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ROMA E IL PAPATO NEL SECOLO XIV

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DI

FRANCESCO BERTOLINI

Il secolo XIV rappresenta nella storia italiana un'epoca di grandi contrasti. Mentre, da un lato, esso ci fa assistere alla decadenza delle istituzioni feudali e gerarchiche del medio evo; dall'altro, ci offre lo spettacolo della risurrezione della coltura antica, che credevasi estinta per sempre. Il papato e l'impero, queste due grandi creazioni del genio latino, sono essenzialmente mutate da ciò che erano state nel passato. Le nazioni cristiane ripudiano tanto la teocrazia papale, quanto l'autocrazia imperiale, come ripudiano ogni potere che pretenda all'universalità. Un sentimento nuovo le investe, che a poco a poco assume la gravità di un bisogno indeclinabile: egli è di vivere ciascuna a sè, indipendente da ogni potestà straniera.

Il momento era solenne per la patria nostra. Trattavasi di sapere, se nella rovina delle due grandi istituzioni, che furono opera sua, sarebbe pur essa stata travolta, ovvero se il suo genio sarebbe stato capace di crearle una nuova missione nel mondo in servizio della civiltà e del progresso umano.

I sintomi erano sinistri: l'imperatore e il papa invocati da lei, affinchè accorressero in suo soccorso per arrestare l'opera deleteria delle fazioni, si mostrarono impotenti di guarirla da' suoi mali, come lo erano di risorgere dall'avvilimento in cui essi stessi erano caduti. In questo momento, in cui pareva che un lenzuolo funebre dovesse stendersi su la misera Italia, e chiudere per sempre il libro della sua storia, il suo genio la rianimò a vita nuova, e le creò una missione di civiltà, che le fruttò per la terza volta la egemonia morale sull'Europa. Codesta missione fu il rinnovamento della coltura antica, che schiuse alle genti cristiane nuovi ideali, facendole assurgere alla libertà del pensiero, che si svolse poi in libertà civile.

Per grande sventura, mancò all'Italia l'applicazione alla vita reale della libertà del pensiero; di maniera che, mentre essa stava operando il suo rinnovamento letterario e artistico, fu vista lasciarsi novamente mettere in ceppi dalle genti straniere, ch'essa avea intellettualmente rigenerate.

Così si aperse all'Italia una nuova èra di servitù, la quale non dovea chiudersi che all'età nostra. In questa nuova missione serbata all'Italia dal suo genio, Roma non poteva conservare il primato tenuto nel passato. La metropoli del mondo cristiano, da cui aveano avuto origine le due istituzioni cosmopolitiche dell'impero e del papato, traversava allora una crisi che minacciava di seppellirla nell'oblio, al pari di un tempio rimasto senza culto e senza sacerdozio. Essa era, infatti, rimasta senza il papato, che era la sua anima, la sua vita; e l'impero non le si faceva vivo fuorchè per comprovare la propria impotenza e ignominia.

Ma, anche indipendentemente da questo suo stato anomalo, Roma non possedeva alcuna qualità che la rendesse idonea ad essere sede della coltura classica risorta. Essa era sempre nel pensiero universale la metropoli necessaria della cristianità: essa poteva quindi aspirare ad essere chiamata la nuova Gerusalemme celeste:

E sarai meco senza fine cive

Di quella Roma onde Cristo è Romano;

Purg., XXI.

ma non avea alcun titolo per tenere il primato nella nuova signoria, che l'Italia era chiamata ad esercitare sull'occidente. E come avrebbe potuto una città, la cui vita parve per secoli andare assorbita dal papato; una città, che pur nel papato personificava la fede cristiana, così da poter quella far dire al poeta:

O Sommo Patre, duca e Signor mio!

Se Roma pere dove starajo io?[2];

come avrebbe potuto, diciamo, tale città essere la sede di una coltura che osava lacerare il velo mistico della fede, venerare gli eroi, i poeti, i filosofi dell'antichità pagana, colla stessa fervida devozione con cui la cristianità avea per lo innanzi venerato i martiri, gli apostoli e i padri della Chiesa, e accogliere nella sua civiltà lo spirito pagano?

Questo titolo che mancava a Roma, di dirigere la nuova coltura, era posseduto da Firenze, vera rappresentante del genio nazionale italiano, che si fe' persona in Dante Alighieri. Firenze, potente per operosità civile e per vita intellettuale, e sopratutto fornita di genio politico, potè difendere e conservare la libertà più a lungo delle sue sorelle italiane. La sua resistenza alle armi di Enrico VII, non solamente fu un grande atto di valore, ma ancora di patriottismo. Da quel tempo, Firenze fu degna di essere la rappresentante dell'indipendenza e dell'onore nazionale. Matteo Villani, pieno di entusiasmo per quella difesa eroica, scioglie un inno al guelfismo italiano. “E di vero, la parte guelfa, scriv'egli, è fondamento e rocca ferma e stabile della libertà d'Italia, e contraria a tutte le tirannie.„

Ma il risveglio della coltura classica non è il solo servigio reso dal secolo XIV alla civiltà europea. Esso diede pure il primo colpo, e fu letale, al grande edifizio gerarchico eretto dalla Chiesa, e dal quale essa dettava legge al pensiero e alla coscienza delle genti cristiane. La critica filosofica e il diritto pubblico alzarono allora per la prima volta il capo, e precorrendo il mistico suono della tromba di Gerico, sciolsero il pensiero dalle pastoie teocratiche a cui il medio evo avealo asservito.

