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LEZIONE QUINTA.

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L’origine degli Esseni doveva essere, voi lo sapete, subbietto delle nostre ricerche, quando il nome fosse stato da noi rintracciato che il nostro istituto contraddistinse. Questo nome, o Signori, la derivazione di questo nome fu da noi recata a quella evidenza che si poteva maggiore. Qual’è ora il compito nostro? Io già vel diceva. Ella è la origine, la origine storica dell’Essenato, l’epoca della sua formazione, le cause che precedettero al suo nascimento, il luogo d’onde prima trasse i natali. Era la prima disquisizione, più ch’altro, gramaticale. È la presente, ricerca storica, e ricerca gravissima.

Noi abbiamo di fronte, non amici da abbracciare, ma nemici da combattere. Noi avremo il paradosso, il pregiudizio, la mala fede da superare, pria di poter penetrare nei vestiboli di verità. Quali sono questi pregiudizj? Eglino sono così svariati di forme, come sono eguali in bruttura. Egli è, in primo luogo, il pregiudizio Pagano; che è quanto dire l’origine pagana gratificata allo istituto più ebraico che abbia mai esistito. Chi lo avrebbe pensato? Chi avrebbe detto che di origine pagana dovesse supporsi lo Essenato? E pure nulla di più vero, di più dimostrato. Egli è il Buhl, il celebre storico della Filosofia, che ne fa fede. Grazie al cielo, non è il Buhl che noi dobbiamo combattere. Non è egli l’autore di paradosso siffatto; ma egli lo ha registrato, gli ha dato luogo nella sua istoria; e se la memoria non erra, non l’ha, come pure avrebbe dovuto, sotto il peso schiacciato della sua autorità. Quale è la causa di tale aberrazione? Su quai fondamenti, su quai pretesti riposa la pagana derivazione? Io credo che non sia difficile indovinarlo. Voi vedrete quando del culto ragioneremo, e delle adorazioni degli Esseni, come fuggito non abbiano costoro ai morsi della più svergognata calunnia. Voi li vedrete, sopra basi inconsistenti accusati, processati e per peccato condannati d’Idolatria; li vedrete posti al bando del Giudaismo, e le note contender loro e le prerogative di Monoteisti e di Ebrei. Li vedrete, in una parola, accusati di prestare idolatrico omaggio al Sole nascente. Noi vedremo allora di che sappia l’accusa inconsiderata; noi rivendicheremo la bontà, la purità della loro credenza. Ma che cosa si esigeva di più per porre gli intemerati Esseni in mala voce, per additarli al mondo quali idolatri, e la fama accreditare tra i contemporanei, tra i posteri, di una origine viziosa, di una origine pagana? Voi vedete le basi vacillanti dell’accusa. Avrò io mestieri di spendere parole soverchie a giustificarli? Dovrò io ricordare le atroci calunnie onde furon bersaglio le israelitiche credenze, siccome allora vi accennai, che del culto Samaritano tenevamo parola? Dovrò dirvi dell’adorazione del firmamento che non pochi tra i Poeti Latini favoleggiarono dei nostri proavi; del teschio che, al dire di essi, nel recesso si adorava del Tempio di Dio, del famoso Asino che il gran Tacito non dubitava di erigere a sommo obbietto del nostro culto?

Or, che miracolo se gli Esseni pur essi del grande onore parteciparono di subire le accuse pagane, e se nell’accusa furono involti pur essi del popolo nostro, essi che del popol nostro la più eletta parte formavano e la più santa?

