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Capitolo I.
Mandato a confine
Оглавление«Illustrissimo Signor Conte,
«Con grave rincrescimento, ma non senza il conforto di vedere evitato un male più grande, annunzio alla Signoria Vostra Illustrissima come il governo di Sua Altezza Serenissima abbia posto gli occhi sui diportamenti del signor conte Gino, di Lei figlio primogenito. Le sue relazioni con persone indegne e non convenienti al suo grado, i viaggi frequenti, uno dei quali fu protratto, come consta a questo ufficio, ben oltre i confini dei prossimi Stati di Parma e Piacenza, e finalmente lo scandaloso episodio della scorsa domenica, nella villa dove il predetto conte Gino di Lei figlio ha osato trarre da un mazzo di fiori sconvenientissime allusioni alla bandiera piemontese, hanno costretto il governo di S. A. S. ad uscire da quei riguardi che il cuore paterno del nostro augusto Signore avrebbe pur voluto osservare.
«La severità delle disposizioni sarebbe stata più grande e meglio proporzionata alla gravità dei trascorsi, se all'animo della prefata Altezza Sua non fosse piaciuto di temperare i proprii e giusti rigori, pensando ai meriti della S. V. Ill.ma, e ricordando com'Ella, da leale e fedelissimo suddito, anche in tempi più sciolti, quali furono quelli dell'infausto 1848, ricusasse costantemente di riconoscere il sedicente governo dei rivoltosi. Egli è per ciò che la prefata Altezza si è degnata di comandare che il conte Gino Malatesti vada a confine a Querciuola, e più non ne esca fino a nuovo ordine, come correzione sua, se è possibile, e come esempio salutare ad altri nobili, che potessero derogare siffattamente al grado loro, e venir meno in tal guisa alla benevolenza del Padrone, da dimenticare in qualche modo il loro obbligo di fedeltà.
«La differenza fra il trattamento usato al predetto suo figlio e quello che toccherà agli altri suoi complici, dimostrerà alla S. V. Ill.ma quanta clemenza alberghi nell'animo del nostro venerato Signore. Disponga Ella pertanto, appena ricevuta questa confidenzialissima lettera, che il figlio suo conte Gino, senza indugio di ore, senza tentar di comunicare con altre persone, o di presenza, o per lettere, sia avviato alla sua destinazione. Non le nascondo che questo ufficio dovrà vegliare dal canto suo all'adempimento rigoroso dell'ordine e delle sue modalità, quali ho avuto l'onore di significarle.
«Colgo l'occasione, illustrissimo signor Conte, per rassegnarle gli atti della mia servitù, ecc., ecc.»
Così il direttore di polizia del duca di Modena, in un giorno del 1857, che non occorre di precisare. La lettera era diretta al conte Jacopo Malatesti.
Il conta Jacopo era un fedel servitore del duca. La madre sua, una Lanzoni, era stata dama d'onore di Maria Beatrice d'Este, ultimo rampollo delle famiglie Cibo ed Estense. Il padre era morto ciambellano del duca Francesco IV. Egli, poi, si era diportato stupendamente nel 1848, poichè aveva voluto accompagnare fino alla frontiera il suo buon padrone Francesco V, quando questi, costretto ad abbandonare la sua residenza ducale, era corso a ricoverarsi sotto le grandi ali dell'aquila austriaca. Ragioni domestiche, prima tra le quali la cura del suo patrimonio, non gli avevano consentito di andare più in là, fino a Vienna; ma, anche ritornato in patria, il conte Jacopo aveva dato un insigne esempio di fedeltà al suo padrone, poichè si era chiuso nel suo palazzo, tenendone chiuse le finestre e le persiane verso la strada, fino a tanto durò la baldoria dei liberali. «Baldoria» era il termine usato da lui. Il palazzo dei Malatesti sorgeva sulla strada maggiore della città; le occasioni di ostentare la chiusura delle finestre erano molte, e per conseguenza erano anche molte quelle di far perdere la pazienza ai liberali. Ma nessuno lo aveva molestato; si era riso alla prima circostanza, si seguitò a ridere per le altre; e voi lo sapete, quando un popolo ride, è un popolo che non rompe i vetri a nessuno. Il conte Jacopo raccolse i benefizi di quelle risate, e potè vantarsi più tardi che i ribelli non avessero osato. Nell'aprile del 1849, prostrate sui campi di Novara le fortune d'Italia, Francesco V era ritornato tra i frementi suoi sudditi, ma con le baionette austriache al fianco, e primo a muovergli incontro, per dargli il benvenuto nei suoi felicissimi Stati, fu il conte Jacopo Malatesti.