Il concetto civile della monarchia divenne il manifesto del diritto pubblico e il simbolo di una generazione riformatrice, che tendeva ad affrancarsi dalle strettoie della gerarchia feudale. Novamente, come nel passato, la società si divide nei due campi del papato e dell'impero; ma il concetto che anima i seguaci di quest'ultimo è del tutto mutato. I monarchici non sono più solo conservatori, essi sono anche rivoluzionari; imperocchè, mentre combattono per l'antica e sacra potestà imperiale, pugnano ancora per la libertà del pensiero e la indipendenza delle nazioni. A questa nuova lotta presero parte due figure titaniche, che le impressero la loro grande personalità. Da un lato, Tommaso d'Aquino scese a sostenere il principio guelfo della Chiesa, e nella teologia e nella scolastica sostenne l'idea della monarchia di Cristo, che avviliva la potestà regia, facendole conseguire dal papato un fondamento nazionale e giuridico, nello stesso modo che il corpo umano riceve dallo spirito la sua vitalità e dall'intelletto il suo impulso. Dall'altro lato, Dante Allighieri combattè quell'idea, opponendole nella sua Monarchia la dottrina della inalienabile integrità dell'impero e della missione di signoria universale data da Dio al popolo romano. L'impero, indestruttibile nella sua dignità divina, dovea diventare il cosmo della legge, del bene civile, della libertà, della pace e della civiltà. Rimesso l'impero nel suo antico diritto, il papato veniva pure restituito alla sua missione storica, che era di guidare le anime alla conquista del paradiso. Era naturale che la filosofia, risorgendo, prendesse di mira codeste istituzioni, che eran lì sotto gli occhi di tutti, e determinavano, per così dire, la vita di ogni giorno delle nazioni d'occidente. Bonifacio VIII e Giovanni XXII colle loro intemperanze diedero impulso a codeste investigazioni, e promossero il trionfo del nuovo giure sul dogma di Roma. Da questo trionfo uscì fuora la condanna pronunciata dalla scienza e dalla storia del potere temporale dei papi. Questa condanna rimase allora senza sanzione: ma il mancato eseguimento non infirmava l'autorità incontestabile del tribunale da cui era emanata. La stessa teologia apprestò le armi per convalidarla. La lotta che nel 1322 si accese fra Domenicani e Minoriti, è il preludio di quella, che, da lì a due secoli, trasse mezza Europa fuori del grembo della Chiesa, e fece consacrare dal diritto pubblico europeo il principio della libertà di coscienza. In questa lotta, i figli del monaco di Assisi compariscono quali precursori dei protestanti: infatti, le dottrine riformiste, che più tardi ebbero per apostoli Giovanni Wicleff, Giovanni Huss e Martin Lutero, erano state, già due secoli prima, proclamate dai Minoriti. Sotto la presidenza del generale del loro ordine, Michele da Cesena, quei frati aveano, l'anno 1322, nel sinodo di Perugia, dichiarato formalmente, che chi affermava Cristo e gli Apostoli non avere posseduto proprietà alcuna nè personalmente nè in comunanza, quegli non diceva eresia, anzi professava un principio di fede severamente cattolico. Le sacre scritture furono chiamate a somministrare le prove della coraggiosa dichiarazione: e fu da quel tempo, a cagione delle nuove investigazioni teologiche, che divennero popolari i motti evangelici: Regnum meum non est de hoc mundo: reddite quæ sunt Cæsaris Cæsari: Nemu militans Deo implicat se sæcularibus negotiis. Non seguiremo la polemica che allora si accese fra' teologi pel fatto di questa dichiarazione, nella quale, fra le molte cose strane, inspirate dalla passione, furono pure uditi dei grandi veri. Uno di questi affatica anche oggi lo spirito delle genti cristiane, perocchè gli sia mancata la dovuta soddisfazione. Lo pronunciò Marsilio da Padova, in quella sua celebre protesta, nella quale affermava, “non essere la gerarchia dei preti, sì bene la comunità di tutti i fedeli ciò che costituisce la vera Chiesa.„

