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CAPITOLO III
ОглавлениеCarlo Alberto, seduto innanzi ad una tavola stupendamente intarsiata, col braccio appoggiatovi su dal gomito al pugno richiuso, stava nella sua attitudine abituale di sfinge incompresa e che non vuol lasciarsi comprendere. Non era un infingersi il suo, era un nascondersi: non portava innanzi alla faccia una maschera, ma copriva ogni sua emozione d'un velo di severo e solenne riserbo.
Dell'aspetto morale di quest'uomo storico, quale appariva in que' tempi, ci sia lecito tratteggiare il ritratto colle parole che nei suoi Ricordi ne scrisse Massimo d'Azeglio medesimo.
«Il re in quel tempo, era un mistero; e per quanto la sua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forse in parte mistero, anche per la storia. In allora i fatti principali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non erano certo in suo favore; nessuno poteva capire qual nesso potesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell'indipendenza italiana, ed i matrimoni austriaci; fra le tendenze ad un ingrandimento della casa di Savoia, ed il corteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini come l'Escarena, Solaro della Margherita, ecc.; fra un apparato di pietà, di penitenza da donnicciuola, e l'altezza di pensieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditi progetti.
«Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.
«Gran danno per un principe nella sua condizione: perchè con queste povere astuzie, affine di mantenersi l'aiuto di due partiti, si termina invece per perder la grazia degli uni e degli altri4.»
A Carlo Alberto che aveva mirabile il coraggio delle battaglie, che aveva un fermo animo innanzi ad ogni pericolo che minacciasse la sua persona, mancava il coraggio della risolutezza. Da ciò il suo continuo ondeggiare, dipendente non tanto dalla volontà e da un disegno prestabilito, quanto dal temperamento e dall'influsso delle momentanee circostanze. Si avanzava d'un passo da un lato, ma lo aspetto d'una difficoltà lo faceva indietrare poi tosto di due: e le difficoltà che lo attorniavano da ogni parte, morali e materiali, erano infinite e complicate e gravissime. Avrebbero richiesto una forza d'intelletto e di volere e di fibra ben superiore a quella che la natura e la sua vita trascorsa mettevano ora in poter suo. Questa sua che in realtà era debolezza, egli ammantava d'una solennità grave, che pareva profondità di concetto, avvolgeva d'un'atmosfera di silenzio, di dubbie parole e dubbi sorrisi e dubbie reticenze che pareva astuzia di macchiavellismo. Sapeva che una volontà anche non potente, ma soltanto tenace, vicino a lui l'avrebbe dominato; ed aveva quindi per sistema di sfuggire a tal pericolo mettendo sempre a fronte nel suo consiglio due volontà di due partiti opposti; con questo giuoco di bilancia, egli sperava ottenere una specie d'equilibrio per compensazione, in cui libera la sua volontà. Non s'accorgeva ch'egli non riusciva ad ottenere altra indipendenza fuori quella del pendolo elettrico che oscilla continuamente dall'uno all'altro dei due poli di elettricità differente.
Aveva delle velleità da piccolo Carlomagno e da Aroun-al Rascid. Avrebbe voluto veder tutto, saper tutto, conoscer tutto del suo popolo; sarebbe uscito ancor egli la notte, camuffato, come il celebre Califfo di Bagdad, per iscorrere traverso la città a sorprenderne i misteri e rappresentar la parte di Provvidenza interveniente, se avesse avuto il coraggio di violare quella che fu una delle tiranne della sua vita di Re: l'etichetta. L'esser egli Re per grazia di Dio, pensò e ritenne forse più ch'ogni altro mai, e credette avere nella sua persona una dignità direttamente venuta dal cielo, cui doveva prestare ossequio egli primo e farlo prestare dagli altri. Ultimo dei re di medio evo, pensava non dover comparire innanzi al suo popolo che avvolto dai raggi della sua divinità terrena; non si mostrava che nell'apoteosi dell'uniforme, colla corte olimpica del suo stato maggiore.
Ma quello che non poteva vedere per sè, voleva sapere per esatti e moltiplici rapporti d'agenti. Aveva una polizia segreta, tutta sua personale, che camminava parallela e faceva il riscontro a quella dei Ministri. Talvolta questa polizia vi metteva tanto zelo che gli apprendeva anche ciò che non era. Il Re ascoltava cupamente tutte le narrazioni e le denunzie, leggeva da solo tutti i rapporti che gli venivano comunicati, li rinchiudeva in un suo stipo segreto – e non diceva nulla. Ma quali e quante diverse impressioni si avvicendavano in quell'animo sempre chiuso!
Quando il marchese di Baldissero venne ad esporgli i fatti che conosciamo, per conchiuderne, doversi quei giovinotti considerare come imprudenti ed esaltati cervellini e non altro, e quindi non aggravare su di loro la mano severamente punitrice dell'autorità, Carlo Alberto sapeva già tutto; ma pure si guardò bene dall'interrompere il marchese nella sua narrazione, e lo ascoltò immobile, in quell'attitudine di stanco abbandono che gli era abituale, il capo reclinato, il petto curvo, il suo giallognolo pallore sulla faccia incommossa, levando di quando in quando i suoi occhi generalmente miti dallo sguardo velato, per fissarli in volto a chi gli parlava e riabbassarli poi tosto.