Come potesse educarsi tanto diverso da lui il conte Gino, in verità non si riesce ad intendere. Ah, questi figliuoli, questi figliuoli!.. come girano nel manico! come vengono su diversi dai padri! Il conte Gino era venuto su un fior di liberale, da una stufa sanfedista! E non si contentava mica di essere un liberale dentro di sè, conservandosi per tempi migliori; no, voleva dare anche scandalo alle turbe. Figuratevi che sdegnava di presentarsi a Corte, quantunque vivesse con uno sfoggio da gran signore, mettesse volentieri in mostra i suoi cavalli e facesse regolarmente le follìe di tutti i suoi pari. Ma che volete? In mezzo a tutte queste grandezze, il liberale a quando a quando scattava fuori, e lo dimostrava sopra tutto una certa smania di discendere, di stringer la mano a tutti, di darsi del tu con avvocatuzzi e mediconzoli, magari anche con commessi di banco: gente inferiore, non conveniente al suo grado, come diceva con sua particolare eloquenza il signor direttore di polizia.
E poi, quel suo viaggiare continuo! Per Bologna, passi, che era negli Stati pontificii; quantunque, avendo essa un certo numero di teste esaltate, si sarebbe piuttosto gradito che il conte Gino si astenesse dall'andarci. Parma e Piacenza, così così! Per che farci, del resto? Veduti una volta a Parma i dipinti del Correggio, a Piacenza i cavalli dei Farnesi, non si dovrebbe più sentire il bisogno di rifare la strada. Già, qualunque sia il movente del viaggio, salvo quello di una stretta necessità domestica commerciale, un suddito che viaggia è in procinto di diventar meno «fedelissimo» d'un suddito che sta fermo. Si prende tropp'aria; l'ossigeno della libertà è pericoloso, senza contare il rischio di tingersi nel carbonio delle idee sovversive. Ma il conte Gino Malatesti aveva fatto peggio che calare a Parma e Piacenza; si era trafugato in Lomellina, e via via fino a Torino, capite? a Torino, dove sventolavano i tre colori, quell'abominio, e dove vivevano liberi, quasi rispettati, tutti i rompicolli d'Italia.
Sicuramente, il giovinotto avrebbe potuto invocare per questa scappata più che le circostanze attenuanti: avrebbe potuto addurre a sua scusa lo aver seguita la marchesa Baldovini, quella bella matta, che aveva una figlia già grandicella, la quale prometteva di diventar così bella anche lei, tanto da parer sua gemella. Era uno dei fiori della generazione passata, la signora marchesa Baldovini, Polissena di nome, e molti vecchi la ricorderanno ancora con un palpito. Nata intorno al 1820, era del 1857 una bellezza matura e stupenda, citata a Piacenza come a Bologna, a Torino come a Firenze, nota insomma a tutta l'Italia superiore per la sua alta galanteria, per il suo matto spendere, per le teste che aveva fatte girare. E giovane sempre, ad onta di tante avventure, che facevano argomentare più anni dei suoi trentasette; e un certo modo di vestire, e un garbo, una baldanza, nel far sue le più stravaganti novità parigine, che non si poteva andare più in là, nè immaginar niente di meglio.