La polemica rimase allora circoscritta fra' teologi; chè i popoli, non ancora usciti dalle tenebre della barbarie medievale, non potevano interessarsi a cose che non capivano. Ed estranea ad essa rimase pure Roma, sebbene vi fosse più direttamente interessata. Ciò fu una grande sventura per l'Italia; imperocchè, non mai si presentò una occasione tanto favorevole per far iscomparire senza scosse e senza turbamenti il poter temporale, siccome allora. In luogo di riguardare la lontananza dei papi siccome una liberazione propria, i Romani la considerarono come una calamità: onde stemperaronsi in lacrime e in querele per far tornare nell'abbandonata basilica di San Pietro il successore dell'Apostolo, nel quale vedevano più volentieri una miniera da sfruttare, che un despota da abbattere. Tutti erano concordi in questo sentimento; perciò i settant'anni della dimora dei papi in Avignone rimasero sterili per la romana libertà. Più che sterili, e' furono ad essa addirittura nefasti. Perchè, in quel periodo andò distrutta la potenza delle case patrizie che era stata l'unico freno del despotismo papale. Quelle case, già colpite nelle loro ricchezze dalla lontananza della curia ecclesiastica, lo furono nella stessa loro esistenza dall'odio popolare suscitato dalle violenze loro. I settant'anni passati dai papi in Avignone, furono per Roma settant'anni di guerre civili combattute fra nobiltà e popolo. Il Petrarca, che avea l'anima piena di entusiasmo e di ammirazione per Roma, così da poter dire, che la vista della città eterna gli avea destato la meraviglia, non già che essa avesse dominato il mondo, sì bene che tanto tardi fosse giunta a dominarlo; allo stesso cardinale Colonna, al quale manifestava questo suo pensiero, tesseva il seguente quadro dello Stato di Roma durante l'assenza dei papi. La lettera è del 1335.

“La pace è da codesti luoghi, non so per qual delitto del popolo, per quale legge celeste, per qual destino o quale influsso di costellazioni, bandita. Poichè, vedi! Il pastore vigila qui armato nei boschi, più temendo i ladroni che i lupi: loricato è qui il colono, che adopera la lancia per pungere il dorso dell'indocile toro; qui nulla si tratta senz'armi. Fra gli abitanti di questa contrada non regna sicurezza, non pace, non umanità; ma guerra, odio, e tutto ciò che assomiglia ad operazione di mali spiriti„ (Rer. Fam. Ep. II, 12).

Chi avesse voluto trarre il prognostico della vita di Roma in quei 70 anni dalle promesse fatte a Dio dai Romani all'inizio di quel periodo, avrebbe dovuto credere che l'epoca di Numa fosse scesa dal suo regno mitico per diventare nel secolo XIV una realtà storica. Ma quando mai furono visti i voti innalzati al cielo in un momento di terrore, vincolare le coscienze dei popoli dopo che il terrore è scomparso e dissipata è la tempesta che lo avea fatto nascere? — Nella notte del 6 maggio 1308, la chiesa madre della cristianità, la basilica Lateranense era andata distrutta da un incendio. Quella rovina parve l'annunzio di una punizione celeste che stesse per colpire la città. L'assenza del papa dalla sua legittima sede, concorreva a raffermare quel lugubre giudizio. In mezzo a tanto abbattimento degli animi, le parti nemiche si riconciliarono; e tutti, nobili e popolo, si posero all'opera con grande fervore per isgombrare il suolo dalle rovine e per procacciare materiali da costruzione intanto che le processioni dei preti si aggiravano mestamente salmodiando per le vie della città sgomentata.

Erano passati appena pochi mesi da quel disastro, che i Romani si erano scordati affatto del loro voto, e coloro che aveano promesso di vivere in consorzio fraterno, erano tornati novamente alle prese fra loro: da un lato, le famiglie Orsini e Colonna, per mutua gelosia e insaziabile cupidigia; dall'altro, la nobiltà e il popolo, per antagonismo sociale, moveansi aspra guerra. La città pareva diventata un campo di battaglia; e mentre i nobili dall'assenza del papa traevano argomento di nuova baldanza, il popolo faceva esso pure pro' di tale anarchia, opponendo alla nobiltà una specie di Comune democratico. Ai due senatori che rappresentavano il ceto privilegiato, esso contrappose pertanto una rappresentanza delle corporazioni delle arti, e chiese al papa che sanzionasse il nuovo governo. Clemente V, non potendo per le nuove condizioni del papato, sedare le discordie romane, si appigliò al partito più profittevole alla Curia: egli diede, cioè, ragione alla parte popolare, lasciando ai cittadini la facoltà di darsi il governo che loro meglio talentasse. Così, per opera di un papa francese e residente fuori d'Italia, Roma ebbe nelle età di mezzo le sue prime libertà. Il popolo non guardò con quale animo fossero quelle concesse, come non presentì che il successo delle discordie cittadine sarebbe stato la rovina d'ogni libertà. Con grande letizia adunque s'inaugurò il novello Comune, il Comune democratico, e i due senatori cedettero il posto al magistrato popolare.

Mentre questo evento si compiva in Roma, un grido di gioia echeggiò dalle rive del Po a quelle del Tevere. La maestà dell'impero romano, per sessant'anni invocata invano, compariva nel 1310 improvvisa, dispensatrice di pace alle genti italiane. Personificava il lussemburghese Enrico VII. “Egli veniva, scriveva allora Dino Compagni, a metter pace come fosse un agnolo di Dio„; egli veniva, scrivea il divino poeta di nostra gente, a compiere i destini provvidenziali del popolo romano, a visitare e a consolare la desolata Roma:

“Vieni a veder la tua Roma che piagne

Vedova e sola, e dì e notte chiama:

Cesare mio, perchè non m'accompagne?„

Purg., VI.

