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CAPITOLO I

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Il marchese di Baldissero, se vi ricorda, aveva recato seco il manoscritto di Maurilio che gli agenti di polizia avevano sequestrato nella perquisizione fatta in casa il pittore Vanardi. Le poche cose che ne aveva lette fugacemente, segnate colla matita rossa dal commissario Tofi ed additategli dal Governatore, lo avevano invogliato, uomo di alto senno e di imparziale giudizio qual egli era, di fare più ampia ed esatta conoscenza, come si suol dire, colle idee ardite insieme, e per lui, ed in quel tempo massimamente, affatto nuove, manifestate dal giovane pensatore.

Sedutosi adunque nel suo severo studiolo, dove siamo già penetrati, il marchese lesse con attenzione gli squarci seguenti:

«Sieyes disse in sul fine del secolo scorso la sua famosa frase: «Che cosa è il terzo stato? Nulla. Che cosa dev'egli essere? Tutto.» Egli con ciò esprimeva la sintesi, la conclusione del movimento di progresso del secolo XVIII nell'ordine politico ed economico, il programma della rivoluzione che ne legava le basi dell'attuazione e ne lasciava compiere l'edifizio al secolo corrente. E questo secolo non si finirà senza che si proclami un'altra formola, od anche non proclamata in parole senza che si cominci ad effettuare nei fatti, la seguente: «Che cos'è la plebe? Uno stromento cieco, una forza senza guida, di cui si ha paura e cui si comprime, capace ora più del male che del bene. Che cosa ha ella da diventare? Una forza consciente ed illuminata, che abbia essa stessa la ragione, e colla sua potenza trascini il mondo nella via del bene.» Ancor essa, la plebe, ha da diventar tutto, perchè nel suo gran seno ha da avvolgere e contenere e confondere quelle separazioni che ora diconsi classi, fatta serbatoio unico e comune di tutte le intelligenze, di tutte le individualità operatrici, in una specie di emanatismo politico, nell'unità di popolo.

«Leggevo l'altro giorno di certe macchine a vapor acqueo che mandano innanzi sopra rotaie di ferro una filza di carri di peso madornalissimo con velocità meravigliosa e fanno muovere i congegni e le ruote d'un intiero opifizio con un movimento trasmesso. Cotal forza di vapore non diretta, mal governata può essere uno sterminio; in quell'organismo meccanico è una benedizione. Ecco l'immagine della plebe nel movimento sociale: ecco la sua parte che oramai viene ad assegnarle il progresso allo stadio in cui si trova. Abbandonata a sè, malamente e a torto compressa, disordina o scoppia con danni infiniti. L'organismo meccanico che deve farne una forza utile è l'assetto politico e sociale che conviene rimutare di molto, non certo per bruschi passaggi, ma per lente gradazioni di miglioramenti.

«Ma quest'organismo politico e sociale deve egli esser quello che attuò l'assolutismo accentratore, per cui la volontà d'un solo dia norma e regola a tutto il movimento della vita pubblica d'un popolo; deve egli esser quello che sognano i comunisti per cui la società assorbendo compiutamente ogni personalità, distrugge la libertà individuale per fare di tutti la ruota d'una macchina agente di forza sotto una specie di legge fatale? No: sono tirannia e il comunismo e l'assolutismo, due forme d'un medesimo errore, d'un medesimo delitto, lo schiacciamento della personalità umana, sul libero sviluppo della quale deve fondarsi il progresso dell'evo moderno. La condizione, l'ambiente in cui e per cui deve aver luogo la rigenerazione della plebe può essere soltanto LA LIBERTÀ…

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«L'umanità cominciò per essere tutta schiava, perchè tutta ignorante: schiava delle forze della natura che non aveva imparato ancora a vincere e guidare, schiava dei proprii istinti animali che non aveva ancora imparato a dominare e farne virtù ed affetti. Dalla profondità di questo abisso di tenebre intellettuali e morali, cominciarono a sorgere gradatamente ad una luce relativa sempre via via crescente i pochissimi, poi i pochi; cominciano ora ad essere i molti; non sono ancora i più, conviene che sieno tutti. I sacerdoti prima, che usarono la forza del pensiero a consolazione e terrore insieme dell'universale, approfittandosi del sentimento religioso, primo sintomo di progresso nell'uomo uscito appena dall'efferatezza della barbarie; poscia i guerrieri che usarono la forza dell'animo e del braccio in difesa dell'associazione comune; quindi coloro che col commercio e coll'industria usarono delle forze della natura per accrescere la ricchezza della sociale agglomerazione. Al di sotto sta ancora l'immensa massa di coloro che usano le forze tutte della loro vitalità nella lotta della produzione, ad effettuare benefizi economici, sociali e intellettuali a cui essa troppo poco o nulla affatto partecipa. La società dell'India ha da secoli arrestato il movimento progressivo ascensionale delle classi, cristallizzandone per così dire l'assetto nella stabilita fatalità delle caste: a qual punto erano allora arrivati i differenti strati sociali dovevano fermarsi in eterno colla varietà immutabile dei loro diritti e vantaggi maggiori o minori misurati dall'ingiusta casualità della nascita: sacerdoti, guerrieri, trafficanti, ultimi i paria che non dovevano aver mai diritto, nè vantaggio nessuno. Ma quella società in tal modo s'è tolto l'elemento e la ragion della vita; immobilitando il suo organismo ne impedì la funzione migliore, quella del migliorarsi; ogni corpo sociale che non progredisce, decade; quella società da secoli sta lentamente morendo.

