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CORRADO CORRADINO — IL VINO NEI COSTUMI DEI POPOLI
Оглавление(Conferenza tenuta la sera del 26 gennaio 1880).
Se il vino non dovesse considerarsi altrimenti che come una bevanda allegra capace di annebbiare la limpidezza talora troppo importuna dell'umano cervello, oppure come il tristo lusinghiero veleno che conduce con inviti da sirena all'ultimo abbrutimento, io non avrei davvero il coraggio, parlando del vino nei costumi, di far assistere il mio gentile uditorio a una lunga sfilata di popoli tutti malfermi sulle proprie gambe. Ma per fortuna, anche trascurando le quistioni economiche e commerciali in cui il vino ha tanta parte, esso ha nei costumi dei popoli una ben altra importanza. E non sarà difficile, per esempio, che noi vediamo brillare un vivo raggio di civiltà nelle sale dei triclinii ove scoppiettano le arguzie umide di falerno dei banchettanti coronati il capo di bianche rose convivali, mentre invece distingueremo chiaramente l'urlo selvaggio della barbarie presso quei popoli che invece di vino bevono strani liquori nelle tazze formate molte volte dal cranio dei nemici vinti in battaglia. Con ciò non voglio già dire — Dio scampi! — che l'uso del vino sia potente criterio a giudicare della civiltà di un popolo; voglio soltanto rilevare un fatto, che cioè presso tutte le nazioni civili l'allegro culto di Bacco par che vada a mano a mano acquistando in raffinatezza e in estensione, tanto che ne risentono l'influenza tutti i costumi e pubblici e privati, tanto che il vario uso del vino giunge persino ad avere non so qual carattere di allegoria, di simbolo, quasi fosse un vero e proprio elemento di civiltà.
Osservatelo questo ilare Iddio, questo ultimo venuto ad assidersi al banchetto dei Numi: Bacco non ci appare soltanto quale ce lo rappresentano alcune statue antiche, col capo coronato di edera e leggermente arrovesciato all'indietro, cogli occhi velati dai vapori di un'ebbrezza voluttuosa; ben presto le sue membra ingigantiscono quasi, si spiegano tutte le forze recondite della sua attività e gli uomini salutano in lui il simbolo della giocondità e della vita. E notate che prima ancora che egli esistesse, era un Dio il vino stesso, Θέοινος, il vino puro era un Dio, Ἄκρατος.
Ma come suole sempre avvenire che dal fatto concreto e sensibile le menti umane tosto assorgono alla astrazione del medesimo, così dai caldi vapori del mosto emerse ben presto netta e spiccata la personalità del Nume, e il giovine Bacco ebbe sagrifici ed altari. La gratitudine umana lo salutò coi nomi più belli: egli e il Dio Toro, sinonimo di forza, e a questo proposito giova ricordare quanto scrive Plutarco nella vita di Licurgo, dell'abitudine che avevano le donne spartane di lavare i propri bambini nel vino per isperimentare la loro forza[III-1] essendo opinione che mentre questi bagni indebolivano vieppiù gli infermicci, afforzassero invece i ben costituiti. Bacco è il Dio salvatore, σωτὴρ, il Dio Mago, Γόης, il Dio medico Ιατρομάντις; e il medesimo Plutarco nella vita di Cesare fa menzione di una malattia da cui era afflitto l'esercito di Cesare, malattia che il grande capitano guarì permettendo ai suoi soldati una solenne ubbriacatura. Da quel giorno, soggiunge il grave storico di Cheronea, i soldati mutarono la complessione dei loro corpi.
Bacco ha ancora sul fronte l'ornamento di due corna potenti, come colui che primo accoppiò i buoi all'aratro; egli e compagno alla Dea delle biade, alla Dea della bellezza e dei piaceri, e non muove quasi passo senza che gli tengan dietro tutte e nove le Muse.
Ora quale altro liquore può vantarsi di aver ottenuto dagli umani onori così solenni?
Che il bisogno di pozioni alcooliche sia stato sentito di buonissima ora, e specialmente presso alcuni popoli, lo prova ad esuberanza la storia: e che strane miscele furono inventate, e a che non si ebbe ricorso per appagare questa necessità di sentirsi, per così dire, aumentata nei polsi la vita mediante bevande spiritose! Taccio della birra che pure può vantare origini così antiche e più forse dello stesso vino: ma ad essa non osò nessuno tributare onori come al liquor della vite, e noi leggiamo ad esempio nell'Edda che se è concesso agli eroi morti in battaglia di tracannare nel Valhalla enormi calici di birra, al solo Odino è dato di esilararsi col vino mesciutogli dalle mani delle belle Valkiri.
È noto a tutti il vino che si traeva antichissimamente e si trae ancora oggidì presso alcuni popoli dall'albero della palma. I Circassi formano un liquore inebriante mescolando il miele con un alcool tratto dai semi di canapa. I Cinesi ne ricavano dal riso; i Tartari dalle carni di castrato e di agnello, e altri popoli da una infinità d'altri ingredienti. Che più? Gli stessi Americani prima che conoscessero il vino, preparavano, al dire degli storici, bevande alcooliche colla mollica di pane masticata, coi semi di grano e con altri prodotti vegetali, e avevano tanto in onore queste bevande che fissavano certe feste speciali a scopo di ubbriacarsi, feste dalle quali escludevano come non abbastanza degne, le donne.