Molti avevano fatto pazzie, o semplicemente sciocchezze, per la marchesa Polissena. Doveva il conte Gino astenersi da quella di accompagnarla fino a Torino, dove la chiamavano alcuni interessi di famiglia? Ella, in fondo, lo aveva quasi rapito. Da principio si era parlato di giungere fino alla frontiera parmense, donde la marchesa avrebbe proseguito da sola il viaggio. Ma là, dopo Piacenza, la capricciosa signora aveva detto a Gino: – Sarebbe bella, se voi veniste fino a Torino. – Ed egli aveva risposto: – Sarebbe anzi bellissima. – E senza permesso era andato oltre, ed era rimasto due settimane, nella capitale dell'aborrito Piemonte. Si possono fare molte cose, in due settimane. Perciò immaginate come fosse pedinato, osservato, invigilato, quando fu di ritorno sotto la giurisdizione della Bonissima!
Colpa sua, questa volta, e non più della marchesa Baldovini: una domenica, essendo andato in villa, presso Reggio, con certi avvocatuzzi e mediconzoli (professionacce, come vedete!) aveva salutato sul finir d'un banchetto i tre colori d'Italia. Quello era lo scandaloso episodio, a cui alludeva nella sua lettera il direttore di polizia. Il brindisi, ispirato da un mazzo di fiori che sorgeva in mezzo alla tavola, includeva i soliti voti di distruzione dell'ordine stabilito. I diritti degli Este e dei Cibo, passati per il matrimonio di Maria Beatrice nella augusta casa di Lorena, erano audacemente negati; la felicità dei ducati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla, la sicurezza di Parma e Piacenza, e degli altri Stati contèrmini, la stessa pace d'Europa, tutto era turbato, minacciato da quel brindisi. Un esempio voleva essere, e pronto. Gli avvocatuzzi e i mediconzoli sarebbero andati a meditare nuove combinazioni di colori in fortezza. Gran mercè per il conte Gino, figlio al conte Jacopo, che era figlio di ciambellani e di dame d'onore, personaggio di pura fede e degno di tutti i riguardi, esser mandato semplicemente a confine.
Il nostro giovinotto non ebbe che il tempo strettamente necessario a far le valigie. L'ordine della polizia ducale era chiaro e non ammetteva eccezioni. Ma perchè le valigie le facevano i servitori, il conte Gino ebbe il tempo di ricevere una solenne ramanzina dal conte padre, in presenza della famiglia, radunata nella camera di giustizia, dov'era dipinto, in mezzo a tutti gli stemmi di parentela, lo scudo dei Malatesti. I Malatesti di Modena, come quelli di Rimini, di cui erano una diramazione, portavano lo scudo inquartato: il primo e il quarto di verde, con tre teste di donne, di carnagione, crinite d'oro: il secondo e il terzo d'argento, con tre sbarre scaccate di nero e d'oro, di due file: il tutto con la bordura inchiavata d'argento e di nero.
Quanto a salutare la bella marchesa Baldovini, non c'era neanche da pensarci. Le valigie erano fatte; la carrozza era pronta nel cortile del palazzo; bisognava partire, e subito. Tra le persone di servizio ci potevano essere, c'erano sicuramente, le spie; anche per via la carrozza sarebbe stata invigilata dalle guardie ducali travestite. Tutto ciò che il conte Gino ottenne, fu di passare per il Corso, l'antica via Emilia, dove alloggiava la marchesa, quantunque il Corso mettesse a porta Sant'Agostino, verso Reggio, mentre, per escire da porta San Francesco, sulla via di Toscana, bisognava fare un più lungo giro, con una voltata ad angolo acuto.