«Ma in Europa eziandio, anche dopo il fiero scuotimento della rivoluzione di Francia sono troppi ancora i paria! Il risultamento della gran rivoluzione, fu l'esecuzione la più compiuta possibile del programma di Sieyes: l'emancipazione, anzi il trionfo del ceto medio. L'impero stesso napoleonico non rappresenta altro a' miei occhi. È la democrazia del terzo stato che si afferma mercè la forza contro l'antica monarchia del diritto divino, contro l'antica aristocrazia dei privilegi, contro l'antica supremazia del papato; tre forze del mondo andato a fascio colla rivoluzione, le quali tenevano schiava l'umanità. Napoleone è un parvenu della borghesia che invano cerca coprirsi col manto del sacro romano impero di Carlomagno per illudere il monarcato e i vecchi patriziati d'Europa; che riesce a circondarsi d'una specie di Cesarismo democratico per trascinar seco le masse. In Roma non v'era ceto medio, e Cesare per abbattere l'aristocrazia si fece l'uomo della plebe; in Parigi, dopo la rivoluzione, Buonaparte si servì del militarismo e della conquista per ispandere le affermazioni politiche ottenute dal terzo stato e che erano sornuotate all'anarchia, dopo la sconfitta del demagogismo plebeo. L'opera di Napoleone, politicamente e socialmente parlando, è tutta nel Codice civile: il vangelo della società moderna. Dopo l'impero non fu possibile più che un monarcato borghese. I Borboni, tornati, dovettero acconciarsi a regnare in tal modo, e poichè Carlo X non seppe adattarvisi a dovere, la rivolta del 1830 lo cacciò per far luogo ad un re secondo il cuore dell'epoca: un re, come lo chiamano al di là delle Alpi, un re di bottegai1.

«La plebe dalla grande rivoluzione, a dispetto delle audacie demagogiche e delle utopie sociali che si presentarono alla luce del giorno, non ebbe, nella divisione dei benefizi, che una menoma parte: appena se la ricognizione di alcuni diritti, la concessione di pochi; la precarietà delle sue condizioni non fu mutata, la sua emancipazione dalla miseria, o tentata soltanto e male, o pretesa attuare con ispedienti più nocivi e minacciosi dei diritti d'altrui. Il torto non fu degli uomini nè degli avvenimenti: fu della necessità delle cose. Il nostro ceto non trovavasi ancora in condizione da approfittare della rovina della società antica per farsi, nella ricostruzione della nuova, un posto migliore. Era giusto che il ceto medio ne vantaggiasse egli primo e quasi esclusivamente, perchè quella rivoluzione era opera sua, da lunga mano egli ci si era preparato, nel suo seno era sôrta quell'agitazione filosofica di criticismo che aveva arrivate ed affascinate anco le sfere superiori e preparava nell'ordine delle idee quella distruzione del vecchio che doveva poi aver luogo così meravigliosamente ne' fatti. A tutto ciò la plebe non aveva collaborato che con qualche tumulto suscitato dalla miseria, andando a gridare, sotto alle finestre di quella che era ancora per lei la Provvidenza incarnata, voglio dire la monarchia, che aveva freddo e che aveva fame. Quando la rivoluzione, facendo come Saturno, ebbe divorato i migliori suoi figli, ella era entrata un momento nel campo lasciato libero, ma con non altro concetto direttivo che le follie o tristi o puerili degli Hebert, dei Babeuf e dei Clootz, col tristo corteggio delle tricoteuses della ghigliottina, allo sciagurato lampo della lama sanguinosa di quello stromento di morte.

«La rivolta del 1830 non giovò molto di più all'emancipazione della plebe. Non fu che una vendetta della borghesia verso la ristaurazione che aveva creduto poterla rigettare di nuovo sotto la dominazione delle vecchie schiatte feudali.

«Poi la quistione si complicò sventuratamente con quella della forma politica. Gli amici della plebe credettero che il vantaggio di essa più facilmente si otterrebbe col trionfo del partito repubblicano; e questo non ha tuttavia guadagnato la maggioranza delle coscienze e delle opinioni in Europa.

«La forma politica non vi ha da che fare. Anche la monarchia può soddisfare a ciò che pretendesi dalla giustizia verso le basse classi, che queste cominciano anche inconsciamente a domandare, che esige la legge medesima del progresso umano. Per questo è necessario oramai entri in azione l'elemento della plebe: quella forma politica qualsiasi, monarcato o repubblica, che saprà sinceramente accettare ed aiutare siffatta entratura e fondarcisi, avrà assicurate le proprie sorti soddisfacendo al bisogno dell'epoca…

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«Quella classe che alla plebe dovrebbe tendere la mano è la borghesia. Uscita da poco, da ieri soltanto, fuor di quel baratro di soggezione, d'ignoranza e di miseria dove s'agita ancora il volgo, dovrebbe facilitare il cammino ai suoi fratelli. L'onda del progresso manda i derelitti a battere alla porta dell'edificio della civiltà dove banchettano i gaudenti, dov'è sapere e ricchezza: gli arrivati dovrebbero aprir loro il varco perchè colla violenza non lo dischiudano: colla violenza che tutto manda sossopra. Lo dovrebbero per generosità, lo dovrebbero per interesse: la borghesia, appena arrivata, lotta ancora coi tronconi tuttavia potenti dell'idra del passato che la scure della rivoluzione ha infranto, non ha spento del tutto. Le stanno a fronte più che tenacissimi, risuscitati a nuova vitalità, i resti del feudalismo, il militarismo, la teocrazia uniti in istretta lega dall'esperienza del comune pericolo a cui soggiacquero: un'alleanza fida, sicura, potentissima la troverebbe nella plebe.

«Anche la monarchia potrebbe avvantaggiarsene. Quel dì ch'essa apertamente si facesse redentrice delle plebi avrebbe schiacciato ogni rimasuglio di resistenza aristocratica, avrebbe scongiurato ogni rischio del dottrinarismo liberale borghese. E l'aristocrazia? Quando chiamasse ella stessa al desco fraterno della civiltà le classi tenute finora da esso lontane, nulla avrebbe a temer più della rivalità del ceto mercantile. Avrebbe trovato una forza nella dignitosa clientela di diritti che dimani avranno la foga di passioni e la terribile ragione del numero. Ma per ciò l'aristocrazia avrebbe da mutarsi del tutto d'indole e di essenza. E ciò, com'è oggidì, non vuole, non ha il coraggio da tanto, non ne ha neppure l'intelligenza. La borghesia liberale è ancora più adatta a quest'opera eccelsa e fatale, da cui ha da sorgere la società novella del venturo secolo; ma la borghesia in un accesso di cieco egoismo diffida e teme dei fratelli da cui si è separata da un giorno soltanto; e l'occhio volto esclusivamente alla ragion del guadagno ed alla materialità del suo benessere, dimentica la sua missione e i suoi veri interessi medesimi.

