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Capitolo II.
I re della montagna

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Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti, è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco; eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla calva cervice il suo berretto di neve.

Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per guadagnarne la vetta, inerpicarsi sul petroso cono formato dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. Ho detto il petroso cono, e infatti il Cimone presenta da lungi la forma di un cono, rozzamente tagliato, con la vetta spuntata in un pianoro, che ha forse cento metri di giro. A greco il balzo è più scosceso che dalle altre parti, e al piè della roccia, dove incomincia a distendersi il Pian Cavallaro, sgorga la Beccadella, una ricca fonte che basterebbe da sola a far girare la ruota d'un mulino. E quella fonte non è la sola, nè la più alta del monte. Ce n'è qualche altra più in su, verso levante, dalla parte del Cimoncino, con grande meraviglia dei signori naturalisti, a cui, più della salita, riesce arduo di spiegare una così alta origine di copiose sorgenti.

Invito i miei lettori ad una ascesa che non sarà senza compensi. Bolognesi e Modenesi non si terrebbero per alpinisti, se non fossero andati almeno una volta lassù. Le limpide mattinate son rare, pur troppo; ma quando il vecchio Cimone non ha il suo cappello di nuvole, quando sul piano, dintorno a lui, si diradano le nebbie, la veduta è stupenda, dall'Adriatico al Tirreno, dalle Alpi tirolesi, svizzere e francesi, fino alle Maremme e alle isole dell'Arcipelago toscano.

Mentre noi abbiam fatta l'ascensione del monte, il nostro viaggiatore è smontato alle prime case di Fiumalbo. Di là, per andare a Querciola, il conte Gino doveva lasciare la strada maestra e piegare a sinistra, ma per una via meno agevole e con altri mezzi di trasporto. Perciò, consigliato dal vetturino, era disceso davanti alla porta d'un molino, dove una frasca indicava che il mugnaio faceva a ore avanzate anche l'oste, e dove molto probabilmente il nostro Gino avrebbe anche potuto trovare una cavalcatura e una guida per andare a Querciola. Smontato, adunque, e accolto con tranquilla urbanità dal mugnaio, chiese tutto ciò che gli bisognava, incominciando dal desinare.

L'oste mugnaio nuotava nell'abbondanza; ma non aveva lì per lì nulla di pronto. Se il viaggiatore poteva aspettare, egli sarebbe andato a cercare una gallina sul prato, dietro alla casa, e la sua donna non avrebbe indugiato troppo a fargli un brodo conveniente. Ma il conte Gino sentiva gli stimoli della fame, e di una fame da viaggiatore che ha ventisei anni. In pari tempo, sentiva dalla cucina un grato odore di lardo. Il mugnaio cuoceva la minestra per la famiglia. Orbene, e non si poteva mangiar di quella, senza aspettare il brodo di là da venire? Se c'erano delle galline, sicuramente non mancavano le uova. Egli dunque avrebbe sorbito un paio d'uova calde, e magari due paia. Un pezzetto di cacio sarebbe bastato per finire il suo pranzo, che a quell'ora, con quell'aria, e dopo tante ore di viaggio, si poteva chiamar luculliano.

– Se si contenta Lei, facciamo pure così; – disse il mugnaio. – Teodemira, una tovaglia di bucato e una posata al signore. Badi, sono di ottone, le posate.

– Tanto meglio; – rispose Gino. – Sembreranno d'oro. —

La minestra fumante venne in tavola, e il nostro eroe assaggiò la minestra. Era buona, e sarebbe anche stata migliore, se dalla cappa del camino non fosse caduto un po' di fuliggine entro la pentola scoperchiata. Non crediate che il conte Gino la respingesse per così piccolo guaio. L'elegante giovanotto, lo stomaco delicato, che si era già adattato benissimo al condimento montanaro del lardo, si contentò di ritirare con la punta del cucchiaio i grumi di fuliggine galleggianti sulla liquida superficie. Che cos'è infine la fuliggine? Fumo di vivande, condensato lungo le pareti di un camino. Gli antichi, nei loro sacrifizî, in cui erano insieme sacerdoti e cuochi, non offrivano forse il fumo agli Dei?

Mentre il conte Gino attendeva a quella cura, e non senza ridere un pochino del caso suo, un nuovo personaggio entrò nella sala. Era un giovinotto alto e bruno, vestito d'una cacciatora di velluto verde d'oliva; portava le uose di cuoio alle gambe, teneva ad armacollo un bel fucile a due canne, e sulla testa un cappellaccio nero di feltro. Ma questo, da uomo bene educato, se lo levò subito, alla vista del forastiero, scoprendo una capigliatura folta, ricciuta e nerissima.