Il palazzo Baldovini, nobilissima costruzione del Cinquecento, resa pesante e goffa da certi restauri ed intonachi del Settecento, era muto d'ogni luce, quantunque fossero a mala pena le nove di sera. Non era giorno di conversazione, del resto, e le finestre del salottino, dove Polissena aspettava i più intimi visitatori, guardavano dalla parte del giardino. Il nostro povero eroe sentì uno schianto al cuore, pensando che a quell'ora egli era aspettato lassù. Ma la carrozza tirò via, e il conte Gino aveva ventisei anni: un'età in cui gli schianti del cuore non sono niente più pericolosi dei raffreddori.
Sospirò, nondimeno, uscendo dalla città della Bonissima e allontanandosi Dio sa per quanto tempo dall'ombra materna della sua Ghirlandina, una delle sette più alte torri d'Italia. E il suo sospiro fu così forte, da muovere il servitore che gli faceva compagnia nel viaggio.
– Soffre, illustrissimo? – domandò questi rispettosamente, ma con quell'accento affettuoso e quasi familiare dei servitori del vecchio stampo.
– Sì, Giuseppe, e molto; – rispose il conte Gino.
– È dolorosa, – ripigliò allora il servitore, – dover lasciare da un momento all'altro la sua città, la sua famiglia… gli amici! Perchè Lei, illustrissimo, non avrà avuto tempo a vederne nessuno.
– Figurati! Due ore fa pensavo a questo viaggio, come ci pensavi tu stesso, che non ne sapevi un bel nulla. Ma tu ritornerai domani o doman l'altro; ed io, invece… chi sa quando rivedrò la mia Modena!
– E i suoi amici! – soggiunse Giuseppe. – Se crede, signor conte… se vuole avere un po' di confidenza in me… Ella mi conosce poco, perchè son sempre stato più accanto al signor conte Jacopo che a Lei; ma sono un uomo fidato, e se posso servirla… se ha commissioni da darmi, non dubiti, farò ogni cosa a dovere. La penso come Lei, sa? come Lei, e mi strapperebbero la lingua, piuttosto che cavarmi di bocca un segreto che Ella mi avesse confidato, —
Il conte Gino mise una mano sulla spalla del servitore.
– Bravo, Giuseppe! – gli disse. – E grazie; se occorrerà, metterò la tua amicizia alla prova. —
Ma egli non aveva veramente da confidargli nulla. Con gli amici suoi non c'era ombra di combinazioni politiche. A quei tempi non occorreva neanche cospirare; la rivoluzione era nell'aria; i giovani e i maturi si riconoscevano per via a cert'aspetto più ilare, più baldanzoso di prima, si stringevano la mano con forza, anche quando si vedevano per la prima volta, e non c'era più altro da aggiungere, nè concerti da prendere, nè parole d'ordine da far correre intorno.
Otto anni prima era stata una triste caduta delle speranze italiane. Ma a quella caduta era seguito più dolore che abbattimento di spirito. Anche i principi, i tirannelli, rientrando nei loro dominî sotto la scorta delle baionette austriache, non potevano esser peggio ispirati, poichè gli stranieri, abbastanza tranquilli da prima, erano ritornati burbanzosi e tracotanti; nè solamente trattavano con soldatesca arroganza i ribelli, coloro che avevano osato prender le armi per la «guerra santa», ma anche i pacifici e timorosissimi sudditi, che avevano tremato per le incertezze dei nuovi tempi e veduto con una certa soddisfazione il ritorno degli antichi padroni. Ahimè! Qual compagnia rumorosa e molesta conducevano quei cari padroni con sè! Non era per le vie che un batter di sproni, e un saltellar di sciabole sul ciottolato. I caffè invasi; i quadrivii occupati, contesi al passaggio dei cittadini; da per tutto un vocìo di ordine ristabilito, di armi vittoriose, di birbanti italiani rimessi al dovere. Anche quei pacifici e timorosissimi sudditi erano Italiani, e l'offesa toccava anche loro. Nè il caro ed amato principe si prendeva la briga di reprimere la burbanza de' suoi alleati, quando nei caffè insolentivano con gli uomini, o per le vie mancavano di rispetto con le donne, o nelle botteghe pagavano quel che volevano, se pure non pagavano affatto. Si narra del ritorno degli Austriaci a Milano (veramente, dopo la caduta dell'effimero regno di Eugenio Beauharnais), che un caldo amico dei vecchi oppressori andò incontro ai soldati delle uniformi bianche, e, vedute entrare le artiglierie in città, preso da un impeto di passione, si fece avanti per toccare con le sue dita un cannone. Tanto amore doveva avere il suo premio, e l'ebbe subito dalla bacchetta di nocciuolo di un caporale, che gli levò dal dorso della mano due centimetri almeno di pelle. Bravi caporali, che picchiavate così sodo; bravissimi tenenti, che facevate suonar così bene gli sproni e saltellare le sciabole sui selciati italiani; eccellenti principi, che non facevate rispettare i vostri fedelissimi sudditi, e lasciavate che i vostri felicissimi Stati fossero trattati come territorio di conquista; grazie a voi tutti, dal profondo dei cuori!