«Guai, guai a chi volesse di questa forza servirsi come d'una leva pel conseguimento de' suoi fini particolari, e di poi gettarla od infrangerla! Una volta affrontato il problema, o il suo scioglimento graduato ma logico e fatale, o la crisi la più spaventosa che abbia mai attraversato l'umanità.

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Il marchese cessò un istante dal leggere e stette meditando.

– C'è molto da riflettere, disse fra sè, in queste pretese fra ingenue ed orgogliose della moltitudine, che ha trovato un ingegno ed una erudizione per dar voce all'inconscio lavorìo che si fa nel suo seno, e cui imprudentemente hanno solleticato ed aiutano le ambizioni malconsigliate dei rivoluzionari. È un sintomo dell'epoca. Codeste aspirazioni hanno bello ammantarsi delle sembianze generose di temperati richiami ad una ipotetica giustizia; le non sono altro che un mascherato desiderio dei godimenti materiali, cui soltanto i poveri vogliono vedere nella vita delle classi superiori. Sotto lo specioso nome di progresso, inventato dall'irrequieta ambizione de' moderni sovvertitori, non intendono in realtà altro che lo spogliar noi dei vantaggi sociali per goderne essi: l'ufficio alto e necessario ad un buon assetto dello Stato, cui esercita l'aristocrazia, disconoscono o fingono disconoscere: essi non pensano neppure ad assumersene il carico e non ne sarebbero capaci; e frattanto, togliendo alla classe superiore i privilegi, la riducono ancor essa nella impossibilità di compiere il suo mandato. Così la società rovinerebbe. A beneficio di chi? Delle più indegne passioni.

Curvò il capo fissando la fiamma vivace della legna che ardeva nel caminetto. Un penoso pensiero gli fece corrugare quella sua nobile fronte.

– Ma la nobiltà d'oggidì, soggiuns'egli con un sospiro, ma noi adempiamo ancora veramente ed efficacemente a quell'alto ufficio?

Non diede a se stesso risposta, come se non osasse, non sapesse; voltò una pagina del manoscritto e riprese a leggere un altro passo segnato dalla matita rossa del Commissario.

«Il vero fondamento d'un buono organismo sociale è la libertà: sarà migliore quel sistema, farà più felici i suoi popoli quel governo, effettuerà quanto più è possibile l'uguaglianza civile quel complesso di leggi e di amministrazione che guarentirà come l'arca santa di tutte le libertà, la libertà individuale.

«Gli antichi usarono molto il vocabolo di libertà, ma di essa non ebbero il menomo giusto concetto, sacrificando il cittadino allo Stato, schiacciando sotto l'ente collettivo l'ente individuale. Non formiamoci un idolo di quest'essere collettivo, la cui personalità, risultando dal complesso di tutte quelle che la compongono, deve cercare la sua prosperità in quella delle singole monadi che la costituiscono. Lo Stato ha la sua ragion d'esistere nell'obbligo e nel fatto di ottenere la maggior felicità dei membri tutti ond'è composto: dico di tutti, non di una classe – di tutti secondo la loro capacità e condizione. Quando manca a codesto dovere, o tutto il popolo tenuto in malessere, o quelle classi che sono oppresse hanno diritto di sovvertirlo: rimedio certo estremo, cui e popoli e Governo dovrebbero impiegare tutta la prudenza per evitare. Se il diritto insorge e non trionfa, si ha il fatto della tirannia.

«Il mezzo più sicuro di ottenere la maggior felicità di cui sia capace un popolo è la libertà, la quale ancora è mezzo unico efficace perchè questo popolo si renda degno di felicità maggiore e la conseguisca. La libertà accompagnata dalla giustizia, che genera infallibilmente la moralità. La libertà è la responsabilità di ciascuno e di tutti in faccia a tutti ed a ciascuno ed a se stesso: è la possibilità e l'incoraggiamento di svolgere ed impiegare tutte le forze individuali nel comune lavorìo onde risulta la coltura: e questo svolgimento e questo impiego trovano così limite soltanto ed arresto nello svolgimento e nell'uso di altre forze individuali più meritevoli, più potenti più logiche e quindi più degne d'espansione e di successo. Alcuna forza buona in codesto urto di attriti rimarrà soffocata fors'anco, alcuna cattiva, per audacia e pravità della natura umana riuscirà a trionfare; ma sarà un'eccezione che andrà sempre via via diminuendo a seconda che durerà l'esercizio della libera vita.

«Ma la risponsabilità dell'individuo presuppone nel medesimo la facoltà dell'apprezzamento e gli elementi del giudizio. L'uomo è tanto più libero e tanto più risponsabile, quanto più è istrutto. L'istruzione è primo elemento della libertà: l'educazione della coltura. Volete mantener serva una gente? Fate che sia ignorante. Volete chiamarla alla libertà? Obbligatela ad aprir gli occhi alla luce. Fondamento sul quale innalzare l'edificio d'un libero vivere, l'istruzione e l'educazione obbligatoria pei fanciulli di tutti. «Obbligatoria? Questa parola sembra stonare col tenore del mio concetto. Libertà ed obbligo, come s'accordano? S'accordano sì. Sono due termini di un'antinomia che si risolve in una proposizione dialettica, recando la quistione sul suo vero terreno.

