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CAPITOLO IV

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Il principe protettore di Zoe la Leggera, il quale dimenticava sui sofà dell'elegante di lei boudoir il suo gran collare dell'Ordine, appena ricevuto il biglietto della cortigiana che lo chiamava, s'era affrettato ad accorrere; e inteso di che si trattasse, riprendendo il suo gingillo di decorazione, aveva promesso di ottenere quanto la donna gli domandava, e sopratutto di farla pagare a quell'impertinentissimo esploratore che aveva l'audacia di far la guardia intorno alla casa della Zoe. Abbiamo già visto dal colloquio del marchese di Baldissero col Re, come il Principe avesse parlato a Carlo Alberto, e dobbiamo soggiungere che con tutta la sua autorità e con ogni insistenza aveva raccomandato le due cose al conte Barranchi capo della Polizia.

Finito appena il colloquio col marchese di Baldissero, il Re aveva mandato detto al Principe, che trovavasi ancora a palazzo, come volesse soddisfare alle raccomandazioni da esso fattegli poco prima, e come sulla fede di lui volesse ritenere per innocenti i giovani arrestati, e restituirli alla libertà. – Il Principe, senza il menomo ritardo, ne aveva mandato l'annunzio per un valletto alla Zoe, in casa la quale era appunto tornato per saper le novelle Gian-Luigi, che grandissima importanza, come sapete, metteva in codesto affare.

Quercia aveva avuta la subita ispirazione di recare egli stesso la felice novella alla famiglia Benda. A dispetto di tutte le gravissime cose ch'e' stava agitando, delle tante e ponderose preoccupazioni che ne tenevan la mente, in lui era sempre tuttavia presente e non si smentiva mai il libertino seduttore, quell'appassionata smania di turbare nuovi cuori, di possedere nuove beltà, cui vieppiù solletica la pura innocenza, quell'empia curiosità sensuale mai saziata, onde la poesia e la tradizione hanno formato il tipo di Don Giovanni. L'ingenuo candore, la grazia ancora quasi infantile, la non regolare ma piacevole, ma freschissima leggiadria della sorella di Francesco, avevano piaciuto, come dice il poeta, agli occhi suoi, e nella sua anima corrotta suscitato un desìo, cui lo sciagurato era avvezzo a volere in ogni modo soddisfatto. Gli suonavano ancora all'orecchio dolcissime le parole con cui la giovinetta, tutto commossa, gli aveva promesso una eterna gratitudine, s'egli riuscisse a salvare il suo diletto fratello; aveva impresso nell'animo il mite sguardo supplichevole, onde quelle parole erano state accompagnate; voleva sentirsi rivolgere con quella voce soave la ricompensa d'un ringraziamento, con quegli occhi tanto espressivi, il premio d'uno sguardo benigno.

E così fu. Coll'annunzio del prossimo ritorno di Francesco nelle pareti famigliari, Quercia venne accolto da tutta quella desolata famiglia così festevolmente ed amorevolmente che nulla più. La madre pianse di gioia e lo benedisse; Giacomo colle sue maniere brusche e decise lo abbracciò profferendo tutto se stesso e l'aver suo in servizio di quel messaggere di lieta ventura; Maria gli strinse la mano, disse poche parole accompagnate da un caro rossore, ma espresse tante cose, e più ancora di quello che la si pensasse, col suo sguardo amorevole, brillante, umido di lagrime.

Tosto dopo sopraggiunse il domestico di Virginia col biglietto di lei; ma l'effetto da Gian-Luigi voluto e meditato era già tutto ottenuto. Questo fatal giovane fu ammirevole di grazia, di cortesia, di aggradevolezza. Alla giovane immaginativa di Maria apparve di molto superiore per ogni verso a quanti altri giovani ella avesse ancora visto mai. La sua bellezza, il suo brioso ingegno, le grazie de' suoi modi, della sua voce, de' suoi animati discorsi, non potevano a meno che fare una viva impressione nel cuore di una ragazza di molta sensibilità, giunta a quella fase appunto della vita in cui, come i fiori nella primavera, sboccia nell'animo il bisogno di amore. Voleva piacere e piacque. Padre e madre ne furono incantati; ne rimase rapita la ragazza. Ad un punto egli seppe insinuare destramente come avvenissero nelle relazioni sociali certi fatti che di presente stringevano in amichevole attinenza due individui, due famiglie, che prima od appena si conoscevano o niente affatto. Di questo genere parevagli essere l'avvenimento che quel dì l'aveva posto a contatto con quella casa. Di Francesco prima d'allora era stato appena se conoscente; affermava adesso parergli d'essere amico da tempo; coi parenti di esso non aveva avuto mai la menoma relazione: gli era con vera commozione d'affetto che ora si rallegrava d'aver potuto giovare in alcun modo a sollevarne il dolore, di partecipare alla gioia ch'essi provavano, come aveva partecipato al cordoglio di prima.

