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LEZIONE OTTAVA.

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Grande ricerca, o signori, imprendevamo, ed è questa la origine degli Esseni. Noi esautorammo le false, le spurie derivazioni che pregiudizi multiformi ci volevano imporre, noi respingemmo là dove il sole tace di verità l’origine pagana, e dopo questa l’origine alessandrina, e per ultimo vedemmo di che sapesse la cristiana paternità. Mestieri è ora rivolgere a migliore indirizzo le nostre forze, mestieri è pure ch’a correr miglior acque alzi le vele omai la navicella del mio ingegno. Però se il còmpito nostro riesce tuttavia grave e scabroso, quanto però non ci si presenta e più piana e più secura la via! Noi conosciamo gli scogli e li eviteremo; noi sappiamo come circoscritta, e per ciò stesso più sicura sia al presente l’opera nostra, noi sappiamo come esclusi, eliminati per sempre il Paganesimo, la filosofia, e il cristianesimo quai padri presunti del grande Essenato, non ci resti che una fede a cui chiederlo, un popolo ove cercarlo, una filosofia a cui riferirlo, e questa è la filosofia, la fede, il popolo Ebraico. Ma se sappiamo che il campo ove nacque fu l’Ebraismo, ci resta a conoscere il dove, il quando, il come e quel germe particolare e quel particolare terreno conoscere ove il gloriosissimo albero allignava; ch’è quanto dire la origine propria, la origine propriamente detta del grande istituto degli Esseni. Però due cose si distinguono in ogni corporazione, in ogni istituto, e quindi duplice è il modo con cui considerare se ne può la origine. Dissi due cose, e ve lo provo. È la prima la parte per così dire ideale, rudimentale, gli elementi che costituiscono ogni corpo sociale, le pietre a così dire distaccate del grande edifizio, le molecole primitive di cui è composto, i materiali di cui fu fatta la fabbrica.—L’altro aspetto, è la fabbrica in sè stessa, e il tempo, la data, l’origine, della sua esistenza complessiva indivisa, definitiva; l’origine, starei per dire, della combinazione dei diversi elementi costitutivi in un tutto ordinato, organico, positivo, esteriore. Quindi due origini quando degli Esseni si parla: origine degli elementi delle parti loro costitutive, e questa è l’origine prima:—Origine poi della personificazione della incarnazione di questi elementi in un ente sociale, e questa è l’origine seconda. Io chiamerò la prima origine dell’Essenismo o Essenato in quanto accenna ai caratteri ed alla genealogia storica dei principj; io chiamerò la seconda origine degli Esseni in quanto meglio allude agli uomini in cui l’Essenato divenne persona, e alla genealogia storica dei suoi professori. Facciamoci dalla prima di queste origini, dall’origine dell’Essenato ossia dei caratteri, delle idee, del genio delle istituzioni degli Esseni. Io credo che voi non disconoscerete la importanza di questa ricerca. Quando pure avverso fato ci contendesse il rintracciare la seconda di queste origini, cioè l’incominciamento storico, individuo, complessivo della setta, ei sarebbe acquisizione preziosissima la storia, la origine degli elementi di cui si compose. Ma il fato ci arriderà benigno meglio che non estimate; e lo studio che siamo per fare al presente, verrà compito, integrato da quello che faremo di poi; e l’origine delle idee vedrà immediatamente seguirsi l’origine della loro personificazione in un sodalizio. Io chiedo adunque all’Ebraica antichità gli elementi dell’Essenato, e che cosa mi risponde l’Ebraica antichità? Ella mi risponde, offrendomi una istituzione in cui, siaci lecito il dirlo, gran parte si dipinge dei caratteri e dell’Essenato, ed ove tranne l’associazione, l’organizzazione sociale, e tranne il celibato, la fisonomia splendidamente rifulge di precursori, di preparatori del grande Istituto. Qual’è questa istituzione? Ella è l’istituzione