«La libertà individuale consiste in ciò che l'uomo possa fare tutto ciò che spetta alla sua azione, tutto ciò che gli piace ed ommettere eziandio a suo talento tutto ciò che non ha voglia di fare, quando col suo fatto colla sua ommissione non urti nella libertà degli altri, non leda i diritti altrui. Se ad un uomo piace l'essere ignorante, che diritto ha la società di dirgli: rompiti la testa a studiare, perchè io voglio che tu sia istrutto? Potrebbe dirsi che la società da un uomo istrutto ricava utile assai più che da un ignorante, ed ha perciò diritto di pretendere che quel suo membro le dia tutto ciò che può darle di sua capacità; ma questo a mio vedere è un sofisma. L'uomo dev'essere accettato dalla società quale si trova: ricco o povero di talenti, ricco povero di cognizioni, ella non può pretender altro se non che non violi i diritti altrui, non minacci la sicurezza comune. Con diverso criterio bisognerebbe ammettere che la società avesse diritto di scrutare se l'individuo può dare maggior lavoro di quello che dia effettivamente, maggior virtù, maggior senno e che so io, ed obbligarlo a dare questo tanto di più: il che sarebbe non che tirannico, assurdo.

«Ma quand'è che l'individuo ha da godere di questa sua libertà che è per così dire un santuario in cui nessuno deve osarlo turbare? Quando esso n'è fatto capace: quando la sua personalità è arrivata a quella maturanza per cui è risponsabile de' suoi atti, quando insomma è veramente uomo. Il fanciullo non ha la pienezza di questa libertà perchè non ha la possibilità di usarne: gli manca la responsabilità perchè gli manca la ragione; l'infanzia fisicamente e moralmente ha bisogno di sostegno; il diritto ch'essa ha, quasi per inversione, è appunto quello che altri abbracci e faccia come appendice della sua la esistenza di essa e provveda a tutti i suoi bisogni.

«Ora qui si trovano in accordo due principalissimi elementi: l'interesse che ha la comune associazione che le si crescano generazioni meglio capaci di conferire al bene comune mediante l'istruzione, ed il diritto che ha ciascun individuo, quando non può ancora da sè provvedere alle cose sue, che siccome si procura la soddisfazione de' suoi bisogni fisici, gli si fornisca eziandio quel capitale di cognizioni onde avranno ad avere soddisfacimento di poi i suoi bisogni intellettivi e morali. L'obbligo adunque dell'istruzione non s'impone all'individuo su se medesimo, quando capace di giudicare e volere, ma s'impone ai padri che debbono ancora volere e giudicare pei figli.

«La libertà dei padri rimane ella lesa? No. Hanno essi diritto i padri di decidere e volere che i loro figliuoli rimangano nel lezzo dell'ignoranza? Questa loro libertà eccede i limiti in cui si deve muovere, perchè offende il diritto ingenito che ha il figliuolo all'alimentazione dello spirito, pari a quello che reca seco nascendo all'alimentazione del corpo. Se un padre rifiuta di provvedere il cibo a' suoi figli, lo si punisce – ed a ragione – ; se non sa non può procurarglielo sottentra l'azione sociale a sostituirlo. Così dev'essere del cibo dello spirito.

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«La plebe può quasi ancora paragonarsi alla fanciullezza2. Come tale non avrebbe ella il diritto di essere illuminata, anche con qualche costrizione? Se si mettessero obbligatorie per l'operaio le scuole serali degli adulti, per esempio?.. Ma no; beneficia invitis non conferuntur, dissero i Romani; si lasci pure all'operaio già cresciuto la libertà di andare piuttosto all'osteria la sera che non alla scuola; ma questa scuola frattanto ci sia, perchè, dove lo voglia, egli vi si possa recare.

«Scuole obbligatorie per tutti indistintamente i fanciulli; scuole facoltative per gli operai adulti. Va benissimo: ma chi le pagherà tutte codeste scuole?

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«Gli enti naturali che hanno la loro ragione di esistere superiormente alla legge sociale sono due: l'individuo e la famiglia. È legge di natura che l'individuo per isvilupparsi abbia bisogno della famiglia: questa è la ganga da cui si sprigionerà il metallo della persona individuale. Una famiglia rudimentale hanno anche i bruti: colla comparsa della ragione nell'umanità essa doveva progredire in nuova e più perfetta costituzione colla sanzione di più spiccati e maggiori doveri e diritti nei due termini che la compongono: la paternità e la figliuolanza.

«Ma quella prima agglomerazione d'individualità che è la famiglia, è ancora molto debole in faccia alla natura che impone ad ogni suo organismo vivente la lotta per l'esistenza. I comuni pericoli costringono parecchie famiglie ad unirsi in vincolo di comune difesa: d'altronde la famiglia è una sorgente feconda di altre famiglie, dal tronco si slanciano varii e molteplici rami e tutti rimangono uniti da una comunanza di bisogni, d'interessi e d'affetti. È la prima associazione che non impone più la natura medesima direttamente e inevitabilmente. Intravviene un fatto sociale. L'uomo ha dedotto delle conseguenze dalle premesse delle sue condizioni, dalla sociabilità messa in lui virtualmente, da quello che ha imparato dall'esperienza. È fatto un passo immenso nella civiltà: è creato il Comune, la vera unità dell'associazione politica, la base d'ogni esistenza collettiva di popolo.

«Più tardi la progrediente vita sociale creerà dei bisogni a cui provvedere, dei pericoli a cui riparare, non basterà più da solo il Comune. Si sente da essi l'utilità di consociarsi in parecchi affine di accrescere le loro forze, i loro mezzi d'azione, la loro difesa. È nato lo Stato, o per dir meglio il concetto del medesimo si è staccato da quello del Comune con cui prima si confondeva, e s'è visto in esso qualche cosa di più comprensivo, una somma di rapporti di più lata e diversa natura.

«Finchè lo Stato rimase piccolo bastò che trammezzasse fra lui e la famiglia il Comune; ma il movimento del progresso politico si è finora disegnato di guisa da volere ed effettuare via via sempre più grandi agglomerazioni di popoli, prima empiricamente, senza regola direttiva, per la violenza della spada, per l'ambizione d'un despota o d'un popolo conquistatore; da ultimo, dopo la rivoluzione francese, dietro una specie di norma nelle condizioni geografiche ed etnografiche, con la legge d'un nuovo diritto, quello delle nazionalità; alla costituzione ed al compimento delle quali è chiaro per me che l'umanità cammina senza possibil riparo nel presente secolo, nella continuante evoluzione, nello sviluppo dei germi posti dal gran cataclisma europeo di cui fu stromento il più efficace la Francia.

