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IV.

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Se diremo, che pel capo di Francesco la corona della Toscana trapassò da Cosimo al successore suo vero Ferdinando, avremo giudicato, in confronto del padre e del fratello, quel secondo granduca, degno allievo di corte iberica, duro ad ogni buona cosa, ad ogni cattiva mollissimo, il dammeno di tutto il principato mediceo, e che quasi in tutti gli atti della sua vita si mostrò men che principe e men che uomo: cosicchè ne' suoi tredici anni di regno, dal 1574 all'87, anche quello di buono, a che pose mano, gli si sviava nel male. Il che addimostrò egli nel resistere, ma con effetti disordinati e manchevoli, alle pretese giurisdizionali della Curia di Roma; e nel curare la prosperità economica dello Stato, ma con leggi proibitive, tanto più condannabili in quanto poi vantaggiavano nel suo privato i commerci da lui esercitati con avidità più che di mercatante; e nel favorire le arti, che si adornarono delle opere del Buontalenti, dell'Ammannato, di Gianbologna, del Bronzino, del Poccetti, spesso però con intenti subordinati al vacuo fasto cortigianesco; e nel mostrarsi non alieno dalle lettere, ma alla protezione verso la Crusca frammettendo il favore per le censure o piuttosto fiorentine vendette del cavaliere Salviati in odio a Torquato Tasso; e appassionandosi per le scienze naturali, ma col perdersi dietro alle vanità, e alle stolte cupidigie dell'alchimia. L'atto suo più efficacemente regio fu forse l'aver proseguito, come poi anche il successore Ferdinando, l'incremento del porto e città di Livorno: e l'atto più sciagurato, la tresca, mescolata a bestiali stravizî e saldata dall'assassinio del marito, la tresca con Bianca Cappello; per la quale fu intronato il malcostume e lo scandalo che serpeggiavano per entro tutta la famiglia, e quasi, a maniera mussulmana, convertita la reggia in alcova, finchè nel simultaneo disfarsi d'ambedue i turpi coniugi si adempiè, a distanza di poche ore dell'uno dall'altro, la giustizia vendicatrice dello strazio indegno sofferto dalla granduchessa legittima la virtuosa Giovanna d'Austria. Si può dubitare se sia giusto il paragone che si fa di Cosimo con Tiberio, e vedere invece maggior convenienza a lui nelle virtù e nei vizi d'Augusto: ma egli è poi certo che in Francesco ebbe Firenze il suo Claudio.

Ed altresì certo, che Ferdinando I possa, fatta ragione dei termini di così diseguali proporzioni, essere avvicinato fra quei romani Cesari ai più equabilmente temperati. Se, a dinastia finita, Firenze avesse dovuto decretare pubblica onoranza monumentale ai veramente insigni fra i granduchi medicei, sarebbero egualmente le statue di soli due, Cosimo I sulla piazza della Signoria e Ferdinando I su quella dell'Annunziata, che ci sorgerebbero oggi, come ci stanno infatti e in Firenze e in Pisa, dinanzi: nè dello avere Ferdinando “coi metalli rapiti al fero Trace„, com'egli scrisse in quel bronzo, monumentato non tanto, del resto, sè stesso, quanto le sue vittorie sui barbareschi, gli faremo noi carico, se pensiamo che decretate più tardi, quelle due statue le avremmo avute da ben altre mani che da quelle di Gianbologna.