Il padre di Francesco ne prese occasione per esclamare che da quel momento essi avrebbero ritenuto il loro generoso protettore, il zelante loro amico poco meno che se fosse della famiglia; e lo scellerato, interrompendo vivamente ed accompagnando le parole d'uno sguardo che fece arrossare la giovinetta, uscì a dire:

– E così imploro che sia veramente; e volesse la mia buona fortuna che io potessi davvero appartenere a questa egregia famiglia, che stimo ed amo sopra ogni altra mai.

Erano accorte parole codeste che, indirettamente e senza comprometterlo il meno del mondo, lo ponevano frattanto appetto a quelle brave e leali persone come aspirante ad imparentarsi con loro, come pretendente alla mano di Maria. Ciò aveva due effetti, ed era ciò appunto a cui intendeva: gli dava tosto una maggior libertà verso tutti, e specialmente con Maria, una domestichezza di cui egli faceva conto di approfittarsi; inoltre atteggiandosi subito innanzi alla fantasia della pura e virtuosa giovanetta come aspirante di cui sapessero e cui aggradissero i genitori, sperava di meglio, era sicuro di entrare senza contrasto nell'animo di lei.

Quando partì da quella casa il perfido Gian-Luigi recava seco la simpatia più accesa del padre e della madre di Maria, e di questa povera giovinetta la mente ed il cuore.

Il Re frattanto aveva mandato a chiamare il conte Barranchi. L'altezzosa arroganza di costui divenne l'umile piacenteria d'un cortigiano innanzi all'ombra di severo malcontento che copriva la fronte sovrana, come una nube la cima dell'Olimpo.

Carlo Alberto, per quelle sue informazioni particolari che ho detto, aveva saputo colle altre cose anche il modo barbaro ed indegno con cui era stato trattato dagli agenti di Polizia nell'essere arrestato il signor Giovanni Selva. Codesto gli aveva dispiaciuto moltissimo, tra perchè alla sua natura in fondo mite e generosa ripugnava la incivile prepotenza di quei mezzi in atti di cui per l'assolutismo del regime sino a lui saliva la risponsabilità; tra perchè già era egli finalmente un po' più inclinato, nel suo sino allora incerto oscillare, verso la parte della popolarità e del liberalismo monarchico.

– Signor conte, aveva incominciato il Re, appena il Comandante della Polizia ebbe fatto un arco della sua schiena di generale: duolmi che l'evento d'oggi abbia da mostrare così tanto fallace la mia speranza che le ho manifestato ieri: cioè non avessi ad udir più richiami di sorta per eccessi della sua Polizia.

Barranchi drizzò un momentino la spina dorsale e tentò sollevare uno sguardo all'altezza della faccia smorta del suo sovrano: ma vide che da quelle labbra non aveva finito di scendere a lui la manna amara delle parole di rimbrotto, e tornò a piegarsi sollecito in un arco più curvo di prima.

– Per Torino oggi non si parla d'altro che dei maltrattamenti fatti subire a quel giovane avvocato Selva, ed è una indignazione universale. Così facendo non si fa rispettare il potere, gli si acquista odio. Dopo le ammonizioni che avevo già avuta la spiacevole occasione di farle altra volta a questo proposito, dopo le parole che le ho detto ieri sera stessa, non credevo di aver più da farle un simil rimprovero.

Il conte, che non aveva già per natura e nelle circostanze ordinarie la parola molto facile, a quest'intimata, se la sentì mancare affatto come se la lingua gli si fosse annodata.

– Maestà, balbettò egli. Sire… Maestà. Creda… Sire…

Carlo Alberto ebbe pietà di tanta confusione; rispianò alquanto la sua fronte corrugata e soggiunse con accento di voce mitigato:

– Capisco che simili eccessi sono da imputarsi agli agenti subalterni: ma Ella, caro conte, deve inculcare ben bene ai suoi subordinati che si guardino oramai dal cadere in tali errori che non voglio assolutamente si rinnovino più.