– Oh, signor Aminta, buon giorno! – disse il mugnaio, andandogli incontro, con atto rispettoso.

– Buon giorno, Gasparino! – rispose quell'altro. – E il grano?

– Per domani, signor Aminta.

– Come? Ancora domani?

– Che vuole? Era tanto! Venga a vedere e si persuaderà. —

Il cacciatore entrò nel mulino, seguendo il mugnaio, e il conte Gino non lo vide più ricomparire nella sala. Stava per finire la minestra, quando il mugnaio ritornò presso di lui.

– Ebbene, – gli disse Gino, – avete pensato alla cavalcatura e alla guida?

– Sissignore, – rispose il mugnaio, – e siamo abbastanza fortunati, perchè il signor Aminta ci pensa egli.

– Chi è il signor Aminta?

– Quel giovane cacciatore che ha veduto poco fa.

– Che, forse dà cavalli a nolo?

– Nossignore, non ne ha bisogno. È il figlio del re della montagna. —

Gino credette lì per lì che il mugnaio gli raccontasse una favola da bambini.

– Caspita! – esclamò. – C'è un re della montagna, qui? E vive nei dominî di un semplice duca?

– Sicuro; – rispose il mugnaio, sorridendo alla celia. – I Guerri si chiamano così, nel nostro paese, tanto son ricchi. Tutto ciò ch'Ella vede dal monte Cimone all'alpe di San Pellegrino appartiene ai Guerri.

– Ah, capisco; – disse Gino. – Perciò li chiamate i re della montagna. E come mai il figlio del re, senza che io abbia avuto l'onore di essergli presentato, si degna di mandarmi una mula e una guida per Querciola?

– Gli ho detto che Vossignoria doveva andare lassù, e il signor Aminta s'è offerto a servirla. Quanto alla presentazione, non ce n'è proprio bisogno. In questi paesi ogni forastiero che arriva è un ospite dei Guerri. La conoscenza, poi, la faranno per istrada.

– Bene! – conchiuse Gino. – Seguitiamo gli usi di questo paese. E datemi le uova, frattanto; non vorrei far troppo aspettare il figlio del re.

– No, scusi; – replicò il mugnaio: – non le posso dar altro. Il signor Aminta se l'avrebbe a male.

– Perchè? Non devo dunque mangiar altro?

– Per ora no, se non le dispiace. Il signor Aminta è escito per mandare l'avviso a casa sua, dov'Ella troverà assai meglio di quello che può offrirle la nostra cucina.

– Oh diamine! È grossa. Eccomi dunque invitato per forza.

– Qui è l'uso, quando passa un forastiero sul territorio dei Guerri.

– Ma qui, scusate, sono in paese abitato.

– Ha ragione; ma il mulino appartiene ai Guerri.

– Ed io mi trovo sul territorio del re, non è vero? – disse Gino, ridendo. – Ma sapete che è un uso piacevolissimo, e che tutti i re dovrebbero introdurlo nei loro Stati? Ottima istituzione, questi re della montagna! Passa un forastiero, in queste gole, e lo invitano a pranzo. Una volta si usava altrimenti; il forastiero, che si arrisicava in questi passi, era invitato bensì, ma a buttarsi con la faccia a terra, e lo svaligiavano senza misericordia. A proposito, e le mie valigie?..

– Le ha fatte prendere il signor Aminta.

– E per che farne, di grazia?

– Per mandarle a casa sua.

– Di bene in meglio! – esclamò Gino, che non sapeva se dovesse ridere, o andare in collera.

Ma perchè andare in collera, poi? Era venuto a cascare nei dominii d'un re, e quel re non somigliava punto al duca di Modena, suo riverito padrone. Questi lo discacciava, quell'altro lo accoglieva. In una cosa sola si manifestava una specie di analogia tra loro; ambedue facevano quel che volevano, senza consultare l'intenzione dei sudditi.

– Io, per altro, – soggiunse Gino, come ultimo atto di protesta, – debbo andare a Querciola.

– Che ci vuol fare, a Querciola? – disse il mugnaio, crollando le spalle. – È un paesaccio.

– Sia quel che gli pare; debbo andarci e ci andrò; – rispose Gino. – Mettete che io abbia da farci degli studi.

– In questo caso potrà sempre inerpicarsi lassù ed arrivarci in un'ora di cammino. Ma, come abitazione, si troverà meglio dai Guerri.

– Dai Guerri? Chi sono i Guerri?

– Gliel ho detto poc'anzi: la famiglia del…

– Ah sì, lo ricordo ora, del signor Aminta. Ed anche non ricordandolo, dovevo immaginarmelo.

– Hanno un alloggio molto comodo; – rispose il mugnaio.