del Nazirato. Non so se voi quanto sia mestieri conosciate che cosa è Nazirato: fatto è che nè conosciuto nè apprezzato egli è a parer mio quanto pure si dovrebbe. Nazirato era quello stato di religiosa separazione in cui volontariamente si poneva ognuno che più particolarmente si volesse a Dio dedicato. Si dedicava, o miei giovani, al Signore con tre specie di voti che i precipui obblighi costituivano dei Nazirei. S’interdiceva in primo luogo non solo il vino ma l’aceto, ma l’uva istessa, e stando alla parola Scehar ogni bevanda eziandio inebriante. S’interdiceva in secondo di rader un sol capello della chioma, la quale doveva al termine del suo voto recidersi tutta ed al fuoco bruciarla del sacrifizio che il Nazireo offeriva; s’interdiceva per ultimo di venir menomamente a contatto con un cadavere, nè qualunque altro genere contrarre di impurità che da quel derivasse. Di questi tre voti, di questi tre obblighi, due vediamo comuni agli Esseni; comune cioè la interdizione del vino, siccome a suo luogo vedremo, comecchè da talun contestata; comune l’orrore da ogni corporea impurità, come più estesamente sarà da noi dimostrato; e se comune non vediamo egualmente la intangibilità della chioma, egli è perchè la perpetua consacrazione, il vincolo non temporaneo degli Esseni la rendeva impossibile, e soprattutto perchè la legge dei Nazirei formalmente ne assolveva coloro che la intera vita sacravano, siccome meglio dalle cose sarà chiarito, che in appresso diremo. Voi comprendete già come questi strettissimi obblighi, uno stato costituissero pegli Esseni di particolare santità; ma quanto più questi voti non acquisteranno valore se li vedrete dovunque applicati ove una maggiore si esiga o più esquisita perfezione religiosa! Se li vedeste per esempio iterati e tra i doveri annoverati dei sacerdoti; se esplicita invocassi l’inibizione che ai sacerdoti interdice l’uso degli inebrianti ogni qual volta l’alterno servigio li chiamava attorno il santuario: se vi mostrassi Nadab e Abiù, i due infelici figliuoli di Aaron, divorati da un fuoco miracoloso solo per aver, secondo la tradizione, libato del vino al loro ingresso nel tempio; se vi citassi infine la legge che vuole i giudici pro tribunali, sedenti sobri per tutto quel giorno di liquore ebriante; se vi dicessi con Ezechiele che i sacerdoti non debbano radersi assolutamente la testa, ma sì tanto della chioma rispettare che bella mostra faccian di sè nel pubblico servigio; se tale vi citassi una frase in Geremia ove la capigliatura, la lunga chioma è detta serto, è detta corona; se passando poi al tema delle impurità, vi mostrassi i Nazirei equiparati nelle rigide osservanze non solo al volgo dei sacerdoti, ma al grande, al sommo pontefice egli stesso il quale solo esso in questo ai Nazirei somigliante, doveva non solo da ogni impurità tenersi lontano, ma nemmeno gli estremi offici rendere ai prossimi parenti, al padre, alla madre, al fratello, alla sorella, pei quali invece al sacerdote volgare era conceduto immondarsi.[26] Che più? Se vi mostrassi a certi effetti, in certi casi e secondo certe opinioni, il Nazireo allo stesso pontefice sommo in santità sovrastare, quando cioè pontefice e Nazireo imbattutisi per caso in cadavere derelitto era imposto al sommo pontefice rispettare la santità del Nazareo e la propria dignità obliare per rendere gli ultimi doveri a quel corpo infelice. Certo, che dopo avere tutte le anzidette cose udito a ricordare, certo esclamerete che ben grande doveva essere nella mente del divino leggidatore, del Nazireo il concetto. Che sarà poi se i termini intenderete con cui sul conto suo si esprime? E quai termini! La corona di Dio è sul capo suo, vi dice aperto il sacro testo.