Non mai un principe suscitò al suo comparire tante speranze nella gente nostra, come non mai a quelle era mancata ogni ragione che le giustificasse. Ma non era la persona del sovrano che qui si acclamava e s'invocava; sì bene era la maestà dell'impero per lui fatta rediviva; di quell'impero, che l'Allighieri, illustrandolo nella conservazione della tradizione romana, associava al rinnovamento d'Italia e all'abbattimento del poter temporale della Chiesa.

Quest'inno che l'Italia scioglie all'impero risorto, è un preludio anch'esso del Rinascimento che sta per ispuntare. Il quale ha già vivo il suo vate e il suo padre ancora. Egli è Francesco Petrarca. Nella mente di lui, come in quella di Dante, l'impero consiste nel popolo romano; ma la storia di esso popolo non è più pel Petrarca, come lo fu già per Dante e per gli scolastici, una serie di predestinazioni provvidenziali, di mitiche adombrazioni di una futura città di Dio; sì bene è la più poderosa manifestazione della civiltà umana; ond'egli ne trasse ragione di maggiore abominio dal medio evo — i cui rappresentanti, coetanei suoi, gli parevan già cadaveri puzzolenti — e di pronostico di una nuova età, onde sentiva in sè l'ideale, e ne era così penetrato da trasfonderne la coscienza ne' suoi contemporanei. Quando il popolo romano, lasciate per un istante le battaglie civili, si affollò intorno al Petrarca recandogli corone di fiori, e i Colonna e gli Orsini imposero ai loro odii la tregua di Dio per deporre insieme la ghirlanda d'alloro sul suo capo, era la religione dell'ingegno e della scienza che ricevea il suo primo culto, era il Rinascimento che ricevea il primo saluto dal mondo.

Ma il popolo romano, nel rendere quel saluto, non ebbe la coscienza della grandezza dell'atto che compiva: tanto è ciò vero, che niuno meno di esso approfittò della nuova luce di civiltà che il Rinascimento diffuse nel mondo. Codesta antinomìa esistente fra il concetto altissimo in cui il popolo romano era tenuto, specie in quella età, e l'effettivo merito suo, è dal Petrarca spiegata per mezzo dell'ignoranza di esso popolo della propria storia. Secondo il Petrarca, Roma solo allora risorgerebbe, quando giungesse a riconoscere sè medesima. Ma non era solo il riconoscimento proprio che a Roma mancasse: mancavale sopratutto un organamento sociale omogeneo, senza il quale il patriottismo diventa fazioso e la concordia impossibile. Le classi in cui era partita la cittadinanza romana, portavano i soliti nomi di nobiltà e popolo; ma questa nobiltà e questo popolo sentivano e agivano oppostamente l'una all'altro; imperocchè avessero contrari gl'interessi e gl'intenti. Già il titolo di principi, che i nobili si arrogavano, dimostrava lo spirito di casta imperante in seno ad essi, e fatto ora più potente dall'assenza dei papi. In seno alla nobiltà tre famiglie sopratutto spiccavano per potenza e per orgoglio: i Colonna, gli Orsini e i Gaetani. Mezza Roma stava in potere di costoro; e, mentre essi riempivano la città di loro violenze, le prime due famiglie offrivano lo spettacolo di un odio fanatico, che dalla ragione di parte traeva il pretesto, e dalla cupidigia disfrenata l'impulso. Di fronte alla nobiltà stava il popolo diviso in corporazioni d'arti e mestieri; ma lo scarso sviluppo avuto da queste, non permise al popolo romano di opporre alla nobiltà associazioni ordinate e poderose per il numero e l'agiatezza dei membri; onde quella potè avere sul popolo facile ragione. Codesto stato di disgregamento sociale diede i suoi frutti nel periodo dell'assenza dei papi. Ei sembra che più popoli vivessero in Roma, anzichè un popolo solo; tanto è piena di incoerenze e di contraddizioni la condotta sua nelle diverse contingenze in cui la città venne a trovarsi. Tutto dunque in Roma è discordia: discordia fra nobiltà e popolo, e fra ciascuno dei due ceti. Come era possibile fondare in tale condizione di cose la libertà romana?

Vediamo ora in atto questi elementi discordi. Primo a sperimentarli fu Enrico VII. Il principe, invocato in tutta Italia come un liberatore, trova in Roma il primo contrasto. Mentre il popolo lo acclama, i nobili lo combattono. Roma è trasformata in un campo di battaglia; le sue vie sono fatte rosse di sangue; sembra che satana le abbia invase: e in mezzo alla battaglia civile, Enrico ricevea la corona di Costantino dalle mani di due vescovi, nella basilica Lateranense: cerimonia non mai vista in quel luogo e con tali capi. E se l'assenza del papa toglieva ad essa il suo maggiore prestigio, le macerie della basilica non ancora rimosse, simboleggiavano la rovina che fatalmente incombeva su l'impero feudale.