– Lo capisco; – disse Gino. – Sarà una reggia, se i padroni sono i re della montagna. E voi mi dite che in un'ora si può andare a Querciola?

– Dalle Vaie, sicuro.

– Le Vaie! Che cosa sono le Vaie?

– Il luogo di abitazione dei…

– Basta, ho capito anche questo; – interruppe Gino, ridendo. – Caro amico, vi ringrazio delle vostre informazioni, che finiscono tutte ad un modo, come i salmi. Non mi resta ora che di pagarvi il conto.

– Perdoni, signor mio; – disse il mugnaio, schermendosi.

– Come? Non si usa pagare il conto, alla vostra osteria?

– Si usa, sì; ma in questo caso… Ella non ha mangiato che una cattiva minestra… E poi, il signor Aminta non permetterebbe.

– Ah, per tutti i… re della montagna, ed anche della pianura, questa è grossa davvero. E se io volessi darvi uno scudo…

– Quando Vossignoria lo volesse ad ogni costo… – rispose l'altro, facendo bocca da ridere.

– Ah, finalmente! – gridò Gino, mettendo mano alla borsa. – Ne vinco una io, sul vostro signor Aminta. —

Pagato a quel modo lo scotto, il conte Gino escì dall'osteria, per avviarsi sulla strada che avevano già presa le sue valigie. Quasi sarebbe inutile il dire che lo guidava il mugnaio, poichè egli, ignaro affatto dei luoghi, non avrebbe saputo da qual parte voltarsi.

Passarono sopra un ponte di legno il ruscello che forniva l'acqua al mulino, e di là presero a salire un sentiero largo e sassoso in mezzo ad una boscaglia di cerri, rada nei tronchi, che apparivano grossi e diritti, ma folta in alto, per la diffusione dei rami.

I cerri sono le quercie delle alte convalli, dove il freddo regna più a lungo. Robusti e previdenti, hanno la corteccia più fitta, e le loro ghiande portano il cappuccio lanoso.

Il conte Gino aveva fatto appena un cento metri di strada, quando attraverso i radi tronchi dei cerri vide discendere dall'erta uomini e cavalli.

– To'! – diss'egli. – Una cavalcata. Com'è pittoresca!

– È il signor Aminta che ci viene incontro; – rispose il mugnaio.

– Sempre Aminta! – gridò il conte Gino. – Caro mio, Torquato Tasso dovrà esservi molto riconoscente.

– Chi è questo signore? – domandò candidamente il mugnaio.

– Il padre di Aminta; – rispose Gino.

– Scusi, – replicò quell'altro, sicuro del fatto suo, – il padre del signor Aminta si chiama Francesco. —

Gino diede in una matta risata, e il mugnaio pensò ch'egli fosse matto davvero, volendo sbattezzare il signor Francesco Guerri, per chiamarlo Torquato. Ma rise anche lui, vedendo ridere il suo compagno di viaggio.

Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.

La cavalcata intravveduta da Gino si componeva di due soli cavalli. Sul primo torreggiava il signor Aminta; l'altro era condotto a mano da un famiglio.

Come fu a venti passi da Gino, il signor Aminta balzò leggero di sella e gli mosse incontro a piedi.

– Perdoni la libertà grande; – gli disse, scoprendosi. – Gasparino le avrà già detto…

– Sì, mi ha detto molto; – rispose Gino. – Ma io non so veramente con qual diritto dovrei dare tanto incomodo a Lei… ignoto come sono…

– È un viaggiatore: è un ospite; – replicò l'altro, con bella semplicità di parole.

– E non sa ancora il mio nome; – soggiunse Gino, disponendosi a fare la sua presentazione da sè.

– Avrà tempo a dirlo, se vorrà; – disse Aminta. – Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.

– Che potrebbero esser mesi; – replicò Gino.

– In quel luogo! – esclamò l'altro. – Ma ci sarà da morire d'inedia.

– Necessità, signor mio! – rispose Gino, stringendosi nelle spalle.

– Rispettiamo la necessità; – disse Aminta, inchinandosi. – Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.

– Pure, debbo andarci; sono costretto! – disse Gino, sospirando.

– Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà; – rispose il signor Aminta. – Per ora si degni di smontare da noi.

– Non abuserò della sua gentilezza?

– Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto, – soggiunse quel principe ereditario, – che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza…

– Non mi pare, non mi pare; – interruppe Gino. – Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre. —

Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.

Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.

Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.

– Strano! – diss'egli. – Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.

– Cavalli di montagna, signor mio; – rispose Aminta. – Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule. —

Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva un campanile; e accanto al campanile una mobile striscia di fumo indicava la presenza di una casa. C'era abitato, lassù, e i bisogni dello stomaco e quei dello spirito potevano esservi soddisfatti egualmente.