«Ma fra lo Stato cresciuto a queste proporzioni e tendente a tutto accentrare ed assorbire, ed il Comune che vide minacciata ed ebbe anco intaccata la sua vita autonoma, fu bisogno allora che si stabilisse qualche cosa di mediano che provvedesse a certi bisogni locali e partecipati a più Comuni, ed a cui lo Stato, tratta in altro campo più vasto la sua azione, mal poteva e voleva e non doveva por mano. E fu costituita la Provincia.

«Or dunque noi abbiamo a costituire l'organismo sociale parecchi elementi, parecchi esseri di cui alcuni hanno vita direttamente dalla natura medesima, gli altri mediatamente per convenzione degli uomini resa necessaria dalle condizioni immutabili delle cose: l'individuo, la famiglia, il Comune, la Provincia e lo Stato.

«Se ciascuno dei membri di questo gran corpo, se ciascuna delle ruote di questa immensa macchina sta a suo posto ed esercita la sua funzione, le cose cammineranno a seconda come in un organismo vivente dove sia piena salute; ma se l'uno di quegli organi impaccia od usurpa l'azione dell'altro, se uno pretende avocare a sè ed esercitare le attribuzioni altrui, allora abbiamo il disagio, allora il corpo sociale è ammalato, allora v'è la prepotenza di questi, la schiavitù di quelli.

«Lo Stato, appo noi, tutto compenetrato nella Monarchia, che s'appoggia ai privilegi d'una casta ed alla forza del militarismo, ha invaso il campo d'azione delle altre parti del corpo sociale; quindi il malessere, quindi la servitù in cui viviamo…»

– La servitù! esclamò fra sè il marchese a questo punto, interrompendo di nuovo la lettura. Oh come la intendono essi, questi predicatori di democrazia, e che cosa vorrebbero per dirsi liberi? Invader loro le attribuzioni della monarchia e comandare a furore di popolo. La monarchia, stolti che sono, incarna il supremo diritto dello Stato, diritto superiore ad ogni altro, innanzi a cui le loro pretese sono da non curarsi, e se occorra schiacciarsi. L'aristocrazia e il militarismo a cui il trono s'appoggia e si deve appoggiare – e segnerebbe la sentenza di sua rovina il dì che cessasse dal farlo – l'aristocrazia e il militarismo, rappresentano e sono, quella le tradizioni e i sentimenti più nobili del passato su cui si deve regolare la monarchia, questo il freno delle triste e pericolose passioni del presente: costituiscono la forza di uno Stato all'interno ed all'estero. Dissensato od empio chi li volesse distrurre!..

Pronunziò queste parole con calore, levando fieramente la testa, come fa l'uomo valoroso innanzi ad un pericolo o ad una sfida: ma poi tosto, come ravvisatosi, sorrise, si curvò verso il fuoco, lo attizzò sbadatamente colle molle che aveva impugnate, e soggiunse:

– Ve' ch'io mi scaldo sui vaneggiamenti d'un giovinotto senz'esperienza, risultato di mal digeste letture, parodia di Rousseau in piccole proporzioni… Ecco i bei frutti di quell'istruzione che costui vuol data al popolo, ai pari suoi!.. Il primo uso ch'ei ne fanno è di volgere quel poco che hanno imparato contro quella società che glie lo ha fatto o lasciato imparare. Istruite un popolano senza certe precauzioni, ed otterrete di sicuro un sovvertitore dell'ordine pubblico. Lo scrittore di queste pagine, che non si sa chi sia, che nulla forse ha provato del mondo, nulla ha visto, l'ingegno che gli concedette Iddio, poichè lo ha rinforzato con alquanti e chi sa quali studi, impiega tosto a condannare quello che hanno assodato e fatto concreto nel mondo i secoli trascorsi… L'istruzione è un potente e nocivo liquore che va misurato con cura ed a centellini a' figliuoli del popolo: per ciò così provvida e necessaria l'opera dei gesuiti e delle associazioni religiose che da quell'ordine dipendono. Gesuiti, Ignorantelli e soldati hanno da tenere il mondo, chi non vuole la guerra civile in permanenza.

Appoggiò il capo alla palma della sua mano destra così bella ed elegante di forme, da vero aristocratico, e parve riflettere seco stesso sulle ultime parole che aveva pronunziate.

– E costui ha dell'ingegno. Sì; traverso questo suo falso modo di concepire le cose umane, traverso codeste che mi paiono ambizioni del suo pensiero, si scorge una certa potenza d'intelletto… Se la dirigesse al bene!.. Perchè non si potrebbero acquistare ai sani principii anco queste ambizioni della classe infima?.. Forse non è manco vero che questo tale nulla abbia provato del mondo, nulla visto. È nato nella plebe; non ha provato che i mali di quella condizione cui la sua intelligenza, maggiore delle ordinarie di tal classe, gli ha resi più sensibili; non ha visto la questione che da un lato solo. Quando potesse salire più in alto ed esaminare il problema sociale sotto un più vasto rispetto e in modo più regolare, non è egli probabile che vedrebbe e giudicherebbe diversamente? Dove la nostra parte, oltre l'autorità e il possesso del potere, abbia ancora l'intelligenza che ne propugni i principii, sarà di tanto più forte. E queste intelligenze è opportuno arruolarle fra le nostre file da qualunque punto si mostrino, da qualsiasi ceto esse sorgano… Parlerei volentieri all'autore di queste temerità rivoluzionarie così modestamente vestite della forma di pacifici e quasi dottrinali ragionamenti…

Un subito nuovo pensiero gli attraversò il cervello e parve gettarlo in un altro ordine d'idee.

– Ed e' si chiama Maurilio! esclamò levandosi in piedi, come sospinto da una vivace emozione. Maurilio?.. Oh quel nome!