Così erano alienati dalla restaurazione gli animi di quei medesimi che l'avevano invocata. Frattanto, il giovane Piemonte reggeva contro le esortazioni e perfino contro le minacce dei consiglieri settentrionali. Generalmente, non s'intendeva come fosse spalleggiato, incuorato a resistere, e pareva strano quell'ardimento di un piccolo Stato che manteneva, unico in Italia, la sua costituzione liberale ed ospitava i fuorusciti, i naufraghi di tutte le rivoluzioni della penisola. Ma già tutti intendevano come da quella diseguaglianza di forme e d'indirizzi, che era visibile tra esso e gli altri Stati italiani, dovessero nascere attriti, malumori, quistioni grosse, e un giorno o l'altro ragioni di guerra.
E poi, quel piccolo Piemonte, che pochi anni addietro aveva dovuto rimettere la spada nel fodero, che aveva dovuto ricevere entro le mura di Alessandria un presidio nemico, sentendo suonare dalla sua musica schernitrice l'inno dei Fratelli d'Italia, quel piccolo Piemonte aveva sollecitamente provveduto a riordinare l'esercito. Un bel giorno, che è, che non è, quel piccolo Piemonte osava mandare ventimila uomini a combattere nella Crimea, accanto agli eserciti di Francia e d'Inghilterra. Le condizioni d'Europa incominciavano a chiarirsi: Francia e Inghilterra da un lato; Austria e Stati minori della Germania dall'altro. Si metteva da questo anche la Russia? Dall'altro si aggiungeva la Turchia. Erano ancora tre contro tre, e il Piemonte nel mezzo, il Piemonte, che, vincendo al ponte di Traktir, accennava di voler crescere ancora, e chi sa, di rifar esso l'Italia.
Questi i fatti d'allora; queste le ragioni per cui non era mestieri di cospirare, la rivoluzione essendo nell'aria, come l'ossigeno. Quind'innanzi non sarebbe più bisognato dare il proprio nome ad una società segreta, ordire focosi disegni di rivolta a giorno fisso, farsi spiare, correr pericolo di tradimenti e d'insidie. Una parola colta a volo, un'occhiata, una stretta di mano e un sorriso, dicendo le comuni speranze, affratellavano i cuori. Che bisogno c'era egli di dire il giorno e l'ora, se l'uno e l'altra erano vicini? Poteva battere da un anno, poteva battere da due; ma a chi aveva tanto sofferto, a chi ricordava tanti secoli di servitù e di vergogna, due anni, tre anni, anche quattro, si potevano aspettare, maturando i propositi della riscossa. Ormai questa non doveva mancare; i giovani di quella generazione sentivano istintivamente che ne sarebbero stati essi i soldati.