Il nuovo tono del discorso e la parola caro che suonò al suo orecchio come una melodia fecero del generale dei Carabinieri reali quello che di Dante (se questo paragone è lecito) le parole di Virgilio, quando lo rianimi a imprendere il cammino per la valle dolorosa:

«Come i fioretti dal notturno gelo

Chinati e chiusi, poi che il sol li imbianca,

Si drizzan tutti aperti in loro stelo;»


così si ridrizzò la persona impettita del generale e si rasserenò la sua faccia raumiliata. Sulla sua anima risplendeva di nuovo a riscaldarla un raggio della grazia sovrana, il sole di quelle piante parassite da stufa di Corte.

– Sì, Maestà, gli è il fatto degli agenti subalterni: potè egli dire allora con abbastanza di scioltezza nella loquela: e procurerò che codesto non abbia da succeder più.

Carlo Alberto fece il suo pallido lieve sorriso e chinò leggermente il capo in segno d'approvazione.

Questo più vivace raggio di sole abbacinò il povero conte; e non gli lasciò più discernere la vera strada: credette d'avere una idea felice e diede tosto in un inciampone.

– Quantunque, aggiunse egli, tutto superbo della sua ispirazione, delle ciarle di quattro arfasatti di borghesi che si danno le arie di costituire l'opinione pubblica, non si ha poi da prendersi la menoma cura. V. M. non avrebbe che da desiderarlo, ed io prendo l'impegno di far tacere tutti quanti e di far disdire chi ha parlato, in men di mezz'ora.

Il Re tornò a corrugare la fronte; e il Comandante della Polizia rivide con ispavento tutto nuvolo il suo orizzonte.

– Vedo che non ho la fortuna di farmi capire da Lei: disse colla sua voce lenta e cascante Carlo Alberto; o ch'Ella non ha desiderio e volontà di capirmi.

Non capire il suo Re! Non desiderare e non volere capirlo! Un servitore come quello! C'era da mandarlo alla disperazione per una simile accusa. Barranchi nel suo dolore trovò l'ardire e l'eloquenza delle più vivaci proteste. Il Re lo lasciò parlare guardando traverso la finestra, con occhio sbadato, la neve che continuava sempre a fioccare. Quando il conte ebbe esaurito il suo sacco non troppo voluminoso di frasi, di giuramenti e d'interiezioni, Carlo Alberto continuò in quel suo atteggiamento in cui pareva pensare a tutt'altro, e lasciò il generale sotto il grave peso del più impaccioso silenzio. Il cortigiano poliziotto sudava freddo. Lo sguardo plumbeo del Re si sviò finalmente dalla piazza reale deserta e si posò sull'uomo dal petto ingemmato di decorazioni, che gli stava dinanzi.

– Converrà, signor conte, disse il Re, non toccando più l'argomento di prima, che Ella dia gli ordini opportuni perchè i giovani arrestati sieno rimessi in libertà.

Barranchi s'inchinò. Era questo uno degli ordini che eseguiva meno volontieri: l'ordine contrario invece la trovava sempre disposto ad obbedire con entusiasmo; ma tuttavia s'inchinò profondissimamente.

– Però prima di rilasciarli, quei malintenzionati avranno da ricevere un'ammonizione… una piuttosto severa ammonizione… perchè imparino a non dilettarsi di pericolose letture sovversive, a non isparlare di quel potere che la Provvidenza ha voluto si raccogliesse nelle Nostre mani ed a non tentare di sfatarlo. Quanto all'avv. Benda soprattutto gli si farà sentire tutta la sua colpa nel contegno tenuto ieri sera, e inoltre gli si dovrà imporre la promessa che egli non avrà l'audacia più di provocare in alcun modo il conte di Baldissero.

L'inchino del generale oltrepassò il superlativo della profondità.

Congedato dal Re, Barranchi corse a casa sua e mandò a chiamare con premurosi ordini il Comandante della cittadella dove era ritenuto Francesco Benda, e il commissario Tofi.

Al primo diede le istruzioni perchè il prigioniero fosse mandato sciolto col voluto accompagnamento di ammonizione e d'intimazione; al commissario Tofi, che ricevette il secondo e che ritenne in più lungo colloquio, fece una sfuriata maledetta che era il minore sfogo cui il bravo generale si potesse concedere pel dolore e il crudelissimo disappunto di avere incontrato il malcontento del suo Re.

Ah! com'era fiero, ah! come stava diritto impettito, ah! come appariva imponente nella sua divisa e colle sue decorazioni che specchieggiavano sul suo largo petto il bravo generale! Ora egli era che stava rampognatore con un subalterno in condizione di colpevole; ciò che aveva preso di su egli rendeva di sotto con aumento di dose, generoso come egli era in questa razza di affari. Tofi, la faccia ispida più del solito, il mento quadrato appoggiato fermamente al suo duro cravattone, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo chino a terra per deferenza al suo superiore, immobile e dritto come un soldato in servizio, aveva un contegno assai meno raumiliato e confuso di quello che avesse poco tempo innanzi, il superbo, prepotente conte Barranchi, in cospetto del Re.