Ma un altro, credo, e non lieve pretesto, potè l’adito schiudere alla imputazione mostruosa; voglio dire, o miei giovani, di un passo di Flavio concernente gli Esseni, che tratto a peggior sentenza ch’egli non dice, commentato dall’ignoranza e dalla malizia, potè per un istante autorizzare la insensata imputazione. E quale è il passo di Flavio? Egli è quello ove, parlando della essenica scuola, e precisamente nel lib. XII delle Antichità, quella definisce come una setta di Giudei Pitagorici. Il nome di Pitagorici non fu invano pronunziato. Egli avrà sedotte le menti superficiali, egli avrà fatto vedere ciò che Giuseppe non vi ha posto giammai, ch’è quanto dire l’origine pagana. E pure, quant’era facile comprendere Giuseppe senza costituirlo reo di tanta enormità! Che voleva dire Giuseppe? Egli voleva far comprendere ai suoi lettori, ch’è quanto dire al mondo pagano, ai Romani, ai Greci, a tutti quelli che degli Ebrei nulla sapevano che non fosse dalla passione travisato, che cosa fosse quel bellissimo istituto di cui egli, il grande istorico, si professava il ferventissimo ammiratore. Egli lo dice un Istituto Pitagorico foggiato all’ebraica. Egli lo dice un Pitagorismo israelitico, un Pitagorismo ortodosso, siccome Filone fu detto Platone filonizzante, siccome Porfirio chiamò lo stesso Platone un Moisè atticizzante.

Aveva egli ragione così giudicandolo, è ella esatta la sentenza di Flavio? Noi in seguito lo vedremo. Ma quanto non dobbiamo noi l’ignoranza ammirare, ammirare la mala fede di chi le parole di Giuseppe innocentissime torse a così rea sentenza?

Noi non saremo i detrattori degli Esseni. Non saremo nemmeno i loro adulatori. Non diremo neppure come da taluno fu detto, che Pitagora essendosi recato, come ognun sa, in Oriente, colà cogli Esseni s’incontrasse, che ne adottasse i principj, che l’Italico sodalizio erigesse poi sul modello di quel di Solima. Questo fu detto, e caldamente propugnato dai Frati Carmelitani, i quali vedendo nell’Essenato l’origine del loro ordine, vollero fare altresì di Pitagora un copista dei loro supposti antenati, e Carmelitano pur esso coi tria vota substantialia: obbedienza, povertà e castità.[19] Novelle son queste da muovere a riso, nè più seria meritano veramente nè più lunga disamina.

Potremo dire lo stesso di altra origine che l’ingegno moderno pegli Esseni fantasticava? Io credo che più profonda cotesta si esiga e più protratta disquisizione. Il nome, il tempo, la fama dell’autore vogliono che noi alcune parole ci spendiamo d’intorno. Qual’è il nome? Il nome non potrebbe essere nè più famoso nè più interessante, e (aggiungo volentieri) nè più specchiato nè più caro al popol nostro. Egli è il Salvador, che primo tra gli Israeliti francesi dei tempi nostri, salì sulla breccia, e tutto il fuoco sostenne il primo delle falangi avversarie. Il tempo fu quello dei grandi religiosi dibattimenti della Francia moderna. L’opera è quella che più fama destò di sè in Europa, e soprattutto in Allemagna, ove precorse, ove augurò la terribilissima scrittura dello Strauss.

