, con singolare vivezza di passione, nell'ultimo scorcio del secolo decimoterzo da un rimatore politico, il Saviozzo da Siena, in una canzone da lui composta a laude di Giovan Galeazzo, duca di Milano, la quale incomincia:

Novella monarchia, giusto signore,

Clemente padre, insigne, virtuoso,

Per cui pace e riposo

Spera trovar la dolce vedovella....

Niuno oserebbe affermare che il desiderato sovrano meritasse tutti quegli epiteti; ma è certo che il poeta senese esaltava principalmente in lui l'avversario degli odiati Fiorentini. E poichè i Fiorentini stessi avevano sempre in bocca la parola libertà, e aggregando nuove città al loro dominio non si vantavan già (come faceva Antonio Pucci, cantor popolare e trombetta del Comune) di averle recate al loro mulino, ma affermavano di averle ridotte in libertà, il Saviozzo invocava la giustizia e la vendetta di Dio contro quel

detestabil seme

Nimico di quïete e caritade

Che dicon libertade

E con più tirannia ha guasto il mondo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Costor coi loro inganni han messo al fondo

Già le cose di Dio

E conculcato quasi ogni vicino.

. . . . . . . . . . . . . . .

Ch'el sangue fiorentino

Purghi ogni sua più velenosa scabbia

E noi siam franchi da cotanta rabbia!

La voce del rimatore politico è avvalorata da due ben più gagliarde, levatesi già al principio e verso la metà dello stesso secolo, quelle di Dante e del Petrarca. L'uno, imprecando anch'esso, ma con tutt'altro animo, alla sua città, che gli si era fatta matrigna, e predicendole grandi sventure, le faceva intendere come le terre soggette, non meno che i nemici, le augurassero ogni male:

Tu sentirai di qua da picciol tempo,

Di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

E a tutti predicava in ogni forma, secondo il suo ideale politico, fraterna pace e giustizia. L'altro similmente lamentava, tra le peggiori piaghe d'Italia, la folle superbia di soprastare e la cupidigia di taglieggiare i vicini più deboli; per le quali imprese gli Stati italiani, quando fu scritta la canzone (cioè secondo ogni probabilità fra il 1344 e il 45) solevano già adoperare le armi mercenarie delle soldatesche di ventura:

Qual colpa, qual giudicio, o qual destino

Fastidire il vicino

Povero, e le fortune afflitte e sparte

Perseguire, e in disparte

Cercar gente e gradire,

Che sparga 'l sangue e venda l'alma a prezzo?

A queste testimonianze, tolte, come vedete, da varii momenti del periodo storico di cui nel presente anno vogliamo intrattenervi, ne potrei aggiungere molte più intorno al furore delle sette, alle mutabilità dei provvedimenti, ed agli altri mali che straziavano i Comuni. Ma me ne astengo, poichè non bisogna abusare di nulla, neanche dei versi dei migliori poeti; tanto più che vorrò pure citarvene altri in altre occasioni, pensando che vi riesca gradita, com'è utile e buona, simil maniera d'illustrare i casi storici coi documenti della letteratura contemporanea: al che giovano non meno delle opere dei dotti ingegni, le leggende e i cantari fatti pel popolo da rimatori mediocri e spesso ignoti. Ma non vo' farvi credere d'essere andato io a scovarli dai vecchi codici dove erano sepolti; a tale studio dettero impulso fra noi il D'Ancona, il Bartoli, il Carducci; e dietro a loro una eletta schiera di giovani che alla lor volta sono già diventati maestri, quali il Casini, il Frati, il Mazzoni, il Medin, il Morpurgo, lo Zenatti, e mi piace di ricordarli per debito di gratitudine.

La vita italiana nel Trecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1891

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