Partito Enrico, la battaglia civile continuò fra nobili e popolani; i primi cacciano dal Campidoglio il vicario imperiale, e v'insediano Francesco Orsini e Sciarra Colonna quali senatori. Quei due nomi, uniti insieme nel supremo magistrato, doveano essere simbolo di pace fra le due famiglie rivali; ma fu la pace di un giorno. Guastolla la riscossa popolare, nella quale i due senatori furono cacciati dal Campidoglio, e la somma delle cose fu affidata a un capitano del popolo, Jacopo Arlotti, assistito da un consiglio di 26 boniviri, rappresentanti i 13 rioni della città. Questa vittoria del popolo dovette essere di ben grande momento, se il nuovo capitano potè trarre carichi di catene davanti al suo tribunale i capi delle famiglie nobili, e giudicare senz'appello di loro sorte. Alla ragione di Stato che domandava estremo rigore, prevalse la compassione inspiratrice di clemenza, e i prigionieri uscirono da quelle strette col solo sfratto da Roma. Il rigore risparmiato ai nemici ebbe uno sfogo selvaggio, d'altra parte. Un decreto dell'Arlotti ordinava la distruzione dei monumenti e dei palazzi posseduti dai nobili. Pareva si fosse tornati dieci secoli addietro, quando su Roma pagana infuriava il fanatismo dei nuovi cristiani; e come quelle rovine avean inspirato le imprecazioni dell'ultimo poeta romano Claudio Claudiano, così le rovine nuove inspirarono l'invettiva non meno legittima del primo storico del Rinascimento, Albertino Mussato, da Padova. Se tutti i monumenti romani consacrati alla distruzione non scomparvero allora, ciò fu dovuto alla loro grande solidità; e andò salvo, fra gli altri, per questa cagione, Castel Sant'Angelo.

Male auspicato era il plebiscito rinascente fra quelle rovine. Esso infatti non veniva, come il vecchio plebiscito tribunizio, a proclamare la egualità civile e politica fra la nobiltà e il popolo, la quale era stata la base di granito su cui era sorto il dominio mondiale dell'antica Roma; sì bene veniva ad affermare l'impotenza di Roma medievale, di vivere indipendente e libera. E dappoichè il papa l'avea abbandonata, il popolo invocava il braccio dell'impero, e chiamava l'imperatore Enrico a salire il Campidoglio da trionfatore, e a restarvi, tenendosi pago il popolo di essere riconosciuto come autore del nuovo principato: Cæsarem evocandum in urbem, scrive il Mussato, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe recogniturum.

Ricordo troppo amaro avea Enrico portato con sè da Roma, perchè potesse accogliere l'invito che eragli fatto. Nè s'ingannò disconoscendo di quello la serietà e l'efficacia. Infatti, colla stessa rapidità ond'erasi compiuta poc'anzi la rivoluzione democratica, la reazione dei nobili atterrava, sulla fine di febbraio del 1312, il reggimento popolare, non curandosi del riconoscimento che quello avea avuto da Avignone. Le parti sono ora invertite; il giudice dei nobili, Jacopo Arlotti, è tratto in prigione, e i nobili da lui banditi riprendono il seggio senatorio.

La lunga assenza del papato accresceva intanto le angoscie di Roma. Venuti meno alla città i profitti della curia, la miseria afflisse le classi popolari, incapaci di compensare col lavoro i redditi mancati. La miseria del popolo diè impulso al rimbaldanzire della nobiltà faziosa; la quale trovò ora nello stesso ceto sacerdotale un emulo alle sue ribalderie. In una epistola indirizzata dai Romani a papa Giovanni XXII, è fatta una nera dipintura dei costumi dei giovani ecclesiastici. Essi scorazzavano, diceva lo scritto, di notte per le vie con la spada in pugno, commettendo ogni fatta di enormezze: per tabernas et loca alia inhonesta cum armis evaginatis per urbem.... homicidia, furta, rapinas commictunt.