Quando Baldissero ebbe finito, successe un istante di silenzio: pareva che il Re andasse cercando le parole che aveva da dire. Poi levò lentamente quella mano che teneva appoggiata alla tavola, se la passò sulla fronte due o tre volte, quindi vi appoggiò su il mento, tenendo il gomito puntato al piano della tavola e parlò colla sua voce bassa, come soffocata, di debole vibrazione, ma non disgradita:
– Ella dunque, signor marchese, è per la clemenza ed il perdono?
Baldissero s'inchinò.
– Ha ragione. Ella sa interpretare appunto i miei sentimenti, e consigliarmi quel partito a cui propendo. E tanto maggior effetto mi fanno le sue parole, in quanto che ho sempre creduto… so… che Ella conta fra coloro… fra quei zelanti difensori del trono che lo vogliono difeso validamente e senza debolezza nessuna contro gli assalti de' suoi nemici.
– Contro veri assalti di veri nemici, Maestà sì: ma questi giovani non mi sembrano tali, e i loro atti non meritano altro titolo che di ragazzate.
Il Re tornò a stare alquanto tempo in silenzio.
– Sono del suo parere, diss'egli poi, ma vi è qualcheduno che pretende esservi qualche cosa di più serio e di più colpevole che non paia, e che Ella non creda, signor marchese. Il vero è che una frotta di giovani si radunava in casa di un certo pittore, e di qual tenore fossero i discorsi che aveano luogo lo provano i libri che si rinvennero presso uno degli arrestati e certo scritto che fu trovato presso un altro…
S'interruppe e volse uno di quegli sguardi che balenavano raramente nelle sue pupille – uno sguardo vivo e scrutatore – sulla faccia del marchese.
– Anzi, soggiunse, Ella, s'io son bene informato, ha presso di sè codesto scritto.
– Sì Maestà.
– E può giudicare adunque meglio di qualunque altro delle tendenze e delle segrete volontà di codestoro.
– Quello scritto è l'opera giovanile di un'intelligenza precoce che ha molte idee e poca esperienza. Gli errori vi sono molti; anzi è tutto un errore, poggiando ogni sua considerazione ed opinione sopra una falsa base primitiva; ma in quelle pagine, a dir vero, non si rivela mai l'empia foga di chi non anela ad altro che mandare a soqquadro la società. Lo scrittore cerca e propugna una modificazione degli ordini esistenti – una modificazione assurda, già s'intende – ma non vuole violenza di rivoluzione… Io pensava, Sire, che queste giovani intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è un generoso perdono.
Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva immerso in una profonda meditazione.
– I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser clementi?..
S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.
– Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi parlando a se stesso. Quella benedetta gioventù non dubita di nulla. Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma essi vogliono l'impossibile!.. Marchese, Ella mi disse che in quello scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.
– Sì, Maestà.
– Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?.. Voglio vederlo.
Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.
– Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure codesto il mio più caro desiderio… Avrei voluto esserlo sempre.
Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni d'Alessandria.
– Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere – ah! crudele dovere – in un re l'essere inesorabile.
– Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso…
Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul piano della tavola.
– Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.
Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.
– Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della *** propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei sostenuta? Egli vuole la severità.
– A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.
Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava sulle labbra, chinò il capo e si tacque.
– Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?
– Ha delle presunzioni… che hanno un certo valore… Una prova però sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.
– Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si spaccia e non altro.
– Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.
Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero sorriso.
– Ma egli è una testa così sventata!
Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.
– Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si ribellò agli agenti della forza pubblica.
– Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.
– Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.
– Sì, Maestà.
– Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue… Ma e quell'altro che fece resistenza alla forza pubblica?
– Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.
Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.
– Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza propugnata così bene.
– La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza l'anima sua.
Carlo Alberto non rispose.
– Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.
– Comandi, Maestà.
– Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di sorta.
– Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno sempre lieti di obbedire.
– Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di guardatura.
Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.
– Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole di commiato.
Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.
– Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho da domandarle.
– Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.
– Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.
– Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello che mostrasse ordinariamente.
– Sì Maestà.
Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento fioccare della neve che continuava.
– Può dire al cav. D'Azeglio, disse poi, come per determinazione subitamente presa, che lo riceverò domani mattina alle sei.
Era quella l'ora solita in cui Carlo Alberto usava dare le udienze confidenziali.
Il marchese ripetè il suo profondo inchino e partissi. Mezz'ora dopo un bigliettino recato dal lacchè del marchese all'albergo Trombetta avvisava Massimo d'Azeglio dell'ottenutogli favore.
In pari tempo un altro domestico si affrettava verso l'officina Benda con un'altra letterina scritta dalla contessina Virginia a Maria la sorella di Francesco.
Il marchese, appena rientrato nel suo palazzo, erasi recato egli stesso nelle stanze della nipote, dove stava ancora il buon Don Venanzio, il quale aveva per la nobile fanciulla, più che simpatia, stima, ammirazione ed affetto grandissimi.