– Ecchè? gridava il generale andando su e giù del suo gabinetto con passo che suonava secco sul pavimento e faceva quasi tremar le pareti come un peso che cadesse ad ogni volta per terra, ecchè? gli è così che mi obbedite, così che si rispettano i miei ordini? Che cosa vi ho detto questa stessa mattina, quando siete venuto a disturbarmi in sì indiscreta maniera?

– Signor conte: disse con rispetto ma senza la menoma confusione il Commissario: questa mattina io sono venuto appunto a pregarla di darmi le norme opportune di agire, e non ho fatto cosa che non fosse secondo le sue istruzioni.

– Le mie istruzioni un corno: proruppe sbuffando il nobile Capo della Polizia. Vi ho detto che lasciavo a voi la risponsabilità di tutto, vi ho detto che guai a voi se mi buscavo un rabbuffo da S. M. E me lo sono buscato, e che rabbuffo!.. Non sapete mai far altro che compromettere i vostri superiori voi!

– Signor conte: riprese il Commissario impassibile, se volesse specificarmi in che cosa propriamente ho meritato queste sue severe parole…

– In che cosa? Ah in che cosa?.. E me lo domandate? Chi è quello sciagurato figliuolo d'un asino che ha fatto la perquisizione in casa Benda ed arrestato quel cotal Selva?

– Gli è l'agente Barnaba.

– E va bene… Lo sapevo ch'era lui!.. Gli è sempre lui che ne fa delle belle… Già è il vostro protetto… Voi lo portate sempre in palma di mano.

– È un agente, disse coraggiosamente Tofi, di cui in verità non posso che lodare l'intelligenza e lo zelo.

– Bell'intelligenza! bel zelo! gridava sempre più furibondo il generale, che si ricordava allora i lagni fattigli poc'anzi di quel medesimo dal duca di Lucca e la raccomandazione di levarglielo dai piedi. In alto si è indignati del modo con cui si è proceduto all'arresto di quel Selva che il diavolo si portasse anche lui; in alto si vuole che si vada coi dovuti riguardi. E poi che impertinenza è quella di questo cotal Barnaba di cacciarsi nella vita privata degli alti personaggi di cui dovrebbe rispettare i segreti? S. A. R. il duca di Lucca è su tutte le furie contro di lui. Per apprendere a vivere a questo impertinente gli laverete il capo di santa ragione e gli notificherete ch'egli abbia a partirsi tosto da Torino per andare addetto al Commissariato d'una qualche città di provincia… per esempio Novara… sì, va benissimo, Novara.

– Signor conte: riprese col medesimo tono il Commissario.

– Ho detto! esclamò Barranchi coll'accento e l'aspetto d'un Cesare in caricatura.

– Allontanando questo tale, continuò Tofi come se nulla fosse, mi si toglie uno dei migliori e più fidi miei strumenti, in un'epoca in cui molti e gravi sono i pericoli e gl'intrighi d'ogni fatta contro la pubblica sicurezza e contro l'assetto politico dello Stato. La Polizia ha impreso una lotta con quella tremenda cocca che sempre le si sottrae di sotto mano ed ha bisogno di avere, per vincerla, tutte le sue forze radunate…

– Baie! Bubbole! Storie! gridava il conte crollando le spalle. Quando dico, dico!.. Quel Barnaba andrà a Novara; o sarà messo sul lastrico… Avete capito?.. Basta, non più una parola. Andate e fate mettere in libertà quei giovani arrestati, ma prima regalateli di una buona ramanzina in tutte forme, e che se ci ricascano li facciamo senza tante cerimonie filare a Fenestrelle o in Sardegna. E se lo tengano appiccato alle orecchie… Non ho più nulla da aggiungere… Sapete quel che avete da fare… Marche!

Il Commissario stette ancora un istante immobile, quasi volesse prima di partirsi aggiungere alcune parole: poi si decise a partire senz'altro: girò sui talloni come un soldato che fa dietro-front e senza pur salutare partì col suo passo lungo, sollecito e regolato, cacciandosi sino agli occhi il suo cappello a larga tesa ed affondando nelle tascaccie laterali del suo soprabito le sue mani grosse, tozze e villose.