[27] Non basta: Per quanto dura il suo Nazirato sacro è desso al Signore. Termini che nè diversi, nè più pomposi suonano pel sacerdozio, termini chè chiaramente la parentela, l’affinità ti rivelano, che volle Iddio stabilita tra il Nazirato e il sacerdozio, tra il Nazirato sacerdozio incoato, virtuale, temporario, e il sacerdozio Nazirato attuale e perpetuo. Voi udiste parlare di corona sacra a proposito del Nazareo, e di sacra corona intenderete parlare a proposito del sommo pontefice. Voi udiste il Nazareno qualificato sacro al signore, e sacro al signore recava in lettere d’oro sul frontale inciso il sommo pontefice. I sacerdoti sono ministri dei sacrifizi, e ministri esclusivi, chi non lo sa? Ma pure se vi fu uomo che tutte le ordinarie regole conculcando dei sacrifizii, si sia eretto a pubblico, a solenne immolatore, e se eretto si sia comecchè nè sacerdote nè in luogo celebrante al culto di Dio dedicato; se uomo cotale vi fu, ei fu un Samuele, ei fu un semplice levita, ei fu un Nazareno; e se in progresso di tempo, e se dei redivivi Nazareni, e se infine degli Esseni fu detto siccome da Giuseppe apparisce, che fuori del tempio sacrificavano, chi sa che lo esempio di Samuele ad accreditare non sia valso una opinione siffatta! Fatto è che il carattere sacro, religioso e quasi ieratico non fu mai ai Nazarei disdetto: non lo fu nemmeno ai tempi malaugurati della invasione siriaca. Quando, secondo un preziosissimo testo dei Maccabei, nel primo di questi libri al capitolo 3º, ritiratisi gli Ebrei fuori di Solima seco recano dalla santa città a Maspa, ove s’adunano e si accampano, tutto chè di più sacro e prezioso avessero nel tempio di Dio; quando siccome si esprime il testo istesso dei Maccabei, bandito un generale digiuno e postisi dei sacchi attorno e della cenere in sul capo, spiegano i libri della legge, arrecano le vesti sacerdotali, le primizie e le decurie e fanno venire innanzi i Nazirei, quando non sapendo in qual luogo più sicuro riparare tanto tesoro, esclamano, dice il testo, con gran voce dicendo: Che faremo a costoro e dove li meneremo? Conciossiachè il tuo santuario sia calpestato e profanato, e i tuoi sacerdoti sieno in cordoglio e in afflizione.

Io credo che non pochi insegnamenti abbiamo fin qui acquistato; abbiamo veduto tra gli antichi Nazirei e gli Esseni parecchi correre luminosissime attinenze, e tra ambedue altresì, e il sacerdozio costituito in Israele; abbiamo in tanta antichità rinvenuti parecchi degli elementi onde si formò di poi il nostro Essenato. Ma qui non finisce la vena feconda del Nazirato vetusto, qui non hanno fine i mirabili riscontri tra esso e’ moderni Nazirei che si chiamano Esseni. Solo che meglio vi piaccia la natura indagarne, solo che le frasi dei nostri Profeti, laddove dei Nazirei tolgono a ragionare, non vadano, come avviene, perdute nel torrente di una irreflessa e precipitosa lettura. Un passo principalmente vi ha di cui non si potrebbe ragionevolmente inforsare la importanza. Egli è il Profeta Amos quando rinfaccia ai coetanei suoi la ingratitudine onde ripagavano le insigni beneficenze di Dio, quando ricorda loro il portentoso riscatto, le spirituali divise con cui rivestilli, quando in ispecie ricorda i doni profetici, le fatidiche ispirazioni; quando esclama in nome d’Iddio, E pure io fui quello che i figli vostri costituiva profeti e i giovani vostri costitutiva Nazareni. Non è forse così, o Popolo d’Israel, dice il Signore? Ma voi che faceste? Voi propinaste ai Nazareni il vino conteso, ed ai profeti intimaste dicendo: Non profetate. O io m’inganno, o nuova sembianza è cotesta che assumono i Nazareni. Non solo gente sacra e quasi sacerdotale, siccome vedemmo, ma gente, si può dire arditamente altresì, gente profetica. Chi conosce il genio della lingua Ebraica, la replicazione del concetto, nelle due metà del versetto, le predilette sinonimie, il parallelismo frequentissimo, non porrà menomamente in dubbio che nella mente di Amos, Profeti e Nazireni, il