Passeggiò per la stanza a capo chino, le braccia incrociate al petto.

– Anche quell'altro: diss'egli: anche Maurilio Valpetrosa era un novatore, era un liberale, come sogliono essi stessi chiamarsi, un patriota. La prima volta ch'e' venne in Piemonte fu nel 1820 per prepararvi quella sciagurata gazzarra dell'anno di poi, cui battezzarono col nome di rivoluzione. Fu allora che io primamente lo vidi: fu allora ch'egli vide mia sorella Aurora… Fatalità! Fatalità! Egli era bello di forme, avvenente di modi, eloquente nella parola, piacevole per ogni verso. Chi avrebbe detto che sotto quelle leggiadre sembianze s'introduceva nella nostra casa la sciagura, la discordia, quasi il disonore, la necessità dell'omicidio?

Si fermò presso il camino, appoggiò il gomito alla mensola di marmo, e sorresse colla mano la testa in una mossa che abbiamo già visto essergli abituale.

– Ah! mi ricordo di tutto e sempre, come se non fosse avvenuto che da ieri. Santarosa, che era suo complice, lo aveva presentato alle più cospicue famiglie. Dal Pozzo e Dal Borgo lo trattavano col tu e ne parlavano con entusiasmo. Il principe di Carignano lo aveva ricevuto ufficialmente, e dicevasi che lo vedesse in privato quasi tutti i giorni. Egli aveva tratti e maniere che lo facevano degno d'essere accolto nella società più scelta; perfino mio padre, così severo e difficil giudice, non disdegnava sorridere al suo brioso conversare e gli aveva data la mano. E noi fummo così stolti e ciechi da non sospettare nemmeno che Aurora potesse!..

S'interruppe di nuovo, preso da una certa commozione che diede ancora un altro avviamento al corso dei suoi pensieri.

– Povera Aurora!.. Avremmo dovuto vegliar meglio su di te. Così ti avremmo avanzati tanti dolori… e l'immatura morte fors'anco… ed a me il rimorso… Ma fummo incauti dapprima, troppo crudeli – forse – di poi… Oh perchè quell'uomo non era egli della nostra casta?.. Lo sciagurato! Com'ei ci seppe ingannar bene!.. Oh tutti questi rivoluzionarii sono infinti e traditori. Un uomo da nulla, il figliuolo d'uno scrivano osò stare alla pari con noi e rapirci la più preziosa gemma della famiglia… Egli pure aveva ingegno; oh sì, moltissimo ne aveva. Era poeta. Quando parlava della sua utopia d'un'Italia libera dallo straniero, risorta a nuova grandezza, mercè l'unione delle sue varie membra sotto lo scettro di Casa Savoia vi sapeva entrare con tanta efficacia nell'animo che ognuno ne sarebbe rimasto scosso. Io, giovane allora, lo fui; perfino mio padre esitò un momento. Quando quel demonio tentatore gli espose dinanzi il quadro d'un regime rappresentativo in Italia in cui noi potessimo e dovessimo sostenere la parte che tiene con tanto lustro ed effetto l'aristocrazia in Inghilterra, mio padre stesso fu sovraccolto e non isdegnò fermare su tal concetto il suo pensiero. Ma lo spirito pratico e fermo di mio padre non tardò a vedere che l'impiantare il sistema inglese in Italia, con altri costumi, con altre tradizioni, era impossibile, e il crederlo una illusione. Ponendo le mani in quella congiura l'aristocrazia non avrebbe fatto che un marché de dupe; perchè o la congiura falliva e chi ci aveva da perdere maggiormente erano i nobili compromessi che ci ponevano in repentaglio la loro fama, il nome, la posizione, le ricchezze: o riusciva, e noi non avremmo fatto altro, introducendo forme liberali nel Governo, dando la spinta al sentimento popolare colla guerra allo straniero, che mettere in mano della borghesia procacciante lo strumento per soprammontarci… E molti di noi – troppi – si diedero in preda all'illusione e credettero potere scatenar l'idra e vincere con essa il monarcato assoluto e il dominio straniero, due forze potenti, e quell'idra, quand'anche vittoriosa, dominarla poi!..

Fece una pausa ed era evidente, chi l'avesse visto, che la sua mente, così agitata da varie impressioni, ora s'affondava sempre più in una grave meditazione.

– L'Inghilterra, riprese egli a dir seco stesso, è quella che possiede l'aristocrazia più potente, più benemerita e fondata su più salda ed incrollabil base. Sul continente la monarchia, distruggendo il feudalismo colla forza, appoggiandosi sul popolo, ha fatto di noi poco più che cortigiani soltanto. Una Camera di Pari ci rialzerebbe i caratteri, l'autorità e le fronti.

Sorrise, poi tentennò il capo e fece un gesto colla mano, come per allontanare da sè la follia di quel pensiero.

– Eh via! soggiunse. Noi siamo oramai incastrati a questa monarchia tal quale essa è. Conviene vivere con essa della sua vita presente. Una modificazione nella medesima chi sa dire le conseguenze che può avere? Non sarebbe egli aprirvi dentro una breccia? E traverso questa, per quanto stretta, passerebbe senza fallo oggidì lo spirito sovvertitore moderno. Ma l'aristocrazia inglese ha un suo metodo per tenersi sempre in prima fila in quella vita di pubblicità e in quella lotta di intelligenze e d'ambizioni; ed è di studiar molto essa stessa, e poi di chiamare a sè, d'invitare, accogliere e far suoi tutti i più notevoli ingegni che dieno prova efficace di sè nelle classi inferiori. Così la si rifornisce, per così dire, di nuovo sangue, la si rinforza di nuovi campioni e li toglie a' suoi nemici che se ne potrebbero servire; acquista di quando in quando nelle nuove reclute lo zelo sempre più ardente di neofiti. Ciò dovremmo fare anche noi. Con un po' d'oro acquistare un ingegno; di questo non ne abbiamo troppa abbondanza per trascurare siffatto mercato…

Riprese in mano lo scartafaccio di Maurilio che aveva abbandonato sulla mensola del camino.