Salito al trono in veste tuttora da Cardinale, Ferdinando portò con sè come un'aura di pacifica dignità, che rompendo le atroci tradizioni domestiche, molto valse a ricomporre e ricondurre verso il Principe gli animi dal duro imperio di Cosimo sbigottiti, dalle brutalità di Francesco nauseati. La politica indipendente con la quale si svincolò dalla soggezione spagnuola, ebbe, fra il 1589 e il 1600, suggello in due matrimonî francesi: il suo proprio, conciliato dalla vecchia regina Caterina, con Cristina di Lorena, che gli fu degna compagna di vita e di governo, e quello, non altrettanto felice, di Maria, nipote di lui col re Enrico IV, riamicato ch'e' l'ebbe alla Chiesa. Nè per questo potè dirsi aver egli non altro che mutata servitù: perchè e verso la Francia e verso la Spagna mantenne il proprio diritto, e l'amicizia sua fece desiderabile e ricercata all'una e all'altra delle due potenze che si maneggiavan l'Italia; e fra l'una e l'altra seppe esercitare autorità non infruttuosa pel trattato di Vervins che lo pacificò: — e la sua bandiera sul castello d'Iff nel mar di Marsiglia; e le pratiche per l'acquisto del marchesato di Saluzzo a bilanciare le ambizioni italiche di Carlo Emanuele nostro; e la partecipazione alle guerre imperiali contro il Turco; e le fortunate imprese delle sue galere Stefaniane contro i pirati africani; furono altrettanti atti del governo sagace, vigoroso e prudente, per i quali la Toscana, nella malcongegnata macchina di quella Italia del secolo XVII, si acquistò e conservò un'autorità, che la postura sua al centro della penisola rendeva doppiamente salutare e onorevole, non pure all'interesse dinastico del granducato, ma altresì al nome, fosse pure mero nome, d'Italia.

Mite, ma non dimesso d'animo; accorto, preveggente, operoso; dalle relazioni col padre e con Francesco e con l'altro fratello Pietro, aspre e difficili, ammaestrato per tempo a far suo pro de' loro trascorsi e a curare negli altri ed in sè le magagne della propria stirpe; e nella vita cardinalizia romana dirottosi a prendere pel loro verso uomini e cose; egli portò nel suo governo tutto il beneficio di quelle qualità sue morali, e di questa non lieta e paziente esperienza. Splendidamente riassunse, sì da cardinale e sì da granduca, la tradizione domestica di mecenate. Dei tesori d'antica arte che da Roma più tardi immigrarono in Firenze, molto (e basti ricordare la Venere, la Niobe, i Lottatori, l'Arrotino) si deve a lui, che ne avea adornato da Cardinale villa Medici. Splendido fregio d'arte nuova alle pompe cortigiane, in cui si adagiavano ormai domi cuori ed ingegni, furono il melodramma nascente, il commesso in pietre dure, l'ambizione del principe d'aver cortigiani che si chiamavano Chiabrera o Guarini; e il Chiabrera ne ispirava quella sua ingegnosa poesia di riflesso, a favoleggiare epicamente sulla Firenze de' tempi barbarici, o a pindareggiare sulle palestre della Firenze granducale, o sulle imprese cristiane del naviglio toscano. E ben potevano coteste avventure marittime atteggiarsi a piccole crociate, se è vero che e Ferdinando e poi il figliuolo Cosimo II, ambedue eroi del poeta savonese, vagheggiassero l'idea cavalleresca d'una rivendicazione, anzi trafugamento, del Santo Sepolcro; e che a ciò fosse destinata la nuova cappella Laurenziana, lussureggiante di marmi, che fu invece e rimase la Cappella dei Principi e loro sepolcreto. Da cosiffatti pensieri, i quali forse in animo di principe italico erano l'estremo guizzo del sentimento cristiano che pure in quel secolo produsse alla civiltà Lepanto e la Gerusalemme, non diremo alieno l'adoperarsi di Ferdinando per una stamperia orientale, fruttuosa agli studi fin ne' giorni nostri medesimi. Nè ciò gl'impedì le cure dei traffici (e fu lui l'ultimo mercatante mediceo) alimentatori d'una ricchezza più che regia, e per i quali il vincitor de' pirati dicesi non isdegnasse, talvolta anche a loro cooperazione, l'industria dei contrabbandi marittimi; ma del cui frutto, a ogni modo, si vantaggiavano i bonificamenti aretini e di altre parti del dominio, che dalla mano di Ferdinando ricevè insomma quella coesione economica e politica di granducato toscano, la quale perdurò fin che una Toscana politica ha conservata ragione di essere.

La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895

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