Or bene, nella Vita di Gesù e la sua Dottrina, il nostro Salvador dal proprio têma? condotto, scende a parlar degli Esseni. Egli chiede a sè stesso degli Esseni l’origine; e qual ne segue risposta? Certo non tale quale per noi si vorrebbe. Egli chiede del tempo, ed il tempo egli lo vede, durante la invasione Siriaca, quando i successori di Alessandro osteggiarono aspramente il popolo nostro, e sotto Antioco in ispecie. «Son origine la plus probable, dice il Salvador, remonte à l’époque de l’invasion des Syriens.» Quali le cause che allora lo istituto creavano? Non sono cause propriamente, dice il Salvador, ma piuttosto fortuito concorso di circostanze. «È una turba, sono sue parole, è una turba di famiglie che rovinate dalla guerra, desolate dalla continua violazione dei luoghi sacri, e degli atti alla credenza loro oltraggiosi, ai quali venivano costretti; vanno in cerca di un asilo nelle regioni alpestri della Giudea.» Quale è l’origine del loro culto? Eccolo qual ei ce lo narra. «È l’impossibilità di compiere in quelle solitudini, riti e sacrifizj, o, come dire si voglia, il culto esterno, ella è cosifatta impossibilità che l’animo rivolse ad un’altra specie di culto, ad un culto più interno, alla continua elevazione dello spirito, mercè la pratica della giustizia e gli offici di carità.»—D’onde poi, secondo il Salvador, quella singolare comunanza di beni, che fu peculiare distintivo dell’Essenato? Quali le cause che la produssero? Furono, ad udirlo, «l’incertezza della vita, minacciata mai sempre dalla spada nemica, fu la necessità di provvedere di sostentare tanti vecchi, tante donne, tanti fanciulli.»—Ecco le cause, conclude trionfalmente il Salvador, che ispirarono loro la comunanza dei beni, che la stabilirono allora e poi in seno agli Esseni, e ch’egli dice nel suo idioma «ne tarda pas à devenir une règle principale de leur institut.»—Noi abbiamo parlato del Salvador, come d’uomo si conviene della sua tempra, del suo ingegno. Noi gli abbiamo tributato elogi non ipocriti, non servili e non avari. Ma noi abbiamo perciò stesso la libertà pienamente acquistata di sindacare la bontà, la ragionevolezza delle sue dottrine. Mi duole il dirlo, il Salvador ha soggiaciuto al genio predominante del suo paese, del suo tempo, e più assai al genio dei suoi vicini Tedeschi. Egli sente, come essi, alto profondo orrore di tutto quello che per poco trascende le età più moderne della istoria; egli è uno di quelli che i tempi, gli uomini, gli istituti più antichi modernizzarono; egli è uno dei grandi atleti che stringendo a così dire tra poderose ritorte le statue, i monumenti, che sorsero all’aurora dei secoli, si sforzano e sudano e si affaticano a tirarli a tempi a noi più vicini; egli è uno di quelli che fanno vedovi i primi secoli dei fatti più illustri, degli uomini più venerandi; che fanno, nell’ordine della cronologia, ciò che le moderne nazioni civili fanno in ordine allo spazio, togliendo obelischi, sfingi, sarcofagi e d’ogni maniera anticaglie, a quei paesi ove l’arte li generava, e decoro illustre ne fanno di musei, di biblioteche, di capitali. Egli è di quelli che fanno il vuoto nelle origini, e gli uomini e i fatti condensano, accalcano in angustissimo spazio di tempo, con quanta sapienza e ragione, non so.