Ma appena conobbero il vino vi si abbandonarono con vera frenesia vendendo per averne tutto quanto possedevano; nel che non facevano che imitare gli antichi Galli i quali, secondo che racconta Ateneo, davano per un bicchiere di vino i loro schiavi e le loro case, e talora vendevano persino la propria libertà.
Un solo liquore può fino ad un certo punto competere col vino, ma per brevissimo tempo: ed è il soma, il liquore che traevano gli antichissimi Arii dal sugo dell'Asclepiadea acida o sarcostemma viminalis e di cui si servivano quei nostri padri remoti ad uso di libazioni. Ma nel suo passaggio a traverso l'Asia Minore e la Grecia il soma dovette cedere innanzi ai trionfi del vino, tanto che non soltanto la fama, ma se ne perdette quasi perfino il nome.
Ed ecco dunque questo vino trionfatore fare la sua apparizione solenne nel mondo: il leggendario Noè pianta dopo il diluvio la vigna, dando con ciò prova di altissimo senno: perchè in seguito a una così indiscreta risciacquata era naturale che il mondo dovesse sentire il bisogno di un bagno diverso.
L'umanità infatti si tuffò voluttuosamente nel vino: e quando vide attraverso il folto fogliame pampineo brillare al sole i grappoli dorati; quando dai grappoli premuti vide sgorgare in copia il rosso liquore, e bevutolo sentì salire dolcemente al cervello i vapori di un'ebbrezza deliziosa e si trovò spontanee sul labbro le canzoni piene di ilarità e di gioia, allora si inchinò plaudente innanzi a Bacco salutando in lui il Dio della vita.
Egli è veramente allora quale ce lo descrive Euripide nel Coro delle Baccanti:
«È il Dio dei piaceri; egli regna in mezzo ai banchetti tra le corone di fiori; anima le danze allegre al suono della cornamusa, fa nascere le folli risa e dissipa gli affanni; il suo nettare giocondando la tavola degli Dei ne aumenta la felicità e i mortali bevono nella sua tazza il sonno e l'oblio dei mali».
Tale dunque è il Dio: e inneggiando a lui si inneggia al rappresentante delle forti e spensierate gioie della vita. E quando, per uno strano rivolgimento avvenuto nella coscienza, la vita parrà un fardello pesante all'uomo, pensieroso soltanto di conseguire per virtù di sagrifici la patria celeste, non sarà forse contro a Bacco e contro a Venere che si scaglieranno sopratutto gli anatemi dell'ascetismo medioevale?
Ma con tutto ciò, Bacco non è soltanto il conviva sollazzevole che anima la gioia e il tripudio dei banchetti: egli si avvolge, anche, talora nel grave manto sacerdotale, talora veste la maglia del guerriero, talora persino la toga severa del moralista. Non si può tuttavia negare che il più delle volte ha un'altra abitudine: quella di gettar lungi da sè tutte quante le vesti. Ma in questo caso noi imitando il pietoso esempio di Sem, stenderemo un velo sulle sue nudità vergognose.
Mi affretto però a soggiungere che per quanto riguarda Bacco nei templi non conviene pigliar la cosa troppo in sul serio e c'è anzi sempre da temere ch'egli non stia per farne qualcuna delle sue; quando, ad esempio, vuotatosi il sacro recinto della folla accorsa e rimasti i soli sacerdoti, fumavano sull'ara le dapi innaffiate di vino sacrificale, oh quante volte dovette fregarsi le mani malignamente sorridendo l'astuto Nume, nel vedere quei gravi personaggi barcollare e tentennare nel far la riverenza a qualche suo confratello d'Olimpo!
E c'è forse ancora modo di meravigliarsi che i responsi famosi dei sacerdoti e delle sibille fossero così oscuri e ingarbugliati, quando sappiamo che venivano dettati non soltanto da Febo Apollo, ma anche dal buon padre Lieo?
Non Dindymene, non adytis quatit
Mentem sacerdotum incola Pythius,
Non Liber aeque, non acuta
Sic geminant Corybantes aera
Tristes ut irae.
Orazio, Odi, I, 16[III-2].
Del resto questo vino ch'io chiamerò sacro entrò di buonissima ora nei templi e fu anzi parte principalissima delle cerimonie religiose le quali s'iniziavano sempre con le cosidette libazioni. L'antichità remotissima di quest'uso ci è attestata dallo stesso Omero il quale lo descrive minutamente in più luoghi dei suoi poemi. Consistevano le libazioni nel versare in un calice del vino, nello spanderne successivamente qualche goccia sovra l'ara o sul fuoco o anche per terra e quindi nel bere il rimanente. In origine però le libazioni non si facevano col vino, come si rileva da questo passo di Porfirio nel trattato De Abstinentia: «Le libazioni presso gli antichi erano per la massima parte sobrie: sobrie si chiamano quelle che si fanno coll'acqua. Poi si fecero col miele... al quale tenne dietro l'olio, e finalmente il vino».
In Grecia e in Roma furono in grandissimo uso e precisamente in quella maniera che viene descritta da Omero: ma troviamo di più che era costume in Roma di libare anche tra le corna della vittima ripetendo ogni volta la nota formula: «Sii tu accresciuto per mezzo di questo vino nuovo».
Ed esempi di libazioni troviamo ancora presso molti altri popoli: nei due sagrifici quotidiani nel tempio di Gerusalemme gli Ebrei libavano vino, e pretendono anzi i Rabbini che di qui nascesse l'uso del vino nella messa cattolica.