Il conte Gino era uno di questi cospiratori, senza giuramento e senza parola d'ordine. A Torino, dove la polizia s'immaginava ch'egli avesse preso accordi con qualcheduno, a Torino egli non aveva fatto altro che respirare un po' d'aria libera. Neanche s'era avvicinato a fuorusciti modenesi o parmensi, che egli, figlio di cortigiani ducali, conosceva solamente di nome. Per altro, aveva passeggiato sotto i portici di Po, dove si confondevano tutte le parlate d'Italia, quasi prenunziando l'unità della patria intorno all'aula del palazzo Carignano; aveva incontrato Giovanni Prati e Giuseppe Revere, i due poeti, i Diòscuri della nuova êra italiana, amati, seguiti, acclamati dalla gioventù pensante e volente; aveva udita la tribunizia eloquenza del Brofferio, e la diplomatica parola, qualche volta impacciata, ma sempre piena di pensiero, del conte di Cavour; aveva veduto per via, riverito universalmente, un re soldato, un re galantuomo, che pareva col mobile sguardo prometter sempre un'alzata di scudi per il giorno vegnente; a farvela breve, nei passeggi, nei ritrovi, nei parlamenti, nelle rassegne militari, dovunque, aveva indovinata la cura operosa dei tempi grossi; sentito quasi l'odor della polvere.
E questo, ritornando a Modena, questo aveva comunicato, senz'aria di mistero, come senz'ombra di millanteria, a giovani della sua età, sebbene, come diceva il direttore di polizia, «non convenienti al suo grado.» Dèi buoni! Quelli erano stati i suoi compagni di studio, i suoi colleghi d'università. Come mai avrebbe potuto egli non considerare uguali coloro che erano stati seduti con lui sulla medesima panca, a sentire le medesime lezioni? Più saggi dei moderni, quantunque niente più fortunati, i tiranni antichi avevano lavorato a rendere la nobiltà ignorante. L'istruzione, a tutti egualmente impartita, accomuna le classi, colma gli abissi e sopprime i confini. Che conti e che marchesi? Queste distinzioni, quando non sono una giunta particolare e naturalissima al nome di famiglie veramente storiche (nel qual caso si potrebbero anche ommettere, senza toglier lustro a que' nomi), non hanno più valore che per le dame, essendo dimostrato che una corona di tre fioroni, o di nove perle, fa ancora un bel vedere sui biglietti di visita e sugli sportelli delle carrozze. Povera feudalità, ridotta ad un semplice ufficio decorativo! Ma siamo giusti, perbacco, e non dimentichiamo che la corona sullodata sta anche bene sulla biancheria, come a dire sui capi delle tovaglie e dei fazzoletti da naso.
Ai suoi buoni amici plebei, compagni d'università e fratelli di fede, il conte Gino Malatesti non aveva nulla da scrivere. L'offerta di Giuseppe non poteva dunque favorire la politica. Ma il pensiero di Gino, svegliato da quella offerta inaspettata, corse subito ad altro.
– Tu, dunque, – diss'egli, dopo un istante di pausa, – mi servirai fedelmente? Ad ogni rischio? E mio padre non saprà nulla? —
Ad ognuna di quelle domande aveva risposto con bella progressione di calore un sì del suo compagno di viaggio.
– Bene; – ripigliò il conte Gino; – tu puoi rendermi un servizio maraviglioso. Non mi hanno permesso di fare neanche un saluto, temendo forse che il saluto nascondesse Dio sa che cosa! Tu dunque andrai domani, o doman l'altro, al palazzo Baldovini, con un pretesto qualunque… Potresti, per esempio, riportare un libro, che mi è stato imprestato: il Mauprat, di Giorgio Sand, che è per l'appunto rimasto sul mio tavolino. Con questa scusa cercherai di vedere la marchesa Polissena, e potrai consegnarle il biglietto che io ti scriverò alla prima fermata.