– È là; – disse il signor Aminta, voltandosi al forastiero e additando il campanile. – Fra dieci minuti ci siamo. —

Andando avanti, e girando intorno alla macchia, si scopriva un po' meglio il paese. Là, dietro il campanile, era un ceppo di case, le une a ridosso delle altre, male ordinate e di misero aspetto. Anche la chiesa doveva essere una povera cosa, a giudicarne dal campanile, corto, gobbo e tutto sbrendolato nell'intonaco. Ritornando alle case, d'intonaco non si vedeva pur l'ombra; erano tutte murate a falde di macigno, ed apparivano così nere, da lasciar credere che tra pietra e pietra non fosse stata neanche messa la calce. Un po' meglio in assetto era la via che conduceva all'abitato, e questa parve a Gino una buona testimonianza della cura che i re della montagna avevano dei loro cavalli.

All'ultima svolta della strada gli si mostrò finalmente la chiesa, in tutta la sua maestà decaduta. Il finestrone della facciata aveva avuto in altri tempi una cornice di stucco, e certamente un cornicione doveva aver collegato il timpano alla gronda del tetto; ma cornice e cornicione erano spariti da un pezzo. Anche il muro, nella parte superiore, era tutto scrostato; solo nella inferiore, accanto alla porta d'ingresso, durava ancora ne' suoi contorni di rosso mattone un san Cristoforo seduto, col bambino Gesù posato sulla sua spalla destra, e con la mano levata. In atto di benedire i popoli, o di prendere al Santo una ciocca de' suoi capegli rabbuffati? Il pittore aveva lavorato in modo da lasciar adito a tutt'e due le supposizioni, e magari ad una terza. O san Cristoforo delle Vaie! nobile tipo di taglialegna, certamente copiato sulla faccia del luogo! Voi eravate enorme, come vuole la leggenda. Bontà vostra, che restavate seduto (o inginocchiato, non rammento più bene); se no, sfondavate con la testa la gronda del tetto.

Il Gino ammirò san Cristoforo e tirò via, seguitando il compagno. La via, rasentando il fianco della chiesa, si faceva più stretta, poichè sorgeva dall'altra parte una casetta di due piani, fatta a capanna, con una piccola scala all'aperto. Sull'ultimo gradino di quella scala era seduto un prete, magro ed ossuto, che portava in testa, scambio del berretto a tre spicchi, una papalina di velluto nero, e se ne stava là in osservazione, beatamente traendo boccate di fumo da una vecchia e corta pipa di Gessèmani.

– Don Pietro, buona sera! – disse il signor Aminta passando, e levandosi il cappello. – Viene da noi?

– Dopo cena, sicuramente.

– Perchè non prima?

– Caro Aminta, la pentola è al fuoco, e non bisogna mancarle di riguardo. Poveraccia! È quella di tutti i giorni, e un sentimento di gratitudine comanda di esserle fedeli. Non vi pare?

– È giusto, è giusto; – disse il signor Aminta. – A più tardi, dunque; e buon appetito.

– Non manca mai, quello! Altrettanto a voi e al vostro compagno di viaggio. —

Così dicendo, Don Pietro si alzò a mezzo, levandosi la sua papalina dal capo.

Gino rese il saluto, e disse frattanto in cuor suo:

– Ecco qua: noi ci lagniamo di dover vivere nelle nostre città capitali, che hanno il grave torto di non rassomigliar tutte a Parigi. E qui, e in tanti luoghi consimili tra i monti, vive un popolo industre e buono, che si contenta de' suoi villaggi appollaiati sui greppi, nè sembra accorgersi che le sue abitazioni sono catapecchie e stamberghe. Anche qui ci sono i ricchi, i potenti, e si adattano al modesto costume dei padri loro. Non manca neppure il re, e questo re della montagna molto probabilmente non possiede le querci per sedercisi sotto, a render giustizia, ma per tagliarle via via e mandarle ai lontani cantieri. Qui non saranno ricercatezze di cibo, non salse, non intingoli; ma pezzi di cinghiale, uccelli di passo, quarti di bove o d'agnello, arrostiti all'omerica, e magari serviti in piatti di argilla, su d'una tovaglia di canapa. Ma che importa? Sono felici egualmente. —

Così andava almanaccando, e gli ricorrevano alla mente i bei versi di Bernardo Tasso, intorno alla vita campestre:

O pastori felici,

Che d'un picciol poder lieti e contenti

Avete i cieli amici,

Nè di mar paventate ire o di venti!

Noi vivemo alle noie

Del tempestoso mondo ed alle pene;

Le maggior' nostre gioie

Ombra del vostro bene,

Sono di fiele e d'amarezza piene.


