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III.

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Cosimo I assume giovinetto il potere, calcando le superstiti resistenze repubblicane, e l'ambizione, a quelle alleata, della ultima famiglia di emuli contro la supremazia medicea, gli Strozzi. Legato di necessità alla fortuna di Spagna, vuole e sa avere, pur sotto quegli auspicî, una politica propria, che gli consente i vantaggi della protezione imperiale, riserbandogli sufficiente libertà di atti, rispetto agli altri Stati d'Italia, alla Francia, alla Chiesa. Vendicata in Lorenzino la strage del duca Alessandro, e in Filippo Strozzi (comunque e' finisse) la resistenza armata al proprio insediamento, volge attorno, con sicurezza di vecchio signore, di sovrano nato, lo sguardo: e mentre prosegue (con tutti i mezzi, nessuno eccettuato, leggi, forca, pugnale) la depressione e la dispersione de' ribelli, che, sotto quel flagello incessante, non si raccozzeranno mai più; mentre difende la novella sua porpora ducale dalle gelosie delle antiche prosapie principesche d'Italia, e contro l'ardito generoso tentativo dell'ultimo, nell'Italia medievale, idealista di libertà Francesco Burlamacchi; Cosimo ha, fin da principio, chiaro dinanzi a sè il suo intento, e verso quello mira con perseverante sagacia, risolutezza e, quand'occorra, violenza: e l'intento suo è la formazione d'uno stato che abbracci tutta intera la Toscana. Da Montemurlo a Scannagallo, questa tenace sua volontà trionfa col soggiogamento della vigorosa Repubblica sopravvissuta alla fiorentina, pel quale gli è consentito di scrivere sul granito della colonna di Santa Trinita “Cosimo de' Medici duca di Firenze e di Siena„: la volontà di Cosimo, prima e dopo di quella vittoria, si afferma, a benefizio del paese e afforzamento del principato, mediante i provvedimenti agrari migliorativi specialmente del Valdarno pisano e della Valdichiana; si afferma con la difesa del litorale infestato dai Barbareschi, contro i quali la istituzione della milizia di Santo Stefano durerà non senza gloria della nazione; con gli stessi forzati pazientamenti, si afferma, verso la Spagna. Lo stato spagnuolo dei Presidî, nella Maremma senese, è limitato, per ventura d'Italia, dall'assodata potenza (che la Corsica, destinata a disitalianarsi per colpa d'una italiana repubblica, invoca quasi presaga) dalla potenza di questo duca italiano. Non molto dissimile che con l'Impero, fu l'atteggiamento suo con la Chiesa: della quale secondava le gagliarde resistenze alla libertà religiosa, accettando in Firenze i Gesuiti; favorendovi l'Inquisizione, e vilmente gratificandola del capo di Piero Carnesecchi; sovvenendo le sanguinarie guerre di religione in Francia, anche per destreggiarsi con Caterina che sul trono cristianissimo aveva portato i rancori suoi di Medici, ultima del maggior ramo, contro lui Cosimo sopravvenuto e sormontato del ramo cadetto: — ma tuttociò, senza ch'egli disertasse la difesa delle civili giurisdizioni contro le usurpatrici improntitudini del fòro ecclesiastico, e conservando quella indipendenza statuale ch'era stata pe' secoli tradizione della guelfa repubblica. Fu vittoria di questa sua politica, audace a un tempo e prudente, il serto di granduca di Toscana che a cinquantun anno, soli quattro prima che morisse, coronò per mano del Papa, con mala contentezza dell'Impero e dei principi italiani, le ambizioni di questo che solo fra essi tutti, in quanto fondatori di nuovo stato, poteva vantarsi di aver saputo applicare, sebbene per fini del tutto personali e dinastici, le sinistre teorie, a ben più alta meta rivolte, di Niccolò Machiavelli.