Gli Indiani, al dire di Strabone, non bevevan vino che nei sagrifici, e se crediamo ad Erodoto il quale però sembra che in altri luoghi si contraddica, gli Egiziani, presso cui erano in grande onore le libazioni prima di immolare la vittima, non permettevano il vino che ai sacerdoti[III-3].
Libavano vino gli Etruschi nei sagrifici, i Galli nella famosa solennità che aveva luogo al tempo della raccolta del vischio, e per citare un popolo di barbari costumi, anche gli Sciti, i quali libavano vino sul capo dello schiavo prima di immolarlo a Marte.
Nè posso passare sotto silenzio i suntuosi banchetti che tanto in Grecia quanto a Roma si offerivano in certi giorni agli Dei, e nei quali il vino sacrificale ebbe sempre larghissima parte.
Che se poi — mi perdonino gli scapoli e le zitellone — mi è concesso di distinguere in tre i punti più solenni e importanti della vita, nella nascita cioè, nelle nozze e nella morte, non è difficile lo scorgere come in ognun d'essi il liquor della vite abbia sempre avuto un'importanza speciale; e non voglio mica accennare soltanto ai veri rigagnoli di vino che fecero ciarliere in ogni tempo le gole degli invitati a un banchetto per un neonato o per una fanciulla che va a marito. Parlo di cerimonie speciali e consacrate dai diversi culti, di cerimonie in cui il vino assume un vero carattere di simbolo religioso.
Così anche oggi un uso particolarissimo vige presso il popolo ebreo: quando il sacerdote ha compiuta sul neonato quella tale operazione che corrisponde al nostro battesimo cristiano, ed ha per tal modo impresso in lui — indelebilmente — il carattere di israelita, accosta alle labbra un vaso ricolmo di vino, ne beve una goccia e quindi ne umetta pure le labbra del bambino. Il rito cristiano ha sostituito al vino un grumello di sale; gran peccato davvero che a questa età la Natura non abbia concesso l'uso della parola! Chè non sarebbe certo senza interesse il sapere da questi omuncoli pur mo' nati, se essi non preferiscano per avventura sulle labbra il dolce bacio del vino, simbolo delle forti gioie della vita, a quello acre e mordente del sale della sapienza!
Presso gli stessi Ebrei si consacrano ancora oggi gli sponsali col benedire il vino di cui bevono poi gli sposi nel bicchiere medesimo: uso di cui trovo un esempio appo i Galli antichi, sebbene con qualche divario, perchè presso a costoro gli sposi bevevano due diverse specie di vino versato in uno stesso calice da due diversi bicchieri.
Cerimonie assai simili a queste si attribuiscono in identiche circostanze da molti viaggiatori ad alcune popolazioni specialmente di razza slava.
Per quel che riguarda i riti funebri nessuno ignora quanta parte avesse nei medesimi il vino presso i Greci ed i Romani: col vino, secondo che ci descrive lo stesso Omero, si estingueva il rogo su cui ardeva il corpo del defunto, col vino e coll'olio se ne lavavano le ceneri prima di raccoglierle nell'urna; e in Roma col vino e col latte come si ricava da Tibullo. E ho appena bisogno di ricordare quell'inamabile usanza di terminare le funebri cerimonie con un banchetto, dove troppo spesso svaniva indecentemente ogni dolore fra i tripudii a cui davan luogo le frequenti libazioni di vino generoso.
Molto di sacro hanno naturalmente i trattati di alleanza e i giuramenti: e anche qui trovo che presso alcuni popoli concorreva il vino a renderli più solenni. Ad esempio gli Sciti si ferivano alla fronte lasciando gocciare qualche stilla di sangue in un calice contenente del vino; immersavi quindi la punta di un dardo bevevano di quella miscela. E i Valacchi invece pongono in un vaso del pane, del sale e una croce: giurano, e poi in quel vaso le parti contraenti bevono vino.
Neanche il cristianesimo, il quale pure si dimostrò così acerrimo nemico d'ogni forma del culto pagano, potè bandire del tutto il vino dalle sue cerimonie: ed è caratteristico quello che ci racconta il Peysonel nella sua relazione d'un viaggio nell'Asia Minore. Trovandosi egli a Smirne nel 1768, potè assistere a una cerimonia del rito greco in cui ravvisò un vero e proprio avanzo delle antiche libazioni; dovendosi lanciare in acqua un battello, il costruttore, prima che le altre cerimonie d'uso si compissero, si fe' portare una coppa di vino, e dopo averne spruzzata la poppa del naviglio, bevette il rimanente e ne fece bere agli astanti.
E nel medesimo rito greco la libazione di vino interviene pure nella cerimonia degli sponsali e nei banchetti funebri; e quel che è più singolare il vino ha pure la sua parte nel sacramento dell'estrema unzione. Perchè questa vien somministrata coll'olio puro ai moribondi; ma quando la si dà a qualche reo di peccato mortale, si mescola coll'olio una leggiera quantità di vino.