Questo è su per giù il ragionamento che tutti fanno, quando, sottratti al fascino delle città rumorose, si trovano al cospetto della santa natura. Non bisognerebbe per altro che la cosa durasse! A buon conto, Gino Malatesti ricordava tutte queste belle cose, per conchiudere che i re della montagna dovevano vivere anch'essi maluccio.

Il suo monologo fu interrotto dalla fermata del signor Aminta. Quaranta o cinquanta passi più su dalla chiesa e dalla canonica che vi ho descritta, sorgeva la casa, o, per dire più esattamente, il ceppo di case che Gino aveva veduto da lungi, sovra il colmo dell'erta. Erano parecchi tetti raccolti in pittoresco disordine attorno ad un tetto più alto. La fabbrica di mezzo, la più grossa, senz'essere niente più intonacata delle altre, manifestava certe sue pretensioni signorili, nell'ordine doppio e abbastanza regolare delle finestre, come nelle persiane verdi del pian di sopra, che contrastavano allegramente con le mura nerastre e con le rappezzature del tetto.

Il signor Aminta era smontato da cavallo, davanti ad un portone, o piuttosto ad un grand'arco, aperto a guisa di breccia nel muro. Sotto quell'arco profondo era un andito, mezzo occupato da cinque o sei scaglioni di pietra, che non andavano mica diritti, ma giravano un pochino di sbieco, fino ad un pianerottolo, fiancheggiato da due tozze colonne, unico sfoggio architettonico di quella costruzione, evidentemente fatta in più tempi. Tra le colonne era un uscio spalancato, che lasciava vedere le pareti affumicate di una larga anticamera.

– Ci siamo; – disse il signor Aminta al suo ospite, che era smontato da cavallo egli pure. – Chiuda gli occhi, per altro.

– Li terrò bene aperti, anzi, per vedere una casa ospitale; – rispose Gino, sorridendo.

E saliti quei cinque o sei scaglioni di pietra, entrò, seguendo il signor Aminta, nella vasta anticamera, dove non era che un grosso camino contro la parete, e davanti al camino una panca a semicerchio, col suo schienale alto, per ripararla dall'aria di fuori. Là, nelle sere d'inverno, e, dato il clima del luogo, anche in quelle di primavera e di autunno, dovevano raccogliersi intorno alla fiammata i re della montagna, coi loro famigli e con qualche viandante intirizzito. Nè sedie, nè altri arredi, si vedevano là dentro. Unico lusso, e certamente di altri tempi, una fascia di pietra che correva intorno alla cappa del camino, recando una leggenda scolpita a grosse lettere: «Dalla guerra alla pace» e uno scudo nel mezzo, alla spada rizzata in palo, con la punta abbassata.

– Avanzi di pretese nobilesche! – pensò Gino, vedendo lo scudo, ma non avendo tempo di leggere il motto.

Il signor Aminta, che fino allora lo aveva preceduto, gli faceva cenno di passare in un'altra stanza, più piccola, ma più arredata della prima. Il nostro giovanotto vide una tavola di querce appoggiata al muro, e alcuni seggioloni con le spalliere e i sedili di cuoio; roba antica, se volete, ma non elegante. Di là il nostro Gino fu fatto entrare in una terza stanza; e questa era una piazza d'armi senz'altro. Anche là si vedeva il camino, con la sua cappa alta, di pietra serena, scolpita a fogliami, e la leggenda che sapete e lo scudo che conoscete, ma questa volta dipinto, la spada d'argento e il campo d'azzurro.

Gino diede una guardata all'intorno, ed ebbe argomento a mutare un pochino la sua prima opinione. Aveva veduta anzitutto, nel mezzo della sala, una lunga tavola da pranzo, capace almeno di trenta posti. Era una tavola di querce, inverniciata a dovere, come si vedeva dai piedi lavorati al tornio, poichè la lastra era ricoperta da un gran tappeto rosso, listato d'un fregio nero. Dalle pareti pendevano alcuni vecchi quadri a olio, con ritratti di famiglia, non eccellenti forse come opere d'arte, ma con le loro cornici intagliate e dorate a fuoco. Dove non erano quadri, sorgevano da terra scaffali di libri, che attrassero tosto l'attenzione del viaggiatore. Strana cosa, là dentro! Erano tutte edizioni moderne, volumi rilegati di marocchino, e, dando un'occhiata ai titoli, il conte Gino riconobbe poeti e prosatori italiani, antichi e nuovi, insieme con opere francesi, inglesi e tedesche, nel loro testo originale.

Questa fu la gran maraviglia di Gino, e gli strappò un grido dal labbro.