vino dai Nazareni libato, e la esautorazione del Profetismo non si unificassero a dirittura in un solo concetto. Per chi è autonomo nei giudizi questo è d’avanzo. Per chi ama invece poggiare sulle autorità ne avremmo a citare di soverchio. Potremmo dire del Parafrasta Caldeo che con significantissima sostituzione pone invece della parola Nazireni il vocabolo Arameo Malfin che suona insegnatori; potremmo invocare il venerabile Rasci che tale ci offre definizione di cotesti del profeta, che più acconcia, più precisa, più completa non si potrebbe dare degli Esseni medesimi; quando dice cioè ch’erano i Nazirei separati dalle comuni costumanze, e tutti dediti alla legge di Dio. Potremmo dal labro pendere di Abenesra ove col consueto laconismo, ma altamente espressivo pel caso nostro, Nazirei dice che consacrai a riprendervi, a santificarvi. Potrei chiamare a testimonio l’Abrabanel che dice il Nazireato esser preparazione allo spirito santo, che aggiunge essergli stato il vino propinato onde lo spirito divino non scendesse sopra di essi, nè quindi potessero vaticinare.[28] Or che cosa sarà s’io vi dicessi che gli Esseni andavano celebri per i loro vaticini e che non poche delle loro predizioni ci sono da Giuseppe riferite, siccome a suo luogo vedremo? Certo che vedreste allora nell’antico Nazirato, nelle doti profetiche di cui va insignito un elemento nuovo dell’Essenato moderno, una pietra nuova del grande edifizio, un preludio alle Esseniche predizioni: e che sarà poi se vi farò toccare con mano nuovi riscontri nelle circostanze più particolari della vita, nell’abito per esempio, nel regime tra l’Essenato e i Nazirei; il sacerdozio antico e il Profetismo? Certo non negherete che sarà un passo di più verso la mèta a cui aneliamo, il ritrovamento delle parti integrali, degli elementi del grande Istituto. Or bene, volete sapere degli Esseni l’abbigliamento? Mirate ai Profeti ed ai Nazirei; due luoghi vi sono aurei tutti e due, luminosi tutti e due per chi ha gli occhi per vedere, dove il costume esteriore ci vien dipinto, ma di volo con un sol tratto, di Profeti e di Nazirei. Costume uniforme dei Profeti, colà abbiamo, laddove predicando Amos il discredito in cui saria caduta l’ispirazione, tanto vil cosa aggiunge sarà reputata, che niuno vorrà simulare nemmeno il portamento esteriore di un Profeta, che niuno più addosserà un mantello peloso.—Chi ha orecchi ascolti: un mantello peloso, ecco dei Profeti la divisa, il destintivo. Che se non contenti di aver trovato, se così è lecito dire, dei Profeti il figurino, ne voleste uno proprio di carne e sangue in cotal foggia vestito, potrei io esitare un istante, potrei io non vedere sorgere immantinente ai miei sguardi il severo, l’ispido Elia, l’uomo come il descrive il sacro storico, l’uomo peloso, l’uomo dalla cintura pelosa, Elia il Jesbita; Elia il solo superstite tra i Profeti di Dio, Elia che al sol vederlo in questo arnese caratteristico esclamano tutti? Elia attisbi u?[29] Ebbene mirate nell’autobiografia di Flavio Giuseppe ciò che del costume va esprimendo dei più rigidi tra gli Esseni, e mi saprete dire se troppo disforme da quello procedesse tra i profeti usitato. Ma i men rigidi, i più urbani tra gli Esseni come vestivano essi? Ah! egli è qui ove ritornano in campo non solo i sacerdoti come gli Esseni bianco vestiti, ma ciò ch’è più, ritornano in campo gli stessi Nazirei e un nuovo e parlante rapporto ci offrono colla società degli Esseni. È tal cosa la Scrittura, o miei giovani, che se uomo non tende l’orecchio del continuo a spiarne non ch’altro le più fuggevoli espressioni, gran parte sperpera, miseramente perduta, delle sue ricchezze. È un mondo che si rivela per cenni ed enigmi, è la figlia del Re, secondo la magnifica parabola Zoaristica, che solo rivela la faccia sua bellissima, dopo avere con ripetuti cenni ed ammicchi l’attenzione e l’ansia provocate del suo amadore.