D'altra parte il vino nel rito cristiano fu innalzato all'onore supremo di rappresentante del sangue stesso del Cristo, onde per questo lato esso non ha certo ragione di rimpiangere gli antichi secoli quando aveva tributo di laudi divine. E fu un tempo in cui non soltanto il sacerdote, ma tutti i fedeli avevano il diritto di dissetarsi a questa allegorica fonte e di bevere alla sacra mensa il sangue del loro Dio sotto la forma di vino; nel secondo secolo, ad esempio, era del tutto in uso la comunione sotto le due specie. Venne poi di mano in mano proibita ai laici la comunione col vino, ciò che diede origine a controversie e ad eresie senza numero: e ancora nel 1413 il Concilio di Costanza minaccia pene severissime al prete che comunichi i fedeli altrimenti che col pane consecrato. Ciò non dimeno in Russia anche al dì d'oggi tutti i cristiani comunicano sotto le due specie.
Che se noi vogliamo farci più persuasi di questo simbolismo del vino quale si usa nelle cerimonie religiose, non abbiamo che a por mente alla predilezione con cui i predicatori del secolo XVI si occupano del medesimo nei loro sermoni. E troveremo ad esempio fra molti altri passi caratteristici quello in cui Robert Messier paragona Gesù Cristo a un taverniere che distribuisce agli apostoli il suo vino: S. Giovanni si sentì inebriato dal solo odore, e Giuda poi trovò il liquore così delizioso che deliberò di venderlo per trenta denari. Nè è meno singolare Michele Lenoir che apprestando nel 1521 ai suoi fedeli ascoltatori un allegorico pranzo di vigilia, così parla del vino nel suo Quadragesimale spirituale: «Puis après le pain blanc et le vin ne se doivent en oubli mettre. Pour le pain et le vin nous pouvons entendre les joyes du paradis.... Le vin est de deux couleurs, blanc et rouge: le blanc nous donne l'éspérance d'aller en paradis, car il fait bon courage. Et le rouge fait le bon sens réduisant en mémoire le précieux sang de Jésus Christ»[III-4].
Poche cose dirò del vino che starei per chiamare marziale, siccome quello che conforta gli animosi alle pugne e cui gli antichi popoli (imitati in ciò dai moderni) tracannavano copiosamente per incitarsi al valore e allo sprezzo della morte.
Già Platone osservava che frequente è l'ubbriachezza nelle nazioni bellicose; ma è da considerarsi che in alcuni popoli, massimi bevitori, la forza belligera non è che brutalità barbara e selvaggia, aumentata ancora dall'immoderato abuso delle bevande alcooliche, come si legge degli Unni e specialmente del famoso loro capitano Attila; mentre altri popoli, pure deditissimi al bere, si possono dire dotati di quella forza maschia e intelligente che non dipende soltanto dal nerbo del braccio ma dalla virtù dell'animo generoso.
E fra i primi vanno annoverati certamente quegli Sciti che si facevano coppe da bere col cranio dei vinti nemici. Era uso presso di loro che ogni anno il governatore di una provincia dovesse invitare ad un festino tutti coloro che avevano ucciso qualche loro avversario: quivi il vino era largheggiato in copia meravigliosa e mentre gli invitati sotto l'impero dell'ebbrezza si abbandonavano ad ogni eccesso, da lungi contemplavano l'orgia con occhio invidioso quelli che non potevano vantarsi ancora d'aver trucidato un nemico. Nè meno ubbriaconi o meno barbari erano quei Britanni, di cui scrive Strabone ἀντροπόφαγοι τε ὄντες καὶ πολύφαγοι, che erano cioè antropofaghi e mangiatori solenni.
Ma altra era la forza di quei tenaci Anglo-Sassoni, destinati a tante conquiste contro il suolo ribelle e nel regno del pensiero, e sui quali Gregorio Magno, dopo di aver deplorato la loro smoderatezza specialmente nel bere, fa questo singolare lamento: «Oh qual danno che il principe delle tenebre debba aversi così bei sudditi! Angelica è veramente la loro sembianza e degni sono di essere compagni agli angeli nel cielo».
E se crediamo a quel che ci narra Plutarco nella vita di Camillo, bastò che Arunte Etrusco portasse ai Galli un saggio del vino italico perchè costoro s'infiammassero del desiderio di passare le Alpi e si sentissero più coraggiosi e più forti a sopportare le fatiche e i rischi della conquista. Nè dei Germani (anche di quelli lontani dalle rive del Reno) è ben certo che non bevessero vino o che ne bevessero solo scarsatamente. E sebbene Cesare scriva degli Svevi che non permettevano fra loro l'introduzione del vino, perchè effeminatore, pure sappiamo che ben presto dai vigneti renani esso si diffuse per ogni parte della Germania, e Tacito ci presenta quelle fortissime genti assise a desco dinanzi ai boccali di birra e di vino assai più tempo che a uomini temperanti non si convenga.
Che se presso alcuni popoli, come avveniva per esempio dei Cartaginesi, troviamo leggi che fanno divieto ai soldati di bere vino durante la campagna, non è men vero che fu considerato in ogni tempo ottimo consiglio quello di rincorare i combattenti che fiutano prossima la mischia con qualche sorso abbondante di vin generoso o di altro liquore potente, il quale aiuti i morituri ad incontrare serenamente il loro fato — e a menare con più furia le mani.
E come prima il vino è l'incitatore alla battaglia, così è in seguito il premio della vittoria: e ci siano di esempio per tutti, quei guerrieri omerici dal colossale torace che dopo ogni fatto d'arme stendono eroicamente la tovaglia e inaffiano le enormi pietanze con veri torrenti di elettissimo vino.
E che portenti d'uomini eran quelli!
Quando leggiam che l'inclite ventraie
Degli Atridi e del figlio di Peleo
Ingoiavan di buoi terghi arrostiti,
Oh l'antica rozzezza! esclamiam tosto.