– Poca cosa! – disse il signor Aminta, accostandosi. – Non siamo abbastanza provveduti, in materia di libri.

– Come? – gridò il forastiero. – Ci hanno… – E qui voleva dire: – Ci hanno assai più di noi, ad onta dei quattromila volumi che ingombrano la nostra biblioteca. —

Infatti, la libreria dei conti Malatesti era stata messa insieme da un prozio vescovo; archeologia sacra e teologia, in gran parte, e non era stata più accresciuta nè completata. Là, invece, nella libreria dei Guerri, c'era in quattro cinquecento volumi il fiore di quattro letterature.

Perciò il conte Gino terminò la sua frase, dicendo:

– Ci hanno tutta roba moderna, e mostrano di aver familiari le lingue estere.

– Ah sì! – disse il signor Aminta. – Ma non creda che le abbia familiari io, queste lingue. Faccio molto a sapere il mio italiano, e un po' di francese, che non ho mai occasione di parlare. —

Gino voleva chiedere chi fosse, in famiglia, che sapeva, oltre il francese, il tedesco e l'inglese. Ma, da persona bene educata, si astenne dal domandare quello che il suo interlocutore non aveva creduto opportuno di dirgli.

Frattanto, nel voltarsi a guardare intorno, ebbe un altro argomento di maraviglia; un pianoforte, niente di meno, un pianoforte a coda, ed anche della fabbrica di Erard, se non vi dispiace di saperlo. Al conte Gino, che si era avvicinato per dare un'occhiata alla scritta, non dispiacque davvero.

Come avrete veduto da questo scampoletto di descrizione, la sala era da pranzo e serviva di salotto e di biblioteca ad un tempo. La sua ampiezza giustificava benissimo quella moltiplicità di destinazioni.

Gino, dopo aver guardata la scritta, si era arrisicato a sollevare il coperchio, e stava arpeggiando con le dita sulla tastiera, quando un uscio si aperse ed entrò nella sala il signor Francesco, il padre di Aminta, il vero re della montagna, bel vecchio dalla barba bianca, dall'aspetto grave e buono, per consuetudine malinconico, ma che sapeva sorridere d'un sorriso dolce e tranquillo come il suo occhio azzurro e come la sua voce di tenore baritonato. Eravamo davanti al pianoforte, e questo accenno al registro vocale non vi parrà fuori di luogo.

Anche il signor Francesco Guerri fu molto cortese con l'ospite, anch'egli sfuggì l'occasione di sapere chi fosse. Evidentemente, quello era un uso di lassù: forma di galateo montanaro che non è senza grazia, sebbene non vada esente da qualche piccolo guaio. Sapere chi si accoglie, lo riconosco ancor io, non salva sempre il padrone di casa dal pericolo di farsi portar via le posate; ma è chiaro che dove c'è l'uso di accoglier tutti con eguale cordialità, senza domandare il suo nome a nessuno, il pericolo che la gente abusi della vostra ospitalità non sarà punto scemato. Nè un padrone di casa può essere così certo del suo occhio, da riconoscere a prima vista la gente di cui debba fidarsi, poichè le apparenze ingannano. I carabinieri, a buon conto, in certi luoghi ed occasioni, usano la precauzione lodevolissima di domandarvi le carte.

Il signor Francesco, dopo i complimenti consueti, introdusse l'ospite nella camera a lui assegnata. Era piccola, o, per dir meglio, appariva piccola a chi veniva allora da quella gran sala, ma c'era tutto il necessario per viverci bene. Il letto era a baldacchino, con le sue brave cortine di damasco, e il conte Gino osservò che aveva sul copertoio un grosso e soffice cuscino di piume.

– Le notti son fredde, tra questi monti; – disse il signor Francesco. – Ma speriamo che Ella non ci si ritroverà troppo male. —

Gino si era maravigliato nella sala, e si maravigliò ancora nella camera da letto, vedendo quel lusso, antico ma sodo, ed anche certi graziosi nonnulla, come lavori di lana e ricami all'uncinetto, che facevano pensare al Journal des Demoiselles ed ai suoi esemplari d'opere femminili, tanto preziose nell'arredamento di una casa.

– Ah, ah! – diss'egli tra sè. – Qui c'è la mano di una donna. —

E quella camera, da prima, e tutta la casa di poi, e i luoghi circostanti s'illuminavano, agli occhi della sua mente, d'una poetica luce.