[30] Testimone l’esempio che abbiam tralle mani. Chi avrebbe detto che la Bibbia contenesse perfino l’antico costume dei Nazirei? Eppure nulla di più esatto, la Bibbia lo contiene, in una locuzione, in una idea incidentale, ma pure lo contiene. Povero Geremia! Ei lamenta perdute tante cose e carissime! Ma non dimentica, credete per questo, cose di men rilievo, per esempio i bellissimi Nazireni e le loro vesti. Dove n’andaste, sclama nel dolor suo, Dove, o Nazareni dalle candidissime stole più della neve bianche, bianche meglio del latte? (Treni cap. IV, v. 7.) Perocchè glossa il venerando Rasci i Nazirei e i Farisei (notate questo contatto e ponetelo in serbo per altro tempo) i Nazirei e i Farisei mostravansi al di fuori tersi e puri colle bianchissime loro vesti, alla neve somiglianti, siccome alla neve si assimigliano le vesti dell’antico dei giorni, e siccome infine è costume dei Ilasidini; ed anche quest’ultima frase ponete in serbo, giovani miei. Ed ecco il costume degli Esseni, il costume dei più miti tra essi somministratoci dall’antico Nazirato, dal Nazirato consenziente anco in questo col sacerdozio ministrante nel tempio di Dio.[31] Ma io dissi che negli antichi profeti un vestigio ritrovato avremmo della tavola degli Esseni, del regime degli Esseni. Dissi ben poco; doveva dire e la dietetica e la dimora e la scelta del luogo. Vi è un passo nel secondo dei Re ove la scuola dei profeti, i figli dei profeti come allor si dicevano, banchettando a cielo aperto ci permettono di osservare di che cosa si formassero le consuete imbandigioni. Io veggo primi rammentati i legumi; e legumi pure erano il cibo favorito nell’essenico refettorio, veggo radiche ed erbe qua e colà dai Profeti stessi raccolte su per i campi; ed erbe e radiche alternavansi talvolta negli essenici prandi. Che più? La scuola profetica abita non solo sotto il medesimo tetto, tralle stesse pareti, ma soggiorna eziandio lungi dall’abitato presso le rive del Giordano; e non sarebbe temerità s’io dicessi che non del tutto andò errato Gerolamo quando nelle frasi del testo intravide eziandio la costruzione di separate cellette.

Aveva io ragione di sperare larga suppellettile di elementi, di preludi, di presentimenti Essenici nella storia dei Nazireni, in quella del sacerdozio, in quella dei profeti che tanta parte offron pur essi della fisonomia dei Nazireni? Ma vi ha un’obbiezione che voi potreste fare e ch’io perciò appunto amo di prevenire. Potreste dire: il Nazirato era voto e vincolo; ma voto e vincolo a tempo, ch’è quanto dire era assai diverso dall’Essenato che una consacrazione importava la quale continuar doveva quanto la vita lontana. E benissimo vi apporreste se tra Nazirato ed Essenato non corresse a senso mio divario alcuno; se io dicessi le stesse forme, le stesse leggi essersi per tanto corso di secoli dall’uno all’altro tramandate senza alterazione alcuna. Ma ciò nè dissi nè poteva io dire in verità. Sebbene che dico? È egli poi vero che il voto dei Nazireni fosse sempre temporaneo come voi dite? Certo che così pensò e scrisse un uomo dottissimo il Munk nella Palestina. Ma con sua buona pace sia detto: il Munk s’ingannò a partito. Non solo la tradizione attesta il contrario, non solo esempi vi sono luminosissimi di Nazirato perpetuo, e basti citare i nomi famosi di Sansone, di Samuele, e nei tempi Rabbinici di Elena la pia Regina degli Adiabeni;[32] ma sopratutto il testo stesso su cui pare il Munk affidarsi, se non dice aperto di un Nazirato a vita, non parla nemmeno di tempo, non prescrive termine, nè limitazione prefigge. Si dirà ancora che non vi fu Nazerato perpetuo? Io credo che la sua esistenza non possa revocarsi in dubbio, e quindi un nuovo elemento, un nuovo apparecchio emmi lecito intravedervi della grande e dotta congregazione degli Esseni.