– Non dubiti, illustrissimo; – rispose Giuseppe; – farò la commissione a dovere. Anche la signora marchesa, – soggiunse poscia, abbassando la voce, – è della buona causa? —
Gino trattenne in tempo una risata, che già gli faceva impeto alla gola. Ma era buio fitto, e Giuseppe non vide neanche la contrazione dei muscoli.
– Ah! – disse Gino. – È una dama di alto sentire. Tu le darai notizie di me, del modo in cui son dovuto partire da Modena. Forse domani la cosa sarà conosciuta; ma la marchesa deve sapere che io avevo tentato di vederla. Il biglietto, poi, come farglielo giungere?.. Se ti frugano, alle porte?.. Capirai che un sospetto può nascere…
– Sospetti su me, illustrissimo? Non ne hanno.
– Bravo! E come lo sai?
– Ne ho avuta la prova; – rispose Giuseppe, sospirando. – Si figuri che m'hanno domandato di fare… la spia. Ed io ho ricacciata la mia rabbia in corpo, ed ho lasciato credere che al bisogno avrei anche traditi i miei padroni. Volevano sapere chi bazzica in casa, che discorsi si fanno… Ed io ho detto tutto; s'immagini; non c'è niente da nascondere.
– Lo credo bene! – esclamò Gino. – Ma è strano, sai! È strano che non si fidino neanche di mio padre.
– Che vuole, illustrissimo? Così è; – rispose il servitore. – Ma io li ho serviti bene, da vecchio carbonaro.
– Carbonaro, tu, Giuseppe?
– A quei tempi, sì.
– E in casa di mio padre?
– Ho sempre fatto il mio dovere, signor conte.
– Lo so, e non parlavo per questo; – disse Gino. – Ti esprimevo la mia meraviglia e nient'altro. Chi lo avrebbe mai immaginato che ci fosse un carbonaro, in casa Malatesti!.. E nel Quarantotto, poi, come hai fatto a tenerti in corpo il tuo segreto?
– Amavo la casa, illustrissimo; amavo i figli del mio padrone, che erano cresciuti così belli e fiorenti sotto i miei occhi. Ma anche tenendomi il segreto in corpo, come Ella dice, ho fatto quanto era in me, per servizio della buona causa. Fu bene che avessi nascoste con tanta cura le mie opinioni, perchè, quando venne la restaurazione, nessuno dubitava del vecchio servitore di casa Malatesti, ed ho potuto rendere qualche grosso servizio ai patrioti.
– Bravo Giuseppe! Tu mi parli con una confidenza!
– Signor conte, Ella è dei nostri; – rispose Giuseppe. – Non la mandano in esilio, per questo?
– È vero; – disse Gino, che a quella parola «esilio» si sentiva crescere di qualche cubito nella propria estimazione. – Tu dunque sei per me l'inviato della provvidenza. E mi porterai il biglietto. Ma se ti frugano, laggiù?
– Se mi frugano, non troveranno un bel nulla. Ci son tanti modi di nascondere un pezzettino di carta! Lasci fare a me, signor conte; e nella rivolta della giacca, o nella fodera delle maniche…
– Bene, bene! – interruppe Gino. – Ne parleremo a Paullo. L'essenziale è di far sapere ciò che mi è occorso alla marchesa Polissena. —
L'idea di poter mandare un biglietto alla bella Baldovini calmò gli spiriti esacerbati del conte Gino, il quale finì con pigliar sonno. Quando si svegliò, la carrozza entrava a Paullo.
Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato, poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli abiti.
Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente così:
«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola, alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi… peggio ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere, fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi amo.»
Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo consegnò al fido Giuseppe.
– E dimmi, – gli soggiunse, – potrai farmi avere ad ogni modo la risposta?
– Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò certamente.
– Troverai persona fidata e sicura?
– Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.
– Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?
– Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e dei miei errori d'italiano.
– Va là! – disse Gino. – Tu pensi da buon italiano, e questo è l'essenziale. —
Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San Pellegrino.