Il Commissario entrò nel suo antro al Palazzo Madama, più scuro e più brutto in viso che un temporale. Passando egli nell'anticamera, tutte le guardie in uniforme e senza che vi erano sorsero in piedi coi contrassegni del più timoroso rispetto. Un vecchio prete con bianchissima e folta capigliatura che sedeva sur una di quelle panche appoggiandosi alla mazza che teneva fra le gambe, con un cagnuolo di pelo nero accovacciato a' piedi, vedendo quel drizzarsi e quel contegno di tutti i presenti innanzi a colui che attraversava con passo da padrone la sala, senza dar segno nessuno di saluto, come se il luogo fosse deserto, capì che gli era un personaggio d'importanza, e levatosi in piedi ancor esso con umile atteggio, domandò timidamente sotto voce alla guardia che gli era più vicina:

– Chi è?

– È il Commissario: rispose brusco il poliziotto interrogato.

Don Venanzio, poichè il vecchio prete era lui, il quale stava appunto aspettando con molta calma e rassegnazione, ma non senza sollecito desiderio, la venuta di codesto autorevole personaggio, spinto da un subito impulso, fece un passo verso il signor Tofi, con un gesto supplichevole nella mossa ed una parola interrogatrice alle labbra. Ma il fiero signor Commissario volse su quella faccia aperta e bonaria uno sguardo così burbero e incollerito sotto le sue sopracciglia aggrottate, che il povero Don Venanzio rimase lì in asso, il piè sospeso, la bocca aperta, la voce estinta nella gola. Il signor Tofi passò.

– Signori: disse il parroco di campagna alle guardie, in mezzo a cui rimase, bersaglio ai loro sguardi e sogghigni schernitori: adesso che vi è il Commissario, potrò finalmente parlargli?

– Aspetti: gli si rispose col tono insolente che suole avere verso i deboli questa razza di gente, quasi a compensarsi della viltà della loro soggezione innanzi ai forti. Quando il signor Commissario vorrà ricevere, chiamerà.

Il signor Commissario aveva attraversato il corridoio ed era entrato nella stanza che precedeva il suo gabinetto.

L'impiegato che sedeva alla scrivania, vedendolo entrare si alzò tutto rispettoso ancor egli, nè più, nè meno di quello che avevan fatto le guardie.

– Barnaba, s'è visto? Domandò ruvidamente il signor Tofi senza rispondere nemmeno col menomo cenno al saluto, senza levare nè il cappello di testa, nè le mani di tasca.

– Signor sì: rispose l'impiegato. Egli è nelle stanze dell'altra torre dove prepara un particolareggiato rapporto per Lei.

– Mandatelo a chiamare.

L'impiegato suonò un campanello ed una delle guardie che erano nell'anticamera fu lesta a presentarsi.

– Andate negli uffici dell'altra torre e dite al signor Barnaba che venga qui subito: il signor Commissario lo chiama.

La guardia s'affrettò ad eseguir l'ordine, l'impiegato sedette di nuovo alla scrivania guardando timorosamente di sottecchi il signor Tofi che si vedeva chiaramente avere un diavolo per capello; il Commissario, le mani sempre affondate nelle tasche, andava e veniva con passo concitato, la tesa del suo cappellaccio negli occhi, il capo chino, borbottando fra i denti delle parole inintelligibili.

Cinque minuti non erano passati che Barnaba entrava con passo affrettato in quella stanza dove il terribile signor Commissario dava le volte del leone.

– Son qua, signor Commissario.

Questi si fermò d'un tratto a due passi dal nuovo venuto, lo fulminò con uno sguardo che era già tutta una rivelazione di corruccio e di condanna, e rispose con un accento, appetto al quale il più ruvido che avesse mai adoperato prima d'allora era una soavità.

– Eh lo vedo che siete lì…

Entrò in quella la guardia che era andata a chiamar Barnaba.

– Che cosa volete? domandò brusco il signor Tofi.

– Gli è quel prete che desidera parlare con Lei…

– Vada a farsi benedire.

– È venuto da parte del signor Comandante, accompagnato da un'ordinanza, che l'ha raccomandato.

– Ah!..

Tofi esitò un momentino, poi crollò le spalle e riprese col medesimo accento collerico:

– Che m'importa?.. Alla croce d'Iddio, ho altro da fare io pel momento. Ditegli che se vuole parlarmi, aspetti, se non vuole aspettare, vada ai cento mila diavoli.

La guardia sparì dietro il battente dell'uscio.

– A noi due: disse il Commissario a Barnaba, sempre con quel tono tutt'altro che rassicurante.