Io non lascerò, o miei giovani, l’argomento dei Nazireni, anzi che non vi abbia fatto toccar con mano come oltre le regole, le leggi, le istituzioni, il nome stesso di Nazireno sinonimizzi mirabilmente con tutti quelli che in ogni tempo recarono gli Esseni, con tutta la ricca suppellettile di nomi con cui a senso mio furono contradistinti. Primo tra questi, e già in parte ve lo accennai altra volta, si è quello di Fariseo; nome che nella sua vastissima comprensione anco l’Istituto abbracciava degli Esseni siccome quello che dei Farisei era culmine ed apogeo. Or che vuol dire Fariseo? Vuol dire separato. E come direste separato nella lingua biblica, nella lingua della scrittura? Direste precisamente Nazir; col qual nome avrebbe qualificato Mosè i Farisei se al tempo suo fossero esistiti, in quella guisa che Farisei avrebbero potuto qualificare i dottori i Nazireni?[33] Vi pare assai? Udite ancora. Io vi dissi altra volta e ve lo proverò in seguito, come speciale designazione degli Esseni fosse ai tempi Rabbinici il nome di Hasidim. Volete ora vedere i Hasidim trasformarsi in Nazireni? Certo che la metamorfosi vi parrà avventata. Pure nulla di più preciso se aprite il Talmud al primo di Nedarim. Dove leggerete questa confessione preziosissima; che i primitivi Hasidim solevano di frequente votarsi a Dio in Nazireni.[34] Volete più? Certo che voi discretissimi non esigereste di più: ma pure proviamoci: proviamoci a recare il sinonimo di Nazir con Essena a quella evidenza che si può desiderare maggiore. Voi vedrete tra non molto come il Talmud, come i monumenti Rabbinici più antichi tracciano, siccome fu creduto finora sul conto degli Esseni, come questo silenzio formasse sempre argomento di legittima sorpresa per chiunque si facesse ad osservarlo, e come questo preteso silenzio, fosse creduto, fosse ammesso non solo dai dotti, dagli eruditi di ogni maniera, ma eziandio dai succedituri Rabbini, dai dottori che sursero e scrissero dopo il Talmud i quali quando ebbero contezza, strano a dirsi! per mezzo dei moderni scrittori della esistenza di un antica setta fra loro per nome Esseni, quando di essa ebbero come di peregrina e inaudita scuola a favellare, che nome credereste che gli apponessero? il nome di Nazireni! Tanto pareva loro confacersi agli Esseni l’antico nome di Nazireo, tanto al genio rispondere il genio, la vita, le leggi alle leggi e alla vita.

Un grande insegnamento emerge, se io non sbaglio, dalle cose dette sin quì, ed è questo: che senza ammettere una generazione diretta od omogenea, grande però, massima parte di tutti gli elementi che la vita composero e la esistenza dell’Essenato si trovano contenuti e come in germe rinchiusi in seno al Nazirato ed al Profetismo. Purità, sobrietà, dottrina, ispirazione, vita solitaria e cenobitica, costume, dietetica e persino il nome loro caratteristico. Si può dire per questo che tutte abbiamo le parti costitutive dell’Essenato? Io non oso dir tanto: vi ha un elemento nella organizzazione degli Esseni di cui traccia non solo nei Nazireni non si discopre, ma che pure ardua, se non impossibile impresa, sembra trovarne vestigia nella ebraica antichità; che dico? Che pare a dirittura contraddire alle leggi, ai costumi, allo spirito generale dell’Ebraismo. E questo è il Celibato. Il celibato fu egli dagli Esseni praticato? Ove sia stato praticato, ha egli radici, ha egli origine nel genio, nella storia, nel passato dell’Ebraismo? Io mi affretto a dirvi per ciò che concerne la prima dimanda, come il celibato fosse istituzione sì degli Esseni; non tale però che da tutti fosse egualmente praticata. Quando delle leggi loro favelleremo e del loro Istituto, vedremo come gravi restrizioni debbano accompagnare la divulgata sentenza che a tutti gli Esseni indistintamente attribuisce il celibato. Pure si praticò; e se non tutti come il più perfetto consideravanlo degli stati, certo che appo taluni era in grande onore. D’onde quest’onore? D’onde questa dissonanza dalla voce dei secoli che proclamava invece tra gl’Israeliti maledetto, infame