– Questo disgraziato che non ha nome, che non ha famiglia, che forse non ha pane, ha la ricchezza dell'ingegno. Perchè non diverrebbe un soldato della nostra falange?

Si diede a continuare la lettura del manoscritto.

«L'individuo gli è verso la famiglia che ha il diritto naturale di ricevere l'istruzione: lo Stato che ha interesse i suoi componenti sieno istrutti, gli è alla famiglia che ha il diritto sociale d'imporre la educazione dei figli.

«Ma se la famiglia non può? Perchè si raccolsero le famiglie in Comune se non perchè questo secondo ente collettivo sottentrasse colla sua forza maggiore là dove le forze della famiglia non potevano provare? L'educazione dei poveri è obbligo del Comune.

«Se questo manchi al debito suo, lo Stato, associazione superiore, dovrebbe obbligarlo a compierlo; e se il Governo, troppo lontano e non abbastanza in condizione da vedere e giudicare le circostanze locali, affidasse questo suo diritto e il sindacato che ne fa parte alla Provincia, tanto meglio e tanto più efficace il provvedimento.

«Il Comune adunque dovrebbe procurare che fosse aperta nel suo seno quella scuola che dà gli elementi necessarii ed indispensabili dell'istruzione alla fanciullezza. A quell'età l'istruzione è unica e serve per tutti, a qualunque classe si appartenga, qualunque carriera si sia per intraprendere di poi. Sarebbe assai venturoso che i figliuoli dei ricchi si frammischiassero fin d'allora ai figliuoli dei poveri, e imparassero l'eguaglianza degli uomini innanzi al diritto, il rispetto alla dignità personale in ogni creatura umana. Ma se ciò sarebbe pur bene, non è tuttavia da imporsi. Quella libertà ch'io propugno, vorrei rispettata anche in codesto. Il Comune apre la sua scuola a tutti; ma se alcuno ha i mezzi di istruire i suoi figli all'infuori di questa scuola, sì lo faccia e resti libero dall'obbligo di mandameli, quando provi che questa istruzione egli loro fornisce realmente ed efficacemente.

«Pei trasgressori note di biasimo pubbliche e multe.

«Per mantenere la scuola il Comune tasserebbe i contribuenti d'un balzello apposito. Ma dunque i ricchi pagherebbero la scuola pei poveri? Appunto. Ma questo è socialismo! E lo sia; ma è socialismo che dirò onesto e ragionevole. È socialismo che già è in vigore per molti altri bisogni comuni dell'associazione. Chi paga le strade? chi l'illuminazione della città? chi la forza pubblica che mantiene la sicurezza, ecc., ecc.? I contribuenti: quelli che possedono. Ed il proletario non gode pur esso di questi vantaggi della vita sociale? Se voi pagate per illuminare le strade di notte affine di non essere assassinati, pagate senza rimpianto per illuminare le menti del popolo ottenebrate dall'ignoranza e ci guadagnerete eziandio nella sicurezza, e risparmierete forse e senza forse nelle spese degli agenti dalla polizia, nelle spese delle carceri. Anche codeste ultime spese le pagate voi, ricchi, pei poveri: e sarebbe meglio non le aveste da pagare…

«Ma in ciò altresì vorrei lasciato il primo posto alla libertà. Il Comune dovrebbe dire ai suoi cittadini: – Voi che possedete, volete liberamente consociarvi per mantenere le scuole onde abbisogniamo? Alla vostra libera associazione per quest'uopo, la quale appunto sarà tanto più zelante, io cedo volentieri il luogo, pronto a riprenderlo se voi fallite. Non volete? Allora sono costretto ad usare delle mie attribuzioni di ente collettivo stabilito per ottenere il meglio possibile i fini proposti…»

Più in là il marchese incontrava quest'altro passo notato dal Commissario:

«La società famigliare è imposta all'uomo dalla natura, la società civile e politica è ancor essa il risultato necessario delle sue condizioni fisiche, fisiologiche, intellettive e morali. L'uomo non vi si può ribellare: il diritto comune è lì per ischiacciarlo s'e' lo tenta: il suo consentimento ai legami sociali se è giusto bensì, se risponde ai suoi bisogni ed interessi, è pur sempre tuttavia un consentimento forzato.

«Ciò vuol dire che questa società, che il Governo, in cui la si concentra e con cui agisce, deve strettamente rinserrare la sua azione entro i limiti delle cose che gli spettano realmente, per cui ha la sua ragione d'esistere. Uscendo di là esso, il Governo, abusa di quel costretto assenso, abusa della tacita costretta delegazione, offende la libertà: ogni passo fuori della cerchia delle sue attribuzioni è un passo nella tirannia.

«Ma quanti nelle condizioni presenti dello stato sociale si trovano a disagio! Le leggi che guarentiscono i gaudenti sono in pari tempo ceppi a chi soffre e vorrebbe mutar la sua sorte. Devonsi quelle leggi abolire? ma allora abbiamo l'anarchia. Devonsi comprimere colla forza soltanto i disagiati per farli stare nel loro disagio? ma allora abbiamo la guerra civile in permanenza.

«Il rimedio possibile – un rimedio, relativo e lento e di progressivo sviluppo, imperocchè in ogni cosa della creazione tanto riguardo alla materia sì organica che inorganica, quanto riguardo al mondo morale e intellettivo, nulla è brusco, improvviso ed assoluto – l'unico rimedio possibile, a mio avviso, è una che chiamerei forza del mondo umano, di cui la natura medesima ci diede l'idea, imponendoci la sociabilità, forza la quale non è nuova, nè nuovamente conosciuta, imperocchè ne troviamo imperfette applicazioni anco nel Medio Evo, ma che pur tuttavia ora soltanto pare aver trovate le condizioni acconcie nell'umanità per isvilupparsi e cominciar a mostrare ancora in lontano adombramento che cosa possa ottenere, sin dove arrivare: e questa è L'ASSOCIAZIONE.