Fuori dei tempi antichi, ogni romanzo è buono a costoro. Anzi, la storia sol perchè è antica, è romanzo, e il romanzo solo perchè è moderno, è la istoria.—Io ho detto romanzo, e lo mantengo. La teoria del Salvador, con sua buona pace, non è che romanzo. E se vi aggrada come me osservarlo, vedetelo immantinente. Io potrei appuntare per primo il Salvador, non di plagio, chè la di lui probità letteraria me lo contende, ma di aver disdetto, voglio credere involontariamente, l’onor del trovato a chi si appartiene. Potrebbe dire una critica meticulosa, che male non avrebbe fatto il Salvador a narrarci chi fu il primo a porre innanzi la ipotesi menzionata; a dirci, che fu il Drusio colui che primo gliene offriva l’idea; che fu esso che andando in cerca, siccome noi dell’origine degli Esseni, insegnava come questa si dovesse riporre ai tempi d’Ircano Asmoneo, quando la parte perseguitata si ricovrò nei deserti, e colà di buon’ora s’assuefece ad un tenore di vita durissimo, nel quale dipoi perseverò volentieri. Il sistema del Drusio non è quello, ben io m’avveggo, del nostro Salvador, il quale differisce siccome udite in ordine al tempo, e risale ad un’epoca non di poco anteriore a quella dal Drusio seguita. Ma finalmente, che cosa non hanno di comune i due sistemi, ove si eccettui la differenza notata? Io ardisco dire che hanno tutto in comune, e che bene avrebbe fatto il Salvador a dividere con chi di ragione la responsabilità del sistema. Egli però nol fece, nè io insisterò di soverchio. È egli almeno probabile, è egli almeno accettabile il sistema dal Salvador propugnato? Io gli chieggo del culto essenico la origine, ed egli l’impossibilità mi addita dei sacrifizj e del culto esteriore; al quale ei dice, un culto più elevato si sostituì in ispirito e verità.—Di buona fede è egli questo raziocinare per filo e per segno? Che cosa suppone il ragionamento Salvadoriano? Suppone, se io non erro, che nè sacrifizj nè culto esteriore appo gli Esseni esistesse. Che se così non fosse, che cosa suonerebbe questa sognata sostituzione? Io dico dunque che lo suppone.—Ma che dice la Istoria, alla quale ogni reverenza si dee ed ogni ossequio? Conferma ella la ipotesi del Salvador, ed una setta negli Esseni ci raffigura quale egli ce la dipinge, destituita di culto esteriore e di sacrifizio? Nulla affatto. La storia parla alto, parla solenne contro la teoria irriflessiva del Salvador, ed un amore ed uno studio ci offre presso gli Esseni del culto esterno, da disgradarne ogni più raffinata e squisita pietà. Ma che volete? Il Salvador pecca per troppa bontà. Egli ama gli Esseni, egli li stima, nè confine egli pone alle lodi che al bello Istituto profonde nel suo libro: epperò gli dà troppo del suo, epperò di quelle vesti li abbiglia che più talentano al suo genio filosofico, al suo gusto, al suo favorito sistema. Epperò li va profumando con quegli unguenti razionalistici che ponno farli accogliere, festeggiare nei dotti consessi. Rimane però a sapersi se del presente generoso gli Esseni si chiameranno contenti.—Io proseguo e chieggo al Salvador: d’onde, secondo voi, la comunità degli averi? Che cosa risponde il Salvador?—Dalla incertezza della vita, dalla necessità di provvedere a tanti vecchi, a tante donne, a tanti fanciulli.—Eppure il mondo non l’aveva finora capita così. Si credeva finora che nulla vi fosse di più egoista della necessità, nè di più avaro della miseria. Si credeva finora che l’abnegazione, la generosità, e soprattutto il rinunciamento assoluto di ogni bene, non albergassero precisamente colà, ove la fame manda i suoi orribili latrati, e dove la prepotente mano del bisogno, stringe i cuori ad ogni senso di pietà, e non occorre dire d’abnegazione. Benedetti razionalisti! Quanti miracoli non sanno fare! Eglino ti cavano un effetto dal suo opposto con quella disinvoltura con cui Mosè trasse dalla rupe le acque. Ma eglino, i razionalisti, ci hanno insegnato a dubitar dei miracoli, e questo basti perchè i loro miracoli eziandio da noi si rifiutino.