Come aveva fatto la sera innanzi, aprì l'usciolo chiovato di ferro del suo gabinetto, colla grossa chiave che trasse di tasca, ed entrando egli primo, comandò con accento militare a Barnaba:

– Venite!

La porta fu richiusa alle loro spalle, Tofi si recò nella profonda strombatura del finestrone, volse le spalle alle invetrate, ed avendo innanzi a sè il suo subalterno, di guisa che nella faccia gli batteva di pieno la luce che entrava per la finestra, cominciò il colloquio con quel suo accento più burbero ed aspro che mai.

– Ve l'ho detto io che vi avventuravate sopra un terreno molto difficile e pericoloso. Voi non avete ancora una giusta opinione di quello che siete, di quello che potete, di quello che valete. Avere ardimento sta bene, ma la temerità di cimentarsi contro chi è più forte, conduce necessariamente a rovina. Nel mondo non vi hanno che vasi di terra e vasi di ferro: siete passato dalla parte di questi ultimi, va benissimo, ma non avete cessato d'essere meno di creta perciò. Avete ficcato la mano in un vespaio: mille influenze, mille raccomandazioni, mille autorità si sono suscitate a voler condannata l'opera vostra. La cosa è salita sino al Re, niente meno. Breve! Senza tanti discorsi, voi siete mandato via da Torino, e partirete il più presto possibile per Novara.

Questo annunzio fu un colpo gravissimo per Barnaba, da cui parve atterrato.

– Io! esclamò allibito, impallidendo, con voce e membra tremanti; abbandonar Torino!.. Adesso!.. E curvò il capo come uomo oppresso dalla desolazione.

– Sì signore, voi: ripetè il Commissario ancor più burbero. Che cosa avevate bisogno di andarvi a cacciare in certi affari di quel…

Trattenne sulle labbra la parola che stava per uscire, e la sostituì colle seguenti:

– Di S. A. R. il Duchino di Lucca?

Barnaba sollevò il capo ed un lampo d'intelligenza traversò il suo sguardo abbattuto.

– Ah! gli è per lui che mi si punisce a questo modo?

– Per lui e per gli altri. Voi avete maltrattato questa mattina arrestandolo quel giovane avvocato Selva.

– Egli ha distrutto con audacia incredibile, sotto i miei occhi stessi, una carta dov'era forse la prova di tutto ciò ch'io sospetto.

– Bisognava non lasciargliela distrurre. Come volsero le cose siete voi che avete torto.

Tofi tacque un istante, poi facendo piombare più acuto e più penetrante quel suo sguardo osservatore sulla faccia sconvolta di Barnaba:

– Olà, diss'egli, che ragione avete voi ad esplorare le gite del Principe in casa quella certa donna? Agli stipendi di chi e per quale interesse ciò facevate?

Barnaba scosse le spalle, prese un atteggio più risoluto e guardando ancor esso in faccia al Commissario, rispose con una sicurezza che poteva dirsi vera audacia:

– Agli stipendi di nessuno e per un interesse tutto mio particolare.

Tofi interruppe con una voce tra d'impazienza tra di collera:

– Uhff! Siete matto!.. Interesse vostro particolare a spiare il Duca!..

– Ah! non è per lui: disse Barnaba con accento sommesso, contenuto, ma vibrante, gli è per quella donna…

I suoi occhi mandarono strani sprazzi di fiamme.

– Gli è da lungo tempo, oh assai da lungo tempo ch'io la conosco quella donna!

– Stolto! proruppe il Commissario con collerica rampogna: quando si è nel vostro impiego, ne' vostri panni, non si fa il mestiere per proprio interesse…

– Il mio interesse qui si congiungeva con quello del servizio. In quella casa, presso quella donna si reca tutti i giorni; e più volte ogni dì, il sedicente dottor Quercia.

Gli occhi gli balenarono di nuovo come e di più ancora che poc'anzi.

– Gli è di lui che mi do pensiero, continuò con accento più vivace e vibrato. Del Duca che cosa m'importa?.. Ah! gli è quell'uomo ch'io vorrei cogliere alla posta.

Il Commissario degnò finalmente permettere alle sue labbra grosse l'ombra d'un sorriso.

– Sempre quella vostra idea fissa!.. Si direbbe che quel signor Quercia ve ne abbia fatta qualcheduna di grossa.

– È un mistero che voglio penetrare: interruppe vivacemente Barnaba. Ebbene sì, l'odio quel cotale… Non mi domandi il perchè, sarebbe lungo lo spiegarlo… voglio rovinarlo… e lo rovinerò.

– Per intanto: disse colla sua grossolanità Tofi: siete voi che perdete la partita.