– Caro Don Venanzio, aveva egli detto al vecchio parroco, fra poche ore Ella potrà abbracciare il suo raccomandato. Virginia, puoi mandar detto alla tua compagna di collegio che di quest'oggi stesso le sarà restituito suo fratello. Il Re volle tutto perdonare.
– E Dio benedica il Re! esclamò il sacerdote con voce commossa.
– Una buona novella non giunge mai troppo presto: disse madamigella Virginia alla quale il piacere provato dall'annunzio datole dallo zio aveva lievemente arrossato le guancie e fatto brillare lo sguardo; chiedo adunque licenza di scriver subito la lieta notizia a madamigella Benda.
– Hai ragione: disse paternamente sorridendo il marchese. Lasciamola fare, Don Venanzio; e s'Ella desidera veder presto il suo protetto, io la indirizzerò al Comandante perchè le contenti questo suo desiderio. Chi sa che l'ordine di rimettere in libertà quel giovane non sia già venuto, ed Ella non possa condurselo seco fuori del Palazzo Madama!
– Come quell'altra volta, esclamò Don Venanzio, in cui Ella pure mi fece ottenergli la libertà, e sono stato io a recargliene la novella.
– Uno di questi giorni, soggiunse il marchese; il più presto possibile, anche domani, mi farà un piacere, Don Venanzio, se mi condurrà quel giovane… Ho gran desiderio di parlargli; e forse il colloquio che avremo non sarà inutile per lui.
– A quell'ora che sarà più comoda a V. E. io glie lo presenterò sicuramente.
Quando il buon parroco si fu avviato verso il Palazzo Madama con una commendatizia del marchese pel Comandante, quando il lacchè fu spedito all'albergo Trombetta colla lettera per Massimo d'Azeglio, Baldissero s'informò se suo figlio era in casa, e udito di sì, ordinò gli si dicesse che il padre lo aspettava nel suo salotto da studio.
– Ettore, disse il marchese al figliuolo appena fu entrato nel gabinetto, S. M. ha benignamente acconsentito che l'avvocato Benda e i suoi compagni fossero messi in libertà.
Il contino s'inchinò in modo che voleva significare esser egli di ciò pienamente soddisfatto.
– Vi ho detto poc'anzi che vostro debito sarebbe quello di andar voi da quel giovane che avete oltraggiato a tendergli primo la mano, e voi mi avete risposto che ciò non fareste mai e che l'unico obbligo cui vi credete di avere secondo le leggi d'onore, si è quello di rimettervi nuovamente a sua disposizione per uno scontro.
– Persisto in questa mia opinione, e vi persisterò sempre: disse alquanto seccamente il figliuolo.
– I Baldissero, Ettore, sono avvezzi ad ubbidire ciecamente ai cenni del loro Re: e codesto io ricordava testè a Carlo Alberto, il quale mi diceva essere suo volere che la vostra contesa con quel cotale non avesse più conseguenze di sorta.
Ettore fece una mossa piena di superbia.
– Ma i Baldissero, io mi penso, non obbedirono mai a nessuno in cosa che ritenessero lesiva dell'onor loro.
– I nostri antenati, maestri in fatto di giusta suscettività d'onore, non iscambiarono mai per essa un puntiglio di ripicco… Del resto, s'affrettò a soggiungere, voi siete oramai in età da avere la libertà delle vostre decisioni e tutta la risponsabilità delle medesime. Io non vi do che consigli. Ho creduto potere anche a nome vostro rispondere a Sua Maestà con una formola di piena devozione. Fate voi poi a vostro talento, contraddite pur anco alla parola di vostro padre; ma se commetterete il fallo di trasgredire l'ordine del Re, ch'io stesso vi trasmetto, mi recherò ai piedi di S. M. a supplicare io medesimo che si degni farvi rinchiudere per parecchi mesi a Fenestrelle.
Il contino accennò voler parlare, ma si contenne; aspettò un momento in silenzio, in apparenza indifferente e poi domandò:
– Posso ritirarmi?
Il padre gli fece colla mano un cenno di licenza. Ettore salutò ed uscì.
– Bella libertà di determinazione che mi si lascia… colla minaccia di Fenestrelle: borbottava egli fra sè con rabbia repressa. E dovrò vedermi innanzi quel borghesuccio e tacere! Sacrebleu!.. Il soggiorno di Fenestrelle certo non mi sorride, ma se quel cotale ha la disgrazia di venirmi a stuzzicare, ma foi!..
Ho detto che madamigella Virginia s'era affrettata a mandare un domestico a casa di Benda con una sua letterina a Maria. Sperava la nobile fanciulla di essere la prima a partecipare la felice novella a quell'angosciata famiglia; e invece la era già stata prevenuta.
Il lieto annunzio era recato alla famiglia di Francesco dal dottor Quercia che col trotto serrato del suo bel cavallo attaccato al leggero ed elegante legnetto era passato innanzi al domestico che camminava a piedi.
E come mai Quercia aveva egli saputo così presto questa buona novella?
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Massimo d'Azeglio: I miei ricordi, vol. II, pagine 457-58.