«L'uomo, arruolato fin dalla nascita nel corpo sociale, non ha tuttavia con ciò esaurito quell'attitudine di sociabilità che porta seco, specialissimo e nobilissimo carattere dell'esser suo. La società politica e civile non risponde che ad una parte dei suoi bisogni e delle sue facoltà: in tutto il resto devo lasciarlo libero, mentre nello stesso tempo, col fatto suo gl'insegna la verità aritmetica che tante debolezze consociate formano una forza potentissima.

«Di questa sua sociabilità, come d'ogni altro diritto individuale, l'uomo deve potersi servire in ogni modo, a suo talento e capriccio, fin là dove l'esercizio del suo diritto non turbi e non violi il diritto altrui.

«La libertà d'associazione è uno dei più sacri diritti del popolo, ed è più che un attentato tirannico, è un'empietà il fatto d'un Governo che la contrasti e la neghi.»

E qui Maurilio scorreva rapidamente tutte le bisogne a cui poteva – e secondo lui doveva – applicarsi la libera associazione dei cittadini. Designava due vie che si dovevano percorrere, due correnti che avrebbero dovuto muoversi l'una dall'alto, l'altra dal basso, per incontrarsi, a così dire, a mezza strada in un comune intento: la miglioria sociale. Dall'alto le classi arrivate all'agiatezza dovrebbero mercè l'associazione guarentire i loro possessi dai pericoli delle passioni e delle ire che sobbollono nei bassi fondi delle plebi, antivenendo lo scoppio della rivolta che non domanda più ma azzanna tutto, col concedere a poco per volta ciò che giustizia comanda e le condizioni del momento a seconda permettono e consigliano si debba concedere; dal basso i proletari, i lavoratori senza riserva di risparmi, in balìa delle esigenze del capitale, dovrebbero unirsi in tale associazione che facesse per loro come la base d'un ammasso di risparmi, che tenesse luogo in parte per essi del capitale e ne assicurasse loro alcuni dei vantaggi, quello almanco d'una certa sicurezza del domani. Quindi per risultamento del concorso di queste due correnti d'associazione, una dei ricchi, protettiva ed aiutrice, l'altra dei poveri, operativa e principale, guarentito ad ognuno della plebe che voglia – e chi non vorrebbe? – l'educazione della prole, l'esistenza della famiglia e il soccorso fraterno durante le malattie, il pane di tutti i giorni e la dolcezza del domestico focolare pulito e raccolto, mercè il lavoro, l'assistenza nella vecchiaia quando le forze mancano all'opera, così che quello fra tali invalidi operai che sia rimasto solo, non abbia da stentar la vita coll'elemosina che degrada, ma riceva una pensione, risparmio della sua opera giovanile che si è capitalizzato quasi senza sua saputa, e chi è nella famiglia non viva tutto a carico del lavoro certe volte scarso dei figli.

In altro luogo era toccata la quistione politica della forma di Governo. Lo scrittore aveva le sue preferenze per la forma repubblicana (qui la matita rossa del signor Tofi aveva tirate due righe con tanta forza che la carta n'era rimasta stracciata); ed invero egli credeva che in teoria, secondo la logica più stretta ed evidente, era quella forma la più consentanea all'uopo e la più adatta alla ragione. Ma concedeva egli pure che non sempre ai dettami della scienza in teoria, può corrispondere l'attuazione, cosa sempre relativa nella pratica, e che molte volte la povera logica traducendosi nei fatti, doveva sopportare le più strane e prepotenti storture. D'altronde, soggiungeva, quella appunto non è che forma: ciò a cui si deve tenere essenzialmente è la sostanza: questa consiste nella libertà e nella sicurezza insieme combinate. Quell'organismo politico il quale fornisse all'individuo la maggiore agiatezza di svolgere la propria personalità, di perfezionare le sue doti, di godere di tutte le sue facoltà, di raggiungere il suo scopo: quello sarebbe da accettarsi per migliore, avesse a capo un re o qualunque siasi magistrato con altro nome.

E qui scendeva a far la critica – una critica non ingiusta ma severa, qualche volta aspra e mordace – del reggimento assoluto, militare, clerocratico che in que' tempi gravava sul Piemonte; e provava che con tale sistema nè la civiltà poteva progredire, nè il popolo essere soddisfatto, nè la plebe redimersi.

Il marchese, interessato forse ancora più di quello che avrebbe creduto da siffatta lettura, erane a questo punto, quando una mano discreta grattò leggermente alla porta per annunziare che v'era qualcuno che desiderava entrare.

– Avanti: disse il marchese levando il capo e volgendo la faccia verso l'uscio.

Entrò il suo cameriere di confidenza.

– Che cos'è? domandò il padrone con accento che significava aver piacere di essere sbrigato presto e lasciato alle sue occupazioni. Forse qualcuno che vuol parlarmi?

– Eccellenza sì: rispose il servo inchinandosi.

– Oggi non ricevo nessuno. Se si ha bisogno di parlarmi si ripassi domani.

Il cameriere esitò alquanto; parve avere qualche osservazione da fare; ma non osò e inchinatosi di nuovo profondamente, si volse per uscire. Ma il marchese aveva visto quell'atto del servo.

– Voi volete dirmi qualche cosa? interrogò mentre il domestico già era fra i battenti dell'uscio.

Il servo si fermò.

– Chi è quella persona che vuol parlarmi? soggiunse il padrone.

– È Don Venanzio.

Il marchese sorse in piedi vivamente e disse con pari vivacità:

– Ah lui!.. È un'altra cosa… Fatelo entrare.

Due minuti dopo s'introduceva in quel salotto la bella testa veneranda del vecchio parroco di villaggio.

1

Badino i lettori che queste cose scriveva Maurilio parecchi anni prima del 1848.

2

Vincenzo Gioberti nell'aureo suo libro del Rinnovamento fa precisamente questo paragone quando dice che l'emancipazione della plebe e della donna è la missione precipua del presente secolo.

La plebe, parte III

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