Barnaba si morse le labbra sino al sangue.

– Ah! non è persa ancora! esclamò egli con accento quasi feroce. Allontanarmi!.. Sì: Ella ha ragione… È lui che la vince s'io mi allontano. Certo egli che mi ha trovato a fronte questa mattina, ha indovinato, ha sentito da parte sua la lotta che v'è fra di noi… Che! crede Ella che il Duca abbia fatto attenzione il meno del mondo a me?.. La è quella donna che gli ha domandato come un favore io fossi scacciato da Torino… e ciò dietro suggerimento di Quercia. Ne sono sicuro come se avessi assistito ai loro segreti parlari.

Tacque un istante, si concentrò, poi con impeto di quasi selvaggio furore proruppe:

– Invano si lusingano avermi tratto fuor dei piedi nel loro cammino… Non partirò; ad ogni costo non partirò.

– Oh oh, Barnaba: disse il Commissario con meraviglia poco meno che corrucciata; vi ha dato di volta il cervello. L'ordine è preciso, converrà obbedire.

– E se mi vi rifiutassi? domandò l'agente subalterno con un'audacia che fece strabiliare il signor Tofi.

– Rifiutarvi! esclamò questi scandolezzato in sommo grado. Forse che pensate di poterlo fare? Oh quando mai la pialla ha detto alla mano che la spinge: io non voglio muovermi? Non lo sapete ancora che voi siete uno stromento, un infimo stromento nelle mani del Governo? S. E. ha detto: «quell'uomo andrà a Novara o lo si getterà sul lastrico.»

– Ebbene? che m'importa? disse Barnaba con cupa risoluzione: lascierò l'impiego, ma non mi strapperanno di qua… Debbo rimanerci… Vi sono attaccato per tutte le fibre del mio essere… Non posso a niun modo allontanarmi.

Il Commissario, con rozzo atto eppure quasi affettuoso, gli pose una mano sulla spalla e gli affondò entro gli occhi quel suo sguardo d'augel grifagno.

– Sciagurato! diss'egli. Nel nostro ufficio, che è il più grave e il più necessario per la conservazione sociale, uomo non deve aver più nè passioni, nè affetti, nè moventi che del suo còmpito non sieno. È una sacra milizia la nostra in cui più che in qualsiasi religione monacale bisogna rinunziare a tutte le gioie come a tutte le vanità del mondo. Infelice chi non soffoca il proprio cuore; violatore del proprio dovere chi non distrugge in sè quelle tendenze e quei moti dell'animo, il cui giuoco deve osservare in altrui e dei quali frenare il corso e antivenire gli eccessi… Voi partirete.

Barnaba scosse con risoluzione il capo.

– No: diss'egli fermamente: e se si persevera in questa risoluzione, la prego, signor Commissario, di considerarmi fin d'ora come congedato dal servizio.

Il signor Tofi ritirò la mano dalla spalla del suo subordinato ed incrociò le braccia al petto; un lampo di sdegno corse ne' suoi occhi affondati.

– Ah sì? esclamò egli. E va bene. Ma ammettendo un momento che io vi dèssi così la vostra licenza, fatemi il favore di dirmi di qual pane vorreste mangiare.

– Non mi sarà difficile procacciarmene un tozzo fors'anco minore… ma meno amaro.

– Come? Come? Insistette Tofi con ironia contenuta ma sdegnosa. Vorreste per caso tornare al vostro primo mestiere dell'infanzia e della gioventù?

Barnaba impallidì.

– Esso non deve avervi lasciato troppo gradevoli memorie; continuava il Commissario con crescente quell'ironia, la quale, al vedere i segni di sofferenza che si manifestavano nel volto di Barnaba, avreste dovuto dire veramente crudele, e poi, ora dopo tanto tempo dubito assai che abbiate ancora le membra abbastanza sciolte per fare l'uomo tartaruga o saltar sulla corda.

Il suo ascoltatore, più smorto d'un cadavere, si appoggiò con una mano alla parete a sorreggersi, sentendo venirgli meno per l'emozione le forze; il capo aveva chino alla terra, il respiro affannoso; però non disse motto, nè mandò pure una voce.

Tofi continuava:

– Oppure potreste, coll'arte vostra abbastanza scaltrita, colla conoscenza che avete dei mezzi di guerra dalla parte nostra recare a quelli che combatteste finora, al campo dei nemici della società di cui foste finora difensore, un valido e prezioso campione che certo da loro otterrebbe infiniti vantaggi. Lascio stare il merito e la moralità di codesta azione; e se voi ne siate capace o no; ma vi dico che voi a niun modo non la potete fare, perchè io non lo permetterò.