Unico rimedio a codesti mali riguardavasi da tutti il ritorno dei papi in Roma; e legazioni su legazioni furono mandate dai Romani ad Avignone per sollecitare papa Giovanni a fare ritorno nella sua legittima sede. Non ascoltati, e' gittaronsi nelle braccia del suo nemico Lodovico il Bavaro; il quale allora appunto veniva in Italia per strappare dalle mani di usurpatori stranieri, com'egli diceva, i diritti dell'impero e la signoria del mondo. “Nell'aprile del 1327, i Romani, scrive Giovanni Villani, si levarono a rumore e feciono popolo.„ Impadronitisi gl'insorti di Castel Sant'Angelo, cacciarono dalla città i partigiani del re angioino e fondarono un governo democratico, eleggendo capitano del popolo il ghibellino Sciarra Colonna, quel desso che, 25 anni prima, avea in Anagni puntata la sua spada al petto di Bonifacio VIII. Giovanni XXII, preso da furore, bandisce una crociata contro il Bavaro; e questi fa proclamare dal popolo romano, radunato in parlamento nella piazza di San Pietro, la deposizione del pontefice imputato di eresia. Ma la eresia di che papa Giovanni era colpevole davanti ai Romani, e per la quale essi eransi levati contro di lui e aveanlo deposto, era cosa affatto diversa da quella dichiarata dall'umanista padovano Marsilio nella sua celebre invettiva: la colpa del pontefice era di dimorare fuori di Roma e di rifiutarsi a farvi ritorno. Vi era tanto poco sentimento religioso in quella levata di scudi, che in quei giorni stessi di fermento popolare, un cappellano del papa, Jacopo Colonna, potè entrare in Roma accompagnato da quattro uomini mascherati, leggere pubblicamente la sentenza di scomunica lanciata dal papa contro il Bavaro, e andarsene poi da Roma, senza che alcuno lo molestasse. Conclusione necessaria di questa lotta fu la creazione di un antipapa. Sortì eletto, con procedimento affatto nuovo, un monaco di Corbara, che prese il nome di Nicolò V.

Ma tutto questo dramma effimero svanì, appena che Lodovico fu partito da Roma, menando seco l'antipapa. La sua partenza era parsa piuttosto una fuga. Un'impresa tentata con esito infelice contro Napoli gli avea fatto perdere ogni prestigio presso i Romani; e quando egli se ne andò, “lo ingrato popolo, scrive Giovanni Villani, gli fece la coda romana, onde il Bavaro ebbe grande paura ed andonne in caccia e con vergogna„. Così l'impero, che l'Allighieri avea poc'anzi magnificato nella sua idealità sublime, cadeva ora in una realità ignominiosa. I Romani divisero quell'ignominia. Il popolo, fatto nuovo parlamento, abiurava la fede data al Bavaro e all'antipapa, e faceva piena sottomissione al papa di Avignone. Tornarono ora gli antichi malanni, rincruditi dalle nuove delusioni, a tormentare la misera città. La quale consumavasi nella inopia e nella oscurità col capo rotto ed esangue, intanto che nella remota Avignone il vecchio pontefice, dimentico di lei, ammassava tesori. Alla sua morte, trovaronsi nel suo scrigno diciotto milioni in tante monete d'oro e sette in oggetti preziosi. Questo tesoro dà ragione della povertà onde Roma era allora tribolata.

Ma la morte del pontefice avaro non pose termine e nemmeno temperò i mali della misera metropoli. Il nuovo papa, Benedetto XII, invece di restituirvi il sommo pontificato, inalzava in Avignone un palazzo pontificio di dimensioni colossali, quasi che esso fosse destinato a ospitare perpetuamente i papi. Questo Vaticano avignonese dura anche oggi nella sua grandiosità, coi suoi merli e colle sue torri, ma muto e vuoto come un sepolcro di Faraoni; e pure, chi sa dire, se esso rimarrà morto e vuoto per sempre? O che il suo risorgere e ripopolarsi di nuovi gerarchi della Chiesa, non sia scritto nei fatali ricorsi della storia?...

Sotto l'impressione di questo abbandono del papato che pareva definitivo, il popolo romano, a segno di protesta, si levò un'altra volta a ribellione: “feciono popolo„, secondo la frase del Villani. Questa rivolta del 1338 si distingue dalle precedenti pel proposito degl'insorti di romperla coi papi per sempre. E come i Romani antichi, nell'atto di scrivere le patrie leggi, aveano interrogato la sapienza greca; così i loro lontani nipoti, nell'atto di mutare gli ordini dello Stato, interrogarono la sapienza dell'Atene italica, e v'inviarono legati, perchè studiassero quegli Ordinamenti della giustizia, coi quali Firenze avea del tutto fiaccata la potenza dei grandi. Ma ben altra era la condizione delle arti fiorentine da quella delle romane! Alla prima prova, si sentì l'inefficacia della riforma, e papa Benedetto potè proseguire tranquillamente la fabbrica del Vaticano avignonese, e nominare a Roma novamente i senatori!

Passarono tre anni, e la scena cangiò un'altra volta. Ora il cambiamento fu più strepitoso per la comparsa di un personaggio, che seppe per un momento trasfondere nel popolo l'entusiasmo che lo animava, e con le sue novità riempì di stupore l'Occidente. Egli è Cola di Rienzi; personificazione viva di un'età che sta a cavaliere di due mondi, il barbarico che si estingue e il classico che rinasce. Ciò spiega le antinomìe che si manifestano nel famoso tribuno; le quali sono così spiccate e recise, da far credere che in lui due persone opposte coesistessero: l'una che intuisce e crea, l'altra che travede e distrugge la stessa opera sua. Quest'opera non era però tutta uscita dalla mente di Cola: gliene avea dato la prima idea Francesco Petrarca, con lo avere posto su la cima dell'ideale del popolo italiano il concetto e il nome d'Italia nazione. E Cola, traducendo in atto la grande idea, la guastò con lo associare al disegno della unificazione politica d'Italia con Roma a centro, il concetto della monarchia universale foggiato in iscenate simboliche e teatrali.