il celibato? Ardisco dire che l’ebraica antichità non è sorda assolutamente al nostro dimando. Io vi so dire che certi fatti vi sono e certe frasi i quali attestano manifestissimo che se pel comune degli uomini, per le condizioni più comuni della vita sociale, lo stato coniugale è lo stato più onesto, più meritorio, più religioso, pure si dànno certi stati così sublimi, certi uomini così trascendenti, certi momenti così augusti, in cui la virtù della continenza, temporaria e passeggiera talvolta, si stende però altre fiate ad un epoca così vasta, e talvolta abbraccia così una vita intera, che male il nome si potrà contrastargli ed il carattere di Celibato. Quali sono questi fatti e questi precetti? Un occhio penetrante li scuopre a prima giunta nel gran campo delle scritture; una mente alquanto erudita li ritrova nel grande emporio delle Tradizioni. Ecco i Dottori cui amore stringe della vita speculativa, della vita ipermistica dispensati formalmente dal matrimonio: ma di questo non dirò di vantaggio, perciocchè non appartiene a rigore all’epoca delle origini. Ecco un colloquio interessantissimo tra il sacerdote di Nobbe e David che chiede cibo per sè e pei suoi. Ecco il sacerdote obbiettare come i sacri pani non potessersi offerire a coloro che da contatto donnesco non si fossero astenuti. Ecco David replicare essersi tutti da tre giorni serbati continentissimi. Ecco Giobbe che pria di bandire i Riti e il sacrifizio domestico, impone ai figli, apparecchiarvisi con rigorosa castità. Che più? Ecco il gran fatto, il fatto più culminante nella storia dell’Ebraismo, ecco la promulgazione della legge ed ecco ciò che impone Moisè? Egli comanda si separi ognuno dalla donna sua e tre giorni di severissima continenza li predispongano al condegno accoglimento della parola di Dio. Volete più? Vi ha una tradizione preziosissima certo non coniata in grazia dell’Essenato, ma che pure torna mirabilmente in acconcio pel caso nostro, e la tradizione riguarda Moisè. Si volle, si disse, che da quel punto in cui Dio fece suonare quelle parole sacramentali «Ed ora qui rimanti con me;» il gran profeta avesse letto nel volere divino l’obbligo di sequestrarsi da ogni carnalità e di vivere oggimai la vita dei Celesti, e le sole voluttà omai pregustare che il novello stato gli offriva nel consorzio di Dio.[35] Che volete? Fosse consiglio della solitudine, fosse desio di scuotere a dirittura ogni polve terrena, fosse vaghezza di una perfezione superlativa, fosse persuasione di esquisita misticità, gli Esseni nostri, allo stato aspirarono eccezionale dei grandi uomini e dei grandi momenti nella vita dell’Ebraismo; aspirarono a fare una regola, una legge dell’anormale e dell’eccezione, agognarono ad ottenere del continuo quella istantanea elevazione in cui si tennero i santi antichissimi in breve ora del viver loro; e invece di libare un sorso della vita beata, vollero votare interamente la tazza. L’erezione dello stato eccezionale in regola inflessibile, del transitorio nell’immanente costituì tra gli Esseni il Celibato.[36] Questi sono i germi, questa l’origine che ci offre la Bibbia. Quando parleremo della istituzione in se stessa, avremo un altro termine fecondissimo di raffronto, i Dottori e le Tradizioni; e il Celibato diverrà allora se occorre anco più comprensibile. Per ora noi abbiamo fornita parte non indifferente di nostra via, abbiamo notati, registrati nell’antichità Ebraica gli elementi dell’Essenato. Abbiamo descritta la embriogenia del grande Istituto. Otto giorni ancora e gli elementi disgregati, inorganici, impersonali diverranno un ente vivo, storico, parlante, organico, personale; in cui tutti o quasi tutti s’incarneranno i discorsi elementi. Noi possiamo dire oggi: questi sono gli elementi dell’Essenato. Noi potremo dire allora: questi sono degli Esseni i progenitori, gli antenati. Noi diciamo oggi, ecco le pietre, ecco i materiali: noi diremo allora, ecco la fabbrica, ecco il palagio, o almeno: ecco le fondamenta.



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