Questo fenomeno occorse la prima volta nel settimo giorno della creazione. Almeno, così dicono i poeti, che sono stati da per tutto, anche a latere del Padre Eterno, nel periodo delle grandi novità. Gli alberi frondeggiarono ad occhi veggenti, gli uccelli fecero il verso d'amore nel bosco, i fiorellini sbocciarono dal prato; Adamo, poi, si svegliò in soprassalto, e disse… Che cosa disse Adamo? Sicuramente egli deve avere incominciato da una esclamazione, da una invocazione all'Altissimo; verbigrazia da un: «Dio… misericordioso!» invocazione che fu il principio e l'esempio di tutte le altre, venute poi, nell'ordine progressivo dei tempi.

Ah, donne gentili, siete voi il tormento e la consolazione. Con voi si può vedere la luna in pien meriggio, ma senza di voi c'è buio a tutte le ore del giorno. La vostra presenza, a buon conto, reca la grazia nella conversazione degli uomini, o quanto meno l'obbligo di evitare certe locuzioni improprie con cui l'uomo dimostra ed afferma la sua indipendenza nel consorzio incivile. Dove voi siete, egli si studia di parer più garbato, e qualche volta ci riesce; ad ogni modo, bisogna tenergli conto dell'intenzione, vedendolo star sulla vita, ravviarsi i capegli, arricciarsi i baffi, tirar fuori dalle maniche e mettere in mostra i polsini della camicia, fare insomma tutti quegli atti, leggermente e graziosamente scimmieschi, per cui egli accenna il desiderio di piacere.

M'è occorso ieri (scusate la parentesi) di fare un piccolo viaggio. Eravamo tre uomini, nella carrozza dei fumatori, e ne capitò all'ultim'ora un quarto, un giovinotto bello come il Fauno di Prassitele, che appena entrato s'impossessò del suo sedile e dei due posti che c'erano, accomodandovi le membra per dormire, e puntando i suoi delicatissimi piedi contro il bracciuolo di mezzo. Mezz'ora dopo non gli bastavano più i due posti; alzò una gamba e sconfinò sul mio territorio, posandomi sulle ginocchia una scarpa, che fui costretto a prendere con due delicatissime dita, per ricondurla ne' suoi legittimi confini. Avrebbe egli fatto così, se io fossi stato una graziosa signora? Si sarebbe egli pure accomodato a dormire? Dèi immortali, mi parrebbe già di vederlo, ritto sulla vita, tirarsi su i baffettini, aggiustarsi il nodo della cravatta, lanciarmi occhiate assassine, spiando l'occasione di entrare in discorso, e fors'anco entrandoci senza aspettar l'occasione. Certamente, sarebbe diventato molesto, ma ad un altro modo; perchè proprio è così, noi siamo una razza noiosa come le mosche, e il senso della misura ci manca, così nel bene come nel male.

Come io tengo a bada voi con le mie chiacchiere, così il signor Francesco, il re della montagna, aveva tenuto a bada il suo ospite, descrivendogli per sommi capi la vita che si faceva tra quelle gole alpestri, e dandogli di passata un'idea dei lavori a cui si può attendere utilmente, nel taglio ragionevole dei boschi e nell'ingegnosa combinazione delle serre. Gino s'innamorò delle serre, e promise a sè stesso di andare un giorno a vederle, quelle poetiche chiuse di lastroni e di legna, che fanno pescaia alle acque e ricettacolo ai tronchi galleggianti, per lasciarli poi, a cateratta dischiusa, precipitare affollati in un serbatoio inferiore, e così via, di pescaia in pescaia, fino ai grandi depositi della pianura. Il nostro giovanotto non conosceva quelle industrie montanare; ignorava che lassù ci fossero costumanze e fatiche così selvaggiamente poetiche come quelle dei pioneers americani. Ma gl'Italiani ignorano molto, in Italia, e non è colpa loro, perchè l'ignoranza incomincia dalla scuola.

A un certo punto della conversazione, apparve il signor Aminta sull'uscio e fece un gesto a suo padre. Allora il signor Francesco disse al suo ospite:

– Signor mio, le abbiamo fatto aspettare un po' troppo il suo pranzo. Ma Ella ci scuserà, perchè non era la nostra ora, così che siamo stati colti alla sprovveduta.

– E mi rincresce del loro incomodo; – disse Gino.

– No, nessun incomodo; – ripigliò prontamente il vecchio, non lasciandogli il tempo di proseguire. – Per noi questa è la cena. L'anticipiamo un pochino, quest'oggi, come Ella ha dovuto ritardare il pranzo. Gli uomini, – soggiunse il signor Francesco, – debbono trovar sempre il modo di andare d'accordo, e non ci riusciranno, io credo, senza qualche concessione scambievole. Non le par meglio così, che star fitti nel proprio uso e nella propria opinione? —

Gino rise e approvò largamente. Non era più luogo da complimenti e da scuse, davanti ad un ragionamento così semplice e così largo ad un tempo.