Nessun momento, a guardare le cose come apparivan di fuora, presentavasi più propizio per realizzare il grande pensiero del Petrarca: il papato, cagione secolare delle divisioni italiane, erasi condannato all'impotenza con lo abbandono della sua legittima sede: l'impero, ferito a morte nella persona di Enrico VII, mandava con Lodovico il Bavaro e con Carlo IV l'ultimo rantolo. “Le due luci del mondo, l'impero e il papato, scriveva allora il Petrarca, sono sull'estinguersi; le due spade stanno per ispuntarsi.„ Il regno di Napoli, grande cittadella del guelfismo italico e l'arsenale del papato, era, colla morte del re Roberto, caduto in uno stato di sfacelo; onde niun ausilio poteva più il papato aspettarsi da esso: le città italiane, in lotta coi loro tiranni, aspettavano un liberatore: e questo liberatore parve per un momento che comparisse nella persona di Cola da Rienzi; cui l'uomo celebrato allora in tutto il mondo come un genio, avea salutato “Camillo, Bruto, Romolo redivivo„; e togliendo ogni misura alla sua ammirazione per l'eloquente novatore, avealo perfino chiamato un dio. “Quando ripenso, scrivea il Petrarca a Cola, il gravissimo e santo discorso che mi tenesti l'altro ieri su la porta di quell'antica chiesa, parmi di avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo.„

Ma chi, con occhio perspicace, avesse guardato dentro il cervello di quest'uomo, anzichè arrestarsi alla sua parola ammaliatrice; chi avesse inoltre rivolta l'indagine alla cagione ispiratrice dell'entusiasmo di Roma per lui; l'incanto magico da cui la città pareva rapita, sarebbesi rivelato cosa del tutto effimero. Una tale indagine avrebbe, infatti, dimostrato, che tutto l'edifizio innalzato da Cola poggiava sull'arena. Nè poteva accadere altrimente, non essendo il fondatore suo nè capitano, nè uomo di Stato; egli era privo, cioè, delle due qualità necessarie, tanto a fondare gli Stati, quanto a guidarli e a rimetterli sulla via della civiltà e del progresso, quando se ne siano allontanati.

Ciò spiega lo squilibrio esistente fra il pensiero di Cola e la sua azione: quanto è fecondo e animoso il primo, altrettanto è sterile e paurosa la seconda. Piena la mente di concetti tratti dall'antichità romana, e sformati dalle idee fantastiche del suo tempo, ei si scoraggiava e perdeva quasi il lume dell'intelletto, tosto che entrasse nella vita reale del mondo. Ciò spiega ancora com'ei fosse preso dalle vertigini, appena che dall'umile stato in cui era nato, si vide portato su dalla fortuna. La vanità s'impadronì del debole suo spirito, così da neutralizzare in lui ogni nobile sentimento. Più che i titoli grandiosi assunti e gli apparati di pompa onde si fe' circondare, vi è un fatto che dimostra l'influenza sinistra che la vanità esercitò sul suo carattere. E il fatto fu l'offesa ch'ei recò all'onore di sua madre per farsi credere di origine regale, quando invece era nato da un taverniere. La lettera ch'egli scrisse a Carlo IV, l'agosto 1350 dal carcere di Praga, in cui, per riacquistare la libertà, mise fuora la fiaba di essere figlio di Enrico VII, accusando sua madre — Quæ invencola erat et non modicum speciosa — di avere concesso ad Enrico VII, al tempo dei tumulti romani suscitati dalla sua coronazione — nec minus forsitan quam sancto David et iusto Abrahe per dilectas extitit ministratum; — questa lettera, dico, getta sul carattere di Cola un'ombra più sinistra che non potessero fare tutti gli errori suoi accumulati insieme. Fra questi errori, ve n'è uno che fu cagione principale della sua rovina. Esso fu l'associazione della sua opera rivoluzionaria con la teologia. Il fondamento mistico sul quale il tribuno fissò il nuovo Stato romano consisteva nella presunzione ch'esso fosse opera della Spirito Santo. Da ciò il titolo da lui assunto di candidatus spiritus sancti, che, per via di auto-promozioni, dovea condurlo a quello eccelso di secondo Gesù Cristo, adducendo a ragione del raffronto superbamente insano il fatto, che, come il Nazareno, in età di 33 anni, incoronato di vittoria salì al cielo, vinti i tiranni dell'inferno e liberate le anime; così egli nella età stessa, avea abbattuto, senza sfoderare la spada, i tiranni di Roma, ed erasi fatto incoronare colla corona tribunizia come unico liberatore del popolo. E anche in questo campo mistico, che, per la sua natura, meno si prestava ad antimonìe, Cola trovò modo di portarvi la sua duplice personalità. Perchè, scordando egli che la sua qualità d'inviato di Dio gl'imponeva sopratutto l'umiltà sotto tutte le forme, praticò l'opposto circondandosi di una magnificenza asiatica, che al titolo stesso di tribuno stranamente contraddiceva. Ma già il nome tribunizio era stato soffocato da una selva di pomposi addiettivi e di complementi, così da essere ridotto a una vera parodia. Ecco infatti come Cola si chiamava nelle pubbliche carte: “Nicolò, per autorità del clementissimo signor nostro G. C., severo e clemente, tribuno di libertà, di pace e di giustizia, e liberatore della sacra repubblica romana.„