Saporiti bocchini, e stomacuzzi
Di molli cenci e di non nata carta!
Ma perchè ammiriam poi che il seno opponga
Dello Scamandro burrascoso ai flutti
L'instancabile Achille, e portin aste
Sì smisurate i capitani greci?
Non consumava ancor muscoli e nervi
Uso di morbidezza: erano in pregio
Non membroline di zerbini inerti,
Ma petto immenso, muscoloso e saldo
Pesce di braccio, e formidabil lombo.
A' gran mariti s'offerian le nozze
Non di locuste ognor cresciute a stento
In guaíne d'imbusti; era bel corpo
L'intero corpo, ed Imeneo guidava
Ai forti sposi non balene o stringhe,
Ma sostanze di vita.
Gozzi, Sermoni.
Ora immaginiamo noi, avvezzi a centellinare nei calicini microscopici, di che badiali circonferenze di pátere abbisognassero quegli eroi, per accompagnare di tali bocconcini.
Ma ecco che l'argomento mi conduce a far parola del sollazzevole Bacco, spensierato re dei conviti e provocatore dei tripudi chiassosi ove troppo sovente la ragione si annega spontanea nei bicchieri ricolmi. Qui davvero il mio tema minaccia di diventare inesauribile: e non sarebbe certo cosa priva d'interesse lo studiare i costumi variissimi dei popoli per rispetto alla maniera del bere e alle cerimonie usate in così fatte circostanze, e anche agli utensili diversamente adoperati all'uopo; nè gli scrittori ci sono avari di notizie a questo riguardo. Ma oltre che un siffatto studio mi condurrebbe troppo in lungo, io credo che sia in ogni modo sufficiente all'illustrazione del mio soggetto l'accennare con qualche minutezza agli usi speciali che vigevano presso i Greci e i Romani, appo i quali il lusso della tavola vide ciò che è ultimo nello sfarzo, nella raffinatezza e anche nella corruzione.
Ma non voglio tacere anzitutto delle feste in onore di Bacco, le quali in breve andar di tempo si moltiplicarono per modo da poterne appena ricordare i diversi nomi; ed è naturale che discorrendo di banchetti si citino queste solennità le quali si terminavano quasi sempre con un'agape pubblica o privata della quale non avevano certo mai a dolersi gli spacciatori di vino. Nei tempi più antichi di Grecia non erano in troppo grande uso le feste; e Aristotile scrive nell'Etica che non ve n'erano forse altre in allora che quei banchetti soliti ad apprestarsi in segno di gaudio universale dopo la raccolta delle messi e la vendemmia. Ma ben presto, come ho detto, per ragioni di varia natura e specialmente politica, in ogni città greca si istituirono pubblici spettacoli; e fu appunto da quel tempo che anche le feste di Bacco andarono via via moltiplicandosi, e per guisa che il padre Lieo ebbe, io credo, più giorni e solennità a sè dedicate che qualsiasi altro nume d'Olimpo.
E di vero tra le feste di Bacco si annoverano le antiche, le nuove, le grandi, le piccole, le diurne, le notturne, le campestri, le urbane, le autunnali, le primaverili e via dicendo, a cui sono da aggiungersi i troppo famosi Baccanali che acquistarono in Roma al tempo del console Postumio una così trista rinomanza.
Perciò che riguarda la tavola vuolsi da alcuno (e la cosa mi pare ben lontana dall'esser provata) che ogni uso di mollezza derivasse ai Greci dalla Magna Grecia ossia dall'Italia meridionale; mentre da prima erano la sobrietà e la parsimonia le doti comuni a tutti gli Elleni. Il fatto è che quanto più si risale ai tempi remoti tanto più noi ritroviamo, come è ben naturale, sbandita dalla tavola o piuttosto ignorata da tutti i popoli la raffinatezza dei pasti quotidiani: i quali si vanno invece arricchendo di morbide delicatezze a misura che penetrano nelle città la ricchezza, la coltura e le costumanze gentili.
Da principio il pranzo greco consisteva tutto nel così detto deipnon, in cui nè la quantità, nè la ricercatezza dei cibi erano grandi: ma mutarono affatto le cose allorchè si aggiunse al deipnon la geniale appendice del simposio, che acquistando sempre col tempo maggiore importanza divenne infine la parte principale e più desiderata del banchetto.
Una libazione, la quale si faceva invocando il buon Genio o Igea, l'Iddia della salute, poneva termine al deipnon e subito un'altra simile libazione dava passaggio al simposio. A questo venivano invitate anche persone che non avevano pigliato parte al pranzo, giacchè, come indica il nome stesso, nel simposio non doveva trattarsi d'altro che di bere, e perciò appunto venivano recati in tavola cibi eccitanti la sete. Quanto alla maniera e alla misura del bere, questa veniva per consuetudine regolata da un simposiarca o re del convito, che veniva eletto a questa temporaria dignità mediante il sorteggio dei dadi.
E quantunque fosse costume di chiamare barbaro in Grecia chi beveva vino schietto, quantunque si usasse di mescolare l'acqua al vino nella proporzione di 3 : 1, tuttavia è da credersi che in sul finire del simposio nè l'orrore della barbarie, nè la venerazione delle vecchie costumanze potessero molto su quei Greci eleganti e delicatissimi, perchè la sala del triclinio non tardava a convertirsi nel teatro di orgie solenni. Dai piccoli bicchieri il simposiarca ordinava a mano a mano si passasse ai più grandi, si incrociavano in ogni direzione i brindisi, si invocavano i nomi delle etére e delle innamorate, e siccome durante il simposio si rappresentavano azioni sceniche e si succedevano le danze, ben tosto gli stessi convitati si facevano di spettatori attori e nella sala tutto era canto e tripudio.