– Mi permetta almeno di cambiar abiti; – diss'egli, che aveva vedute le sue valigie deposte in un angolo. – È affar di cinque minuti.

– Per che fare? – rispose il signor Francesco. – Ella è molto bene, così, e ci farebbe torto a volersi mettere sulle cerimonie. Via, ci contenti, e venga com'è. —

Gino si acquetò, vedendo che la miglior cerimonia era lì per lì l'obbedienza. E il signor Francesco, presolo amorevolmente per il braccio, lo condusse verso l'uscio.

– Mi permetta allora, – riprese Gino, che aveva sempre bisogno di qualche cosa, – mi permetta allora di dirle il mio nome.

– Poi, poi! – interruppe il vecchio. – Ci sarà sempre tempo. Ella è una persona garbata, e noi non avremmo merito nel riceverla, se non conoscessimo il cavaliere all'aspetto.

– Pure, – ripiglio Gino, – sarei tanto lieto di dirle il mio nome. Per obbligo di reciprocità; – soggiunse. – So infatti che Loro son Guerri.

– Bene, si consideri per oggi un Guerri anche Lei, un fratello minore, un figlio della famiglia; – replicò il signor Francesco. – Le dispiace, forse?

– No, davvero, e quando è così non parlerò più del mio nome, neanche domani; – disse Gino sollecito. – Son Gino Guerri, adunque. È un bel nome; suona bene! —

E rideva, il giovanotto, ed entrò ridendo nella gran sala, dove in quel frattempo era stata apparecchiata la mensa.

Qui, se io sapessi di esser letto da gente digiuna, amerei descrivere la tavola e le dodici, proprio dodici, qualità diverse di principii che facevano bella mostra di sè nei piattellini disposti in ordine, a destra e a sinistra di un vaso antico di Faenza, che torreggiava nel mezzo, pieno riboccante di fiori. Gino ammirò quello sfoggio, che dalle olive di Lucca andava fino alle sardelle di Nantes, passando per le acciughe della Gorgona, e che dalle polpettine di cipolla e prezzemolo, in salsa di capperi, si arrisicava fino alle altezze squisite del salmone rosato di Nuova York, passando per tutte le conserve, distinte di tanti nomi, del tonno di Sardegna, che ha certamente i suoi pregi. Pensate pur male di me, povero narratore, che vi sembrerò un ghiottone, ma non pensate male del mio eroe, che ammirò lo sfoggio della quantità, senza fermarsi ai particolari, e che volse subito la sua attenzione al vasellame. I piatti di mezzo, i tondi o le scodelle dei posti in giro, erano tutti di vecchia maiolica, e portavano tutti dipinto nel centro lo scudo dei Guerri, con la spada in palo e con la leggenda che sapete. Il finimento apparteneva per lo stile dell'opera alla prima metà del secolo scorso, e i gialli vivi e gli azzurri spersi, e la ricchezza degli ornati, dicevano chiaramente che quel vasellame era uscito da una delle migliori fabbriche di Romagna.

Gino ammirava ancora, abbracciando con l'occhio tutta quella ricchezza ceramica, quando dall'uscio di rincontro apparvero due signore.

– Ah, ecco le nostre donne! – disse il signor Francesco. – Ora Ella farà un po' di conoscenze in famiglia. —

La prima che si avanzava era un bel tipo di donna attempata, coi capegli brizzolati, ma la carnagione ancor fresca e lucente.

– Mia sorella Angelica; – ripigliò il signor Francesco. – Ella fa qui da padrona di casa, poichè i miei figli hanno perduta la madre. —

E sospirò, il re della montagna, mentre Gino salutava.

La seconda che veniva verso di lui era più giovane di qualche anno, bruna, dall'occhio ardito, dalle labbra tumide, indizio di bontà.

– Mia cognata Olimpia; – disse il signor Francesco. – Suo marito, mio fratello secondogenito, verrà forse più tardi. Egli è alla serra, e non c'è stato il tempo di farlo avvertire. Un altro mio fratello, il più giovane di tutti, quasi giovane come il mio Aminta, non verrà, perchè vive lontano da noi, a Sassuolo, per ragion di negozio. —

Gino salutava i presenti, e accennava del capo agli assenti. Gli pareva strano, frattanto, che gli altri fossero presentati a lui, ed egli a nessuno. Ma lassù comandava un galateo diverso, l'antico. Nelle nostre case moderne i padroni sono altrettanti piccoli principi, a cui bisogna far riverenza; nelle vecchie, o dove gli usi son vecchi, principe è l'ospite, e a lui son rivolti gli omaggi di tutti.

Mentre egli pensava, un'altra figura di donna apparve nella sala.

La montanara

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