Che Cola di Rienzi fosse riuscito, ad onta di queste sue stravaganze, a suscitare un grande entusiasmo per sè, non solo in Roma, ma ancora in tutta Italia, è un fatto codesto che non può mettersi in alcun dubbio. Lo comprova la stessa testimonianza del Petrarca. In una epistola indirizzata al popolo romano, il Petrarca chiamava Cola di Rienzi “nuovo Bruto, maggiore dell'antico„ e invitava i cittadini a onorarlo: “Ma voi, cittadini, diceva il grande poeta, onorate codest'uomo, onoratelo quasi un messo del cielo, un raro dono di Dio, e ponete la vostra vita per la sua salvezza.„ Il popolo non avea bisogno di tale impulso per amare e onorare il suo tribuno. Ma non era lo slancio di un patriottismo nobile e disinteressato inspiratore di codesto sentimento popolare per Cola; era invece la generale miseria del tempo, la quale operava che ciascuno si volgesse a chi pareva promettere lenimento e salvezza. E questa sicurtà, da gran tempo perduta, Roma l'avea per opera del suo tribuno riacquistata: “Allora, scrive il biografo contemporaneo di Cola, le selve si cominciaro a rallegrare, perchè in esse non si trovava ladrone; allora li bovi cominciaro ad arare, li pellegrini a far la cerca per la santuaria, li mercanti a spasseggiare, li procacci.... In questo tempo paura e tremore assalìo li tiranni; la buona gente, come liberata da servitude, si rallegrava.„ Ma quando la clemenza inconsulta del tribuno verso i tiranni fe' da costoro svanire la paura, allora la sicurezza decantata dal biografo scomparve, e con essa cadde il fascino che Cola avea esercitato sul popolo. Da quel momento la fine del tribuno fu segnata. Ora fu messa pure in evidenza l'inettezza assoluta di quest'uomo a far trionfare la rivoluzione da lui suscitata. Dalla più audace impudenza egli passa alla più volgare pusillanimità: e il candidato dello Spirito Santo, che dal suo evento avea dato l'inizio di una nuova êra — liberatæ Reipubblicæ anno primo, — alla prima levata di scudi de' suoi nemici, si ripara in Castel Sant'Angelo, per poter di là, col favore delle tenebre, fuggire da Roma come un malfattore. E non fosse mai più tornato in quella città per lui fatale! Avrebbe risparmiato al popolo romano un crimine codardo, a sè una fine raccapricciante.

E che rimase, si può ora domandare, di questa gran rivoluzione che Cola di Rienzi seppe suscitare nel nome di Roma? Il suo risultamento del tutto negativo ci dimostra che, se l'autore di essa fu troppo minore della colossale impresa, minore di essa fu anche il popolo romano, e con esso tutta la gente italiana d'allora. Un solo dei contemporanei la comprese, e la immortalò, sia con le sue opere latine, sia con quella celebre canzone, che per lungo tempo si era creduto fosse indirizzata a lui, e che, sebbene ad altro personaggio si riferisse, comparisce egualmente come il vaticinio di un grande evento, onde il Petrarca avea piena l'anima, l'Italia, cioè, fatta nazione. Per farlo nascere al suo tempo, il poeta, dopo di avere invano invocato la pace, predicò la guerra, la guerra contro i tiranni di Roma; e invocò “Gesù buono e troppo mansueto„, perchè sorgesse ad abbattere i suoi nemici, che, sotto lo scudo del suo nome, facevano cose obbrobriose. Ma non era scritto nei fati d'Italia che la patria nostra dovesse risorgere in quella lontana età. E profetica fu ancora la canzone Spirto gentil, per quella immagine del “Cavalier che Italia tutta onora„, il quale ha da sedere su 'l Monte Tarpeo, “Pensoso più d'altrui che di sè stesso„. È argomento tuttodì controverso a chi il poeta intendesse alludere con quella immagine, la quale, come attesta il Machiavelli, attrasse e inspirò l'anima entusiasta dell'infelice Stefano Porcari. Ma qualunque sia il personaggio a cui il poeta riferì l'immagin sua, egli è certo che l'Italia, dopo averla cercata invano per lunghi secoli, la trovò finalmente all'età nostra, in quel cavaliere, che, portata sul Campidoglio la spada d'Italia, pronunciò davanti al mondo civile le celebri parole: “qui stiamo e qui resteremo„; compendiate felicemente dal successor suo nell'attributo dato alla Roma libera d'intangibile.

La vita italiana nel Trecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1891

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