Talora il simposiarca incominciava un brindisi: tutti allora portavano il calice alle labbra e quindi con un moto uniforme, compassato, al tempo medesimo, deponevano sulle mense con un colpo sonoro, le tazze. Altri già ravvisò un avanzo di quest'uso nei moderni commersen degli studenti tedeschi, e si potrebbe raffrontarlo ancora colla challenge degli antichi Inglesi, la quale non altro era che una disfida al bere fatta press'a poco nella medesima maniera di quella testè citata.
Ma appunto perchè gli inni allegri, le arguzie e la innocua allegria del simposio trasmodavano troppe volte in orgie pazze e immodeste, esso fu vietato da parecchie leggi in alcune città greche e particolarmente bandito, com'era naturale, dalla rigida Sparta e anche da Creta.
Ma se alcune città lo cacciarono con ignominia, siccome corruttore dei costumi e ammollitore delle fibre, trovò il simposio ospitalità veramente regale nella massima fra le città che ebbero fama immensa nel mondo, in Roma.
Quivi dovette mutare il suo nome, che venne tradotto alla latina in quest'altro di comissatio o compotatio: ma i suoi costumi rimasero i medesimi se non divennero forse più corrotti e più corruttori. Già sul finire della repubblica i discendenti di Quirino avevano posto nel più perfetto oblio le rape famose del Dittatore Cincinnato e la sobrietà meravigliosa di lui; che anzi si cominciavano ad ornare splendidamente i triclinii e a render liete le mense di cibi peregrini.
I buoni Romani che poc'anzi avevano trovato prodigiosa la splendidezza di Cesare il quale aveva lor servito quattro differenti sorta di vino, arricchivano ora con grave dispendio le cantine da cui ricavavano poi le anfore del vino opimiano di cent'anni per le orgie della comissatio.
E siccome su 80 località produttrici di vino famoso presso gli antichi, circa due terzi erano Italiane, così venivano prodigati sulle mense romane il Sorrentino, il Falerno, l'Albano, il Setino, il Cecubo, il Massico, il Capuano, il Tarentino, ed altri molti.
Ben presto in Roma la sfrenatezza dell'orgia e l'incredibile fasto dei prandii non conobbe più limite e basta per esserne convinti leggere quella fina satira che però dipinge così al vivo il corrotto costume, cioè il Convito di Trimalcione; basta leggere quel che scrive Cicerone in una delle sue Verrine, in cui paragona la sala del convito dopo la comissatio a un campo di soldati dopo la battaglia.
Ma io non farò che accennare come non differisse quasi nella forma la comissatio latina dal greco simposio. Anche nei triclinii romani i convitati vestivano una tunica speciale, cingevansi il capo e talora anche i piedi di rose convivali, eleggevano coi dadi il Rex convivii.
«Bene tibi, vivas!» — gridava un banchettante volgendo il capo al suo vicino, e questi accoglieva e ripeteva il brindisi, mentre lo schiavo coppiere stava intento dietro di lui a riempirgli la tazza vuotata. E altre volte, come abbiamo da Marziale, i convitati si figgevano in capo di tracannare tanti bicchieri quante lettere aveva il nome della propria innamorata, e fortunato allora — o disgraziato — chi ardeva per un'Amarillide o per una Domitilla!
Nel vino, secondo che si ricava da Ateneo e da molti altri scrittori, usavano mescolare sostanze aromatiche, e mastice, e assenzio e fiori e persin della pece onde il così detto vinum picatum, il quale però non era gran fatto apprezzato; e bevevano anche vino di oltre due secoli, che per l'estrema vecchiezza si era convertito in una specie di glutine aderente alle anfore, che veniva sciolto per mezzo dell'acqua bollente.
Non mancavano nella comissatio le rappresentazioni sceniche, ma non pare che i Romani imitassero i Greci nel pigliarvi parte; o più gravi o più avvinati o forse meno artisti, si contentavano di farla da spettatori, finchè l'orgia invereconda non confondesse insieme schiave danzatrici e liberi cittadini, mime seminude e senatori od equiti romani.
Dopo un certo tempo, per quanto si sentisse infiammata dal desiderio ognor crescente col crescere dell'orgia, non poteva più la gola, come è facile intendere, dilatarsi compiacente a ricevere nuove ondate torrenziali di vino: lo stomaco troppo pieno si ribellava con irresistibile energia. Non perciò si sgomentavano gli eroici figli di Romolo; coloro che avevano domato il mondo intero vollero domare anche l'indocilità del proprio stomaco.
E trovarono la titillatio.
Si appartavano in una stanza prossima al triclinio: quivi li aspettava uno schiavo colla mano armata di una lunga penna dalle barbe rosse. Ed allora quei conquistatori dell'orbe intero spalancavano innanzi a lui le loro fauci: lo schiavo vi introduceva con molto garbo la sua penna, la spingeva con molto garbo fin dentro la gola e leggermente e delicatamente titillabat, titillava... Ad un tratto...