Coerentemente a questa sua azione verso il di fuori, l'amministrazione dello Stato fece egli servire al concetto di afforzarlo anche internamente e guarentirlo da pericoli di turbamento. Perciò represse i maleficî con fiere leggi; aiutò i commerci nei quali egli stesso continuò, da buon Medici, a trafficare con somme ingenti; ordinò, quanto meglio consentivano i tempi, l'economia pubblica, non senza aiutarne i provvedimenti con le ispirazioni della carità. Nel favorire gli studî, non pure rinnovò l'antica liberalità medicea, ma consentì libertà di pensieri e di giudizi maggiore assai che non avrebbe tollerata nei fatti. L'Accademia Fiorentina, che, quasi rinfocolando i platonici entusiasmi del Rinascimento, denominò sacra; l'Accademia del Disegno, il cui sorgere s'irradiò degli splendori del divino Michelangelo; la biblioteca Medicea Laurenziana; lo Studio di Pisa; sentirono il benefizio dell'opera sua. Palazzi, ville, loggie, colonne, statue, il fabbricato degli Ufizi superbo di greca toscanità, furono sotto gli occhi del popolo il duraturo ricordo e l'auspicio della signoria novella. Ma di questa signoria il monumento più solenne, e pieno di ammonitrice severità e di epica grandezza, addivenne il palagio che d'allora in poi, cessatagli la perpetua giovinezza della libertà, s'incominciò a chiamare il Palazzo Vecchio; il palagio, che da sede del magistrato popolare artigiano, diventava il Palazzo del Duca, e i suoi veroni giardino pensile della duchessa spagnuola, e calate dalla torre le campane che avevano per secoli risonata la voce del popolo, e le pareti del salone memore di fra Girolamo istoriate delle guerre asservitrici di Pisa e di Siena, e ai lati della porta fiammeggiante nel nome di Cristo re profanate le virili idealità del David michelangiolesco con l'appaiarle all'eroismo brutale del grosso iddio Ercole. Poco appresso, sulla verde pendice che sovrasta all'oltrarno, sorgeva, vagheggiata dalla duchessa, sorgeva nel palagio di altri emuli vinti già da tempo, e si distendeva pei viali ariosteschi di Boboli, la vera e propria reggia fiorentina, che Cosimo mediante l'aereo corridoio da Pitti agli Ufizi congiungeva col Palazzo del Duca; nel modo stesso che altrove un despota feudale avrebbe, con qualche via sotterranea irta di orridi agguati, comunicato il proprio covo con la ròcca delle sue masnade: ma in Firenze quel corridoio valicante l'Arno, finiva, in volger breve di tempo e per quando duchi e granduchi sarebber trapassati alla storia, con l'aver congiunte due reggie dell'arte, e fatto un solo tesoro della più splendida galleria che vanti il mondo civile.

Nella vita privata e domestica, unì Cosimo quella che ormai pel secolo cortigiano era repubblicana rozzezza, con le qualità buone o tristi di principe assoluto. Armatore e carezzatore di sicarî, non si tenne dal farsi omicida egli stesso. E invero, la vita degli uomini, o strumenti o vittime ch'e' se li assegnasse, fu a lui meno che nulla: nel che pur troppo quella rozzezza di medio evo agevolmente si conciliava con la ferocia, più o meno dissimulata, che l'istinto della conservazione e i clericali sofismi del diritto divino connaturavano alle tirannidi dinastiche. Dalla Eleonora di Toledo che, data a lui dalla Spagna, molto conferì a improntare di spagnuolo la novella corte, ebbe figliolanza, salvo uno, Ferdinando granduca, tutti, quanti essi furono, di tragiche sorti: Maria, morta giovinetta non si sa se d'amore o di veleno; Isabella Orsini e Lucrezia d'Este, la prima certamente uccisa dal marito; Garzia e Giovanni, mancati di precipitosa morte insieme con essa la madre; Pietro, perdutissimo uomo, più scherano che principe, assassino dell'altra Eleonora di Toledo che fu moglie sua sciagurata; Francesco successore, mal vissuto e finito in turpe abbandono di sè a grossolani abusi: per non dire degli altri due figliuoli che Cosimo ebbe, Giovanni (uomo di venturosa vita) da una Albizzi, e Virginia (che andò sposa, e vittima a un altro Estense) dal secondo senile matrimonio con una Martelli.

La figura di Cosimo esce da que' suoi trentasette anni di regno, luminosa di carattere, di genio politico, d'una forte, profonda, imperturbata coscienza di quanto egli principe doveva a sè e al paese ch'egli in sè impersonava: tenebrosa di propositi inflessibili, di bieche violente passioni, il cui impeto pure gli concedeva una feroce apatia al bene ed al male. Uomo terribile al fare; e a ciò che di fare si prefiggeva, e quasi si decretava, subordinatore di tutti i sentimenti, di tutti i principî, di tutti i doveri. “Ho fiducia (diceva) in Dio e nelle mie mani„: nella quale specie di complicità fra coteste mani ducali e quelle sante di Domeneddio si potrebbe, anche essendo teologi molto indulgenti, osservare qualche cosa. Forse ne' tempi da lui vissuti, per riuscire a quel ch'egli riuscì, non si poteva essere diversi da quel ch'egli fu.

La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895

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