Ma su.—Io voglio menar buone al Salvador tutte le anzidette repugnanze. Voglio dire che il culto esterno tra gli Esseni non vi fosse, e che dalla brutta fame sia uscito fuora il più sublime prodigio di carità. Ma il nodo gordiano non è qui. Sapete invece dov’è? È nel passaggio da questo stato temporario, provvisorio, forzato, ad uno stato durevole, ad uno stato definitivo, ad uno stato volontario. Mi spiegherò ancor più. Bisogna che ci dica il Salvador in qual guisa, per quale sconosciuta ragione, una condizione così miserevole, così eccezionale, così a malincuore subìta dai poveri emigrati, si tramutò, ad un colpo di magica verga, in un’associazione regolare, stabile, religiosa, dotta e venerabile, come fu quella che veggiam negli Esseni. Se questo il Salvador non ci narra, se egli non ci svela il transito miracoloso, sapete che cosa io crederò? Io crederò che non appena rimossi gli ostacoli, non appena gli impedimenti sgombrati, non appena restituita la pace e la libertà, non appena le vie si dischiusero del ritorno ai poveri fuoriusciti, che ognuno riedendo pacificamente a casa sua, avrà ripreso il godimento degli antichi diritti; e l’esercizio delle prische faccende. Ecco che cosa credo, ecco quello che suggerisce il più comunale buon senso. Per trasformare un’orda di fuorusciti in un istituto ammirando quale fu l’Essenato, ci vuol altro che parole! Ci vuol ragioni! E che cosa ci dà in compenso il Salvador? In qual guisa si districa egli dagli intricatissimi lacci?—Ecco, come: Quello stato, egli dice, era provvisorio, era precario, ve lo confesso. Udite pellegrinità di trovato. Ma, egli aggiunge in sua favella: «Mais ne tarda pas a devenir une des règles principales de leur institut.» Volete più? Se più esigete, sareste davvero indiscreti. Quel ne tarda pas, ch’è l’anima del concetto, è fatto proprio per contentare anco gli ingegni più schizzinosi. Egli è proprio un miracolo; ma un miracolo di coreografia, non dialettico procedimento. Questo si chiama in Parigi glisser sur les questions. Ma io dico piuttosto, che fa scivolare, che fa sdrucciolare gli inesperti, e che il minor pericolo che può incoglierci, sia quello di nulla imparare.

Noi abbiamo, se ben mi appongo, abbastanza crollato il sistema del Salvador. Or bene, lo credereste? Egli è ancor più fragile di quel che credete, e quando pure potesse avere le superiori sembianze del colosso di Nabucco, certo che i piedi, che le basi di creta non mancheriano. Tali le prove, tali i fatti sono che vi addurrò, che il sistema del Salvador riporrete certo tra gli onorati defunti. Non lo credete?—Ebbene, o miei giovani, togliete in mano il libro del Salvador, e la citazione osservate alla quale tutto egli affida il peso del suo sistema, e ditemi che ve ne pare. Non dovrebbe essere, non è egli vero, una colonna, una piramide, un atlante? Oibò, è canna, e fragil canna. Qual’è la citazione del Salvador? Egli è un passo del libro dei Maccabei, ove si narrano i primi effetti della irruzione Siriaca in Palestina. Come suona quel passo? Dice per l’appunto così: «E si ridussero gli sbandati Israeliti ad abitar nelle caverne ed in ogni luogo ove potessero un asilo trovare...... Allora parecchi tra quelli che cercavano giustizia, trassero al deserto onde abitarvi.»—Qui finisce la citazione Salvadoriana, che dal 1º e dal 2º Capitolo fu tratta del primo libro dei Maccabei. Ma noi non sbaglieremo dicendo che il Salvador così facendo, si affidò più a quanto di proprio avrebbe supplito il lettore, a quanto avrebbe la immaginazione suggerito in compimento, che a quanto sta veramente registrato nei Maccabei. Diffatti, a questo punto arrivati della istoria, allo spettacolo di tanta gente che fermano stanza nel deserto, dopo le parole in ispecie del Salvador, che cosa vi suggerisce la fantasia? La fantasia s’impadronisce di questo dato, di questa emigrazione dalla storia narrata, e vestendola secondo il suo stile di colori fittizj, ed allargandola ed ampliandola, e preoccupando il campo dell’avvenire, e parlando ove la storia si tace, già dimostra in questo pugno di fuorusciti il germe della grande istituzione; già ve li addita stanziati definitivamente in quelle solitudini; già li stringe in religiosa consorteria; già dal semplice soggiorno alla convivenza trapassa, quindi dalla convivenza alla scelta di una vita comune, da questa all’organamento sociale, al culto, alle dottrine; e così di grado in grado salendo, ed elemento ad elemento soprapponendo, fa sorgere quasi per incanto il grande, il bello istituto degli Esseni. Io non so se mi vorreste più generoso; ma io tutto ammetterei, quanto può di fantastico offrirci, di gratuito, questa ipotesi, quando almeno la base istorica, quell’esilissimo storico addentellato, che pur or ricordammo, rimanesse saldo, inconcusso, rimanesse in piedi. Che sarebbe però, dilettissimi, se pur esso svanisse; che sarebbe se il gigantesco edifizio tutto vedessimo sull’arena fondato; che sarebbe se tutte le nostre immaginarie scoperte andassero miseramente in frantumi, come le fantastiche supputazioni di colui che sopra pochi miseri vetrami la fortuna sua fondava?—Certo che bene avremmo di maraviglia argomento, come un ingegno svegliato, probo, erudito come il Salvador, si lasciasse tanto aggirare dall’orror dall’antico, tanto dagli spiriti razionalistici, sino a disconoscere la inanità del sistema proposto. Quale è di questo sistema la base; quel quid senza di che sarebbe a zero ridotto; quel polline, quell’embrione d’onde si vuol tutto l’Essenato prodotto? Egli è senza meno, e voi lo sapete, quel nucleo d’Israeliti i quali dalla Macedone spada incalzati si ridussero raminghi per lo deserto. Or bene. Mi spiace per voi, mi spiace per il Salvador, mi spiace per quei poveri Israeliti. Il preteso embrione non giunge alla prima fase di gestazione. Il polline muore sullo stelo per effetto di una brinata. Senza figura, quel pugno d’Israeliti su cui si fondava così alto e immenso edifizio, non scorsero pochi giorni che raggiunti, circuiti, assaliti, ed infine distrutti dai Macedoni persecutori, spariscono miseramente dalla superficie della terra. Dove son iti i germi dell’Essenato, dove sono i primi rudimenti, dove i portentosi sviluppi? Se ne desiate novelle, chiedete piuttosto ai generali Siriaci, che vi mostreranno in risposta la spada tinta di sangue. Chiedetene, se ne volete più mite responso, alla storia stessa dei Maccabei, allo stesso 2º Capitolo citato dal Salvador, ai versi stessi che quasi immediatamente conseguitano a quelli dal Salvador indicati; e queste parole vi leggerete, che pur esser dovrebbero suggel ch’ogni uomo sganni:

«Coloro dunque (cioè i soldati Siriaci) gli assalirono con battaglia in giorno di sabato, sì che morirono, essi e le loro mogli, e i lor figliuoli e i lor bestiami, fino a mille anime umane.»

Avete inteso?—Non uno rimase vivo; non uno da cui potesse sorger per miracolo l’Istituto degli Esseni; non uno di coloro che furono, secondo il Salvador, semenzajo del grande Istituto. L’esito, la catastrofe sarebbe veramente comica, sarebbe ridicola, se tetra e lagrimevole troppo non fosse.

Giunti a questo punto, in presenza a questa terribile e sanguinosa confutazione, che cosa più dovremo aggiungere? Certo che noi potremmo dire al Salvador, che pria della origine supposta, pria che di questa emigrazione si narri nel libro dei Maccabei, già di una valorosissima consorteria ivi stesso è menzione, che si noma dei Hassidim, e che tutti i segni reca manifestissimi dell’Essenato, onde cerchiamo l’origine. Ma innanzi alle ricordate deposizioni dell’istoria, ogni argomento vien meno. Egli è per questo che noi abbiamo il fine raggiunto della nostra via? Debbo dirvi che no. L’argomento che ci siamo proposti vuole che ancora altre origini consideriamo, altre opinioni. Non è invano che si prende grave argomento a trattare. Dirò a voi come Dante ai suoi lettori:

Conviene ancor seder un poco a mensa, Perocchè il cibo rigido ch’ho preso, Richiede ancora ajuto a sua dispensa.


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