Dio mio, come dire? Ad un tratto il cittadino Romano, felice d'essersi liberato da una grave angustia che gli gravava lo stomaco, traversava la stanza a passi molto larghi e tirando in su il lembo estremo della tunica, e ritornava nel triclinio. Allora poteva bere di nuovo. E quest'usanza doveva essere assai diffusa, perchè lo stesso Cicerone ne parla nell'orazione Pro Rege Deiotaro come di cosa affatto naturale.
Nè ciò bastava: ma per accrescere e render perenne la sete ricorrevano ad altri mezzi ancora. Plinio ne ricorda parecchi: v'era chi mesceva nel vino della pietra pomice, chi vi aggiungeva (scrive il celebre naturalista in tono indignato) cose turpi anche a dirsi; alcuni afferravano a due mani un'anfora e la bevevano d'un fiato per poter rigettare e quindi bevere ancora, altri si avvoltolavano nel fango come porci nel brago, altri arrovesciavano con fatica il capo all'indietro per dilatare il petto e renderlo più capace.
Qual meraviglia che una tal gente disfatta dalle gozzoviglie non sentisse più nei polsi forza bastante per divincolarsi dalle strette erculee dei barbari? fra le altre cose, l'Impero d'Occidente era ubbriaco fradicio: lo urtarono, e precipitò a terra russando.
Allora cominciò veramente un'età nuova: e quanto più s'erano dapprima gli uomini aggrappati alla vita per succhiarne, per esaurirne tutte le possibili delizie, tanto più ora la spregiavano come cosa vile e provocatrice al peccato. Nè certo il vino poteva esser ultimo a provare gli effetti di questa maledizione scagliata con acre voluttà di sagrificio contro ogni gioia terrena.
E mi basti citare a questo riguardo quello che fin dal secolo IV scriveva S. Geronimo ad Eustachio: «Se alcuna cosa in me può essere di buono consiglio, se all'esperto si crede, questo prima ti ammonisco, che la sposa di Cristo il vino fugga come veleno».
In quei lunghi secoli di denso ascetismo, in cui però la coscienza umana si ritempra apprestandosi a gloriose battaglie, ci fa quasi meraviglia l'udire una voce di allegra e talvolta cinica protesta: e l'inno dei Goliardi ci giunge come il grido della ribellione alle smodate esigenze dello spirito, come il primo sintomo d'un risveglio della ragione umana che ritorna dai nebulosi spazi dell'infinito in sulla terra e ne riconosce le serene bellezze. E i Goliardi a chi inneggiano principalmente nei loro canti ove risorge il sentimento della realtà e della natura? Inneggiano sopratutto al vino di cui noverano le lodi con entusiasmo troppo caldo e sincero per non essere bello.
Intanto col successivo svilupparsi, specialmente dopo il secolo decimo, di questo sano elemento per cui gli uomini sono tratti di bel nuovo verso la terra, altri fenomeni si fanno manifesti nei quali rivive una traccia del paganesimo che pareva spento e non era. Ed ecco venire in uso molte feste che ci ricordano press'a poco i Baccanali e i Saturnali antichi benchè svisati in maschera cristiana per l'introduzione di elementi parecchi di cui l'origine prima non è ben nota. E tra queste feste piacemi ricordare la famosa dei Pazzi e degli Innocenti, vera parodia dell'ufficio divino.
Le monde est plein de fous, et qui n'en veut point voir
Doit demeurer tout seul, et casser son miroir.
E quella non meno celebre dell'Asino innanzi al quale, vestito dei sacri paramenti, si celebrava una Messa per ingenua empietà singolarissima. In quest'asino altri ha creduto di riconoscere quello che dopo aver servito al Cristo nella sua entrata in Gerusalemme, passò, secondo la leggenda, a Cipro, a Rodi, in Malta e in Sicilia, quindi traversando a zampe asciutte il mare, a Venezia: nel qual luogo non trovandosi bene pel clima, venne finalmente a Verona dove morì. Ma c'è pure chi non vede in lui che l'asinello il quale avendo servito a Bacco nella sua fuga, fu per ricompensa posto dal Nume a brillare fra le costellazioni nel cielo: dove, sia detto a conforto dei suoi simili, non pare che splendesse meno di qualsiasi altra.
Queste feste non mancavano d'essere accompagnate da orgie scandalose che avevano per teatro le stesse chiese: e benchè i concilii più volte le condannassero, durarono tuttavia molti secoli ancora.
Del resto, i bagordi nell'interno dei templi erano di vecchia data: e già nel 364 il concilio di Laodicea proibisce le agapi che aveano introdotto nelle chiese l'uso dei letti convivali. Seguirono tuttavia, specialmente nelle feste citate; e noi leggiamo ad esempio nel Rituale della Chiesa di Santa Maria Maddalena in Besançon, questa regola espressa da seguirsi al giorno di Pasqua: «Dopo la predica avranno luogo delle danze nel mezzo della nave del tempio: e finite queste vi si farà una colazione con vino rosso».
Quanto al lusso delle mense ecclesiastiche qualche cosa già ne indoviniamo dalle implacabili satire goliardiche: ma assai espressivo in ogni caso è quanto scriveva circa il 1070 San Pier Damiano dei preti del suo tempo: «Bramano di arricchire perchè nei bicchieri cristallini biondeggino mille vini artefatti».
E nel 1149, per citare ancora un esempio, i Canonici di S. Ambrogio di Milano pretendevano in certi giorni dal proprio Abate una succolenta refezione con tre portate distinte: «In prima appositione pullos frigidos, gambas de vino, et carnem porcinam frigidam. In secunda pullos plenos, carnem vaccinam et turtellam de clavezolo. In tertia pullos rostidos et porcellos plenos».