Si drizzò vieppiù della sua persona e parve ingrandirsi appetto all'uomo che gli stava dinanzi curvo, abbattuto e disfatto.

– Avete voi dimenticato, seguitò dando maggior vibrazione ed imponenza alla voce senza pure alzarla; avete voi dimenticato che io col segreto della vostra vita passata, tengo in pugno il vostro presente e il vostro avvenire? Che siete in mia balia talmente che il giorno in cui vorreste sottrarvi, io posso infrangervi senz'altro?

Barnaba fu assalito da un fremito; tese le mani supplicante e disse con accento pieno di preghiera e d'angoscia:

– Ah! non mi perda!

Successe un istante di silenzio, in cui que' due uomini stettero di fronte a quel modo; Barnaba gli occhi fitti alla terra, umile e vinto, Tofi dominandolo da tutta l'altezza della sua statura, con uno sguardo imperioso e fiero.

Fu il subalterno che ricominciò a parlare:

– Signor Commissario, diss'egli, Ella ha ragione, Ella può fare di me tutto ciò che le aggrada; ma in nome di quanto vi ha di più sacro, in nome del Re e di questo nostro ufficio di cui Ella sente così a dovere tutta l'importanza e l'altezza, pel vantaggio del servizio di cui le giuro sull'anima mia trattarsi, la prego, la supplico a non mandarmi via così, di subito… Non le domando che un indugio di pochi giorni, di una settimana, di due tutt'al più… In questo frattempo spero di poterle venir a recare tali risultamenti dell'opera mia ch'Ella sarà lieta d'avermi accordata questa grazia. Dopo faccia pure di me tutto quel che la vuole; e se non riesco a nulla, mi punisca poi Lei con tutta la severità che creda opportuna. Mi rassegno fin d'adesso ad ogni suo volere. Ma, per amor di Dio, mi lasci compier l'opera. È un'opera difficilissima, intricata, delicatissima cui non posso cedere altrui, che altri non potrebbe assumersi e continuare in vece mia. È un viluppo di leggerissimi indizi ch'io indovino più coll'istinto di quello che scorga col raziocinio; è un complesso di fili tenuissimi cui bisogna trattare con cura infinita, perchè non si rompano lasciandovi senza scorta nessuna più nel labirinto. Io seguo, traverso un lecceto di circostanze indifferenti che imbarazzano il cammino, le traccie del vero coll'istinto del segugio che persegue una preda, questo vero voglio arrivarci a scoprirlo… e scoprirlo io!.. È una questione d'amor proprio; è una passione dell'arte mia oltre ogni altro impulso che possa essere in me; è un'ambizione, se vuole, ma cui Ella non può condannare. Mi lasci conquistar questo merito. Forse è una missione che mi ha data appunto la Provvidenza menandomi per le disgraziate, orribili vicende della mia vita passata; mi permetta ch'io la compia.

Il Commissario stette un momento, prima di rispondere, riflettendo; poi ad un tratto crollando le sue spallaccie, disse asciuttamente:

– Voi non partirete che fra un mese. La prendo su di me. Vi do un mese di congedo, cui potrete passare dove vi piace meglio. Se in questo frattempo voi riuscite in quell'impresa che dite, se quella che proseguite non è una illusione, e voi arrivate a porre la mano sopra una buona verità; allora la vostra disgrazia presente si potrà convertire in una splendida ricompensa.

Barnaba in un movimento di espansiva gratitudine, lieto com'era immensamente dell'ottenuto favore, accennò voler prendere la destra del Commissario; ma questi nascose le sue manaccie nelle larghe tasche del soprabito e disse con accento freddo freddo e con faccia burbera burbera:

– Andate e fate ch'io non m'abbia a pentire di quanto ardisco a vostro riguardo.

L'agente s'inchinò con tutta umiltà e s'avviò verso l'uscita. Quando ei fu per aprir l'uscio, il signor Tofi soggiunse:

– Passando dite che s'introduca quel prete cui mi ha mandato il Comandante.

Barnaba trasmise l'ordine ricevuto alle guardie dell'anticamera, e poscia uscendo del palazzo Madama si diresse verso l'osteria di Pelone.

Chi gli fosse stato accosto, avrebbe potuto udirlo borbottare coi denti stretti:

– Gli è colui la cagione della mia disgrazia, lui che mi volle far scacciare, lui che possiede l'amore di Zoe!.. Oh! dovrà pur venire un giorno ch'io ne terrò la sorte nel mio pugno!

La plebe, parte III

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