E se così dimenticavano presso di noi gli ecclesiastici la virtù dell'astinenza e della mortificazione dei sensi tanto cara ai monaci del primo medio evo, non è a credere che i laici fosser da meno di loro.
Nel panegirico di un anonimo a Re Berengario, del secolo X, così viene introdotto un soldato Gallo ad apostrofare gli Italiani: «A che vi corazzate con le dure armi i petti inerti, o Itali? A voi stanno piuttosto a cuore le tazze ricolme di vino».
E poichè ho accennato ai convivii per dispendio e per lusso quasi favolosi dei tempi dell'Impero, mi sia lecito di contrapporre a quel quadro questa descrizione, che un contemporaneo fa del pranzo dato nel 1395 da Gian Galeazzo in Milano, quando ebbe il titolo di Duca:
«Fu dato ai convitati acqua a le mani stillata con preziosi odori e poi seguitarono le imbandigioni tutte accompagnate con trombe et altri diversi suoni, la prima delle quali fu: marzapani e pignocate dorate con arme del serenissimo Imperatore e nuovo Duca in tazze d'oro con vino bianco. Deinde pollastrelli con sapore pavonazzo cioè uno per scotella e pane dorato. Poi porci dui grandi dorati e dui vitelli parimenti dorati. Inde vi furono portati grandissimi piattelli d'argento et per caduno pecti dui de vitello. Pezi quatro de castrato. Capretti dui interi, pollastri quattro, caponi quattro, somata una, salsicci dui e vino greco. Doppo furono portati altri piattelli di simile grandeza con pezi quatro de vitello rosto. Capretti dui interi. Lepore due intere. Piccioni grassi sei. Poi pavoni quattro cotti et vestiti. Orsi due dorati con sapore citrino. Doppo furono portati altri grandissimi piattelli d'argento con fasani quattro per caduno vestiti. Conche grandi di argento con un cervo intero dorato. Daino uno dorato e caprioli due con gallatina. Poi piattelli come di sopra con non poco numero di quaglie e pernici con sapore verde: poi torte di carne dorate con pere cotte. Dopo fu data acqua a le mani facta con delicati odori a li quali seguitava pignocate in forma di pesci inargentate. Poi pani inargentati. Limoni siropati inargentati in taze. Pesce arrostito con sapore rosso. Pastelli de anguille. Poi piattelli grandi de argento furono portati con lamprede e gallatina. Trute grande con sapore nero. Indi torte grande verdi inargentate, mandorle fresche, vino legiero, malvasia, persiche e diversi confetti a varie foggie»[III-5].
Dopo non fu più portato nulla.
E sul vino e sui diversi usi in cui esso ha parte larghissima, molto mi resterebbe a dire se non temessi di abusare dell'attenzione del mio uditorio. Accennerei volentieri a quelle famose storiche proibizioni che sempre furono e in ogni luogo deluse, ad onta delle minaccie e anche delle pene più crudeli. Per cautela igienica Maometto l'aveva vietato ai suoi Musulmani, ma nello stesso tempo descriveva loro il seducente paradiso delle Uri dove i beati potranno dissetarsi ai torrenti di vino che scorrono per i boschetti di eterna primavera. I Musulmani però vollero pregustare quelle delizie anche sulla terra; a nulla valsero le frustate, a nulla il piombo liquefatto versato nella gola del bevitore, a nulla la stessa morte: tuttavia si bevette. I sultani fecero abbattere ogni spaccio di vino, ne distrussero dalle fondamenta i depositi, fecero gittare in mare i carichi d'uva, ma tutto fu vano: si bevette sempre.
Volentieri vi parlerei dell'uso che avevano i Germani di deliberare sedendo a tavola tra i bicchieri, e della specialissima benedizione che gli Ebrei danno al pane e al vino coprendo sulla mensa ogni altra vivanda, e dell'allegrezza di cui è segno il vino versato in sulla tovaglia e di altri usi parecchi. Ma mi contenterò, poichè ho parlato da principio anche di un vino moralista, di discorrerne per bocca della stessa Sapienza:
«Date il vino a quelli che sono in amaritudine d'animo, acciocchè beano e dimentichino la loro miseria».
Proverbi XXI.
«Allegrezza d'animo e di cuore è il vino ammodatamente bevuto: sanità d'animo e di corpo il vino temperatamente bevuto».
Ecclesiastico.
E udite finalmente il Salmo 75:
«Un nappo è nelle mani del Signore e il vino è rosseggiante: è colmo che ne trabocca e si diffonde. Ma tutti i malvagi della terra non ne succieranno che le feccie».
Possiate voi dunque, o signori — è il moralissimo augurio col quale vi ringrazio dell'attenzione benigna — ignorare mai sempre il gusto della feccia e non bere per tutta l'eternità che dello schiettissimo vino.
[III-1] Apprendo che quest'uso vige ancora presentemente nelle Marche: e si crede che i bambini così lavati si fortifichino specialmente nelle ginocchia.
Del tempio nella parte più romita
Dei ministri le menti di sè piene
Non così Febo incita,
Non il padre Lieo, non Dindimene,
Nè i crotali sonanti
Batton con tanta furia i Coribanti,
Con quanta le sdegnose anime invade
L'ira.
Traduzione di D. Perrero.