Читать книгу La plebe, parte III - Bersezio Vittorio - Страница 5
CAPITOLO V
ОглавлениеDon Venanzio colla letterina del marchese di Baldissero, erasi affrettato verso il Palazzo Madama; dove informatosi del luogo in cui fossero gli uffici del Comandante di piazza, eravisi introdotto umile e rispettoso. I soldati veterani, sotto uffiziali i più, che, conosciuti dal popolo col nome di ordinanze di piazza, facevano presso quell'uffizio poliziesco-militare da guardie di polizia insieme, da uscieri e da tavolaccini, non accolsero con molta deferenza questo vecchio ed umil prete dagli abiti poveri e dall'aspetto modesto. La richiesta di lui, d'essere ammesso a parlare coll'illustrissimo signor barone Panciù della Montoria, maggiore di fanteria nell'esercito di S. M. il re di Sardegna, Comandante della piazza di Torino, parve loro poco meno che una temerità in tale che non aveva il brillante degli spallini, l'autorità d'un alto impiego, l'imponenza d'un nome aristocratico e nemmanco il distintivo (in quel tempo non così comune come adesso) di una decorazione. Di certo il nostro buon sacerdote non sarebbe arrivato al suo intento se non fosse stato del bigliettino di S. E. il marchese di Baldissero, ministro di Stato.
A questo nome le faccie irte di baffi di quei bravi veterani fazionati dalla disciplina alla sprezzosa ruvidezza verso i borghesi, cominciarono a diminuire l'altezzoso, severo cipiglio. Uno di essi non disdegnò di prendere il biglietto e di recarlo nella camera vicina, dove un altro l'avrebbe preso per trasmetterlo ad un terzo il quale avrebbe poi avuto l'onore di consegnarlo nelle proprie mani del signor barone comandante: imperocchè già fin d'allora (cosa bellissima ed opportunissima che si è venuta perfezionando e crescendo) codesti uffizi, come tutti gli altri eziandio, erano affollati di utilissima gente occupata a non far nulla.
Ma il potente talismano di quella lettera fu appena pervenuto nelle autorevoli mani del signor Panciù della Montoria, il quale, in benefizio dello Stato, sbadigliava gravemente crogiolandosi in una soffice poltrona presso il fuoco, che la causa del buon prete ebbe il cento per cento di guadagno. Il signor Comandante si degnò di suonare un campanello, ed a chi si presentò alla chiamata si degnò di ordinare che desse ordine a chi di dovere, perchè le ordinanze dell'anticamera lasciassero entrare il postulante. Così avvenne che Don Venanzio penetrasse sino nel gabinetto di quell'illustre personaggio.
Udito di che cosa si trattasse, il signor Comandante, voglioso di soddisfare al desiderio manifestatogli da un potente, quale il marchese, guardingo eziandio di non compromettere la sua dignità colla Polizia civile, da cui dipendeva in realtà la definizione dell'affare, recossi sopra se stesso e riflettè profondamente. Ma egli non era incanutito nel glorioso servizio della pacifica milizia di quel tempo per non trovare in simile occasione la salvezza della capra e dei cavoli. Levò fieramente la testa, come uomo che sa d'avere una felicissima idea, ed ordinò che il prete campagnuolo fosse scortato di sotto al pian terreno nell'ufficio del signor Commissario e si dicesse a costui che era desiderio di lui Comandante, la domanda del prete venisse esaudita.
Ma quando in quell'oscura e vasta anticamera dove siamo via penetrati più volte, entrarono Don Venanzio e l'ordinanza che gli faceva da guida, il signor Tofi era assente dall'uffizio; e il veterano, che non aveva tanto zelo da mettere a disposizione del prete, da rimaner lì a seccarsi aspettando nella società delle guardie poliziesche con cui le ordinanze di piazza non se la dicevan di troppo, il veterano disse concisamente ciò di che si trattava ai poliziotti presenti e se ne andò pei fatti suoi.
Don Venanzio sedette e, la sua mazza fra le gambe e le mani appoggiatevi su, il fido Moretto accovacciato a' piedi, stette tranquillamente ad aspettare.
Quando finalmente Barnaba nell'uscire dal gabinetto del Commissario, ebbe dato ordine il prete s'introducesse, Don Venanzio deposto il suo bastone, come soleva, ed ordinato all'obbediente cagnuolo di starvi presso e non muoversene a niun conto, passò il corridoio, traversò la prima camera, ed entrando nel riposto camerino, si trovò a fronte del terribile signor Tofi.
Difficilmente, chi l'avesse voluto fare apposta, avrebbe potuto mettere insieme due figure che più facessero contrasto. Il Commissario alto, magro, osseo, angoloso, la faccia ispida, di color terreo, aspetto burbero, la guardatura fiera; il prete piuttosto piccolo, grassotto, rosse le guancie, bonario e benigno il sorriso, mitissimo lo sguardo degli occhi azzurri, tutto bontà ed amorevolezza al solo vederlo.
Tofi guardò quella sorridente figura con occhio torvo; parve anzi che quelle aperte, benigne sembianze, irritassero in lui la scontrosità dell'umore.
– Ebbene? diss'egli con accento più ruvido ancora dell'ordinario. Che volete? Parlate, e spicciatevi, chè io non ho tempo da perdere.
Don Venanzio non si spaventò, nè s'indispettì di queste parole e del tono ond'eran dette; espose tranquillamente, con umile sicurezza la ragione della sua venuta, e non tacque della lettera del suo protettore al Comandante. Fosse il nome del marchese di Baldissero, fosse la voce simpatica e l'accento modesto e dignitoso insieme, di quel vecchio, che producesse effetto, il vero è che la orgogliosa insolenza del signor Commissario s'abbassò d'un tono.
– La vuol vedere quel cotal Maurilio arrestato questa mattina? Disse il sig. Tofi passando a parlare col Lei. Bene, la lo vedrà subito. S. E. il marchese di Baldissero le ha detto che avrebbe potuto condurlo via con sè? S. E. le ha detto giusto. Ho appunto l'ordine di rimetterlo in libertà; e nulla osta a ciò che Lei si porti quel giovane dove la vuole.
Ciò detto ordinò che il nominato Maurilio Nulla fosse tolto dal carcere in cui era stato messo e condottogli innanzi.
Maurilio aveva appena finito di raccontare, come abbiam veduto, le avventure del suo passato all'amico Selva, quando si udirono stridere fuor della porta i catenacci che scorrevano nei loro anelli di ferro, e scricchiolare nella serratura la chiave che apriva: i due giovani volsero curiosi i loro sguardi all'uscio e videro socchiudersi il grosso battente e il secondino medesimo che là dentro li aveva introdotti, mettere fra l'uscio e il muro la sua faccia ignobile e far passare per quell'apertura la sua voce rauca e villana.
– Quale di loro si chiama Nulla Maurilio?
I prigionieri si erano alzati tuttidue; Maurilio fece un passo innanzi e disse non senza un palpito nel cuore e un lieve tremito nella voce:
– Sono io.
– Venga meco.
Maurilio volse verso Giovanni uno sguardo desolato:
– O cielo! Ci vogliono separare.
Selva si cacciò avanti e interrogò il secondino.
– Dove avete da condurre il mio compagno?
– Dal signor Commissario.
– Perchè?
Il carceriere rispose crollando le spalle:
– Che so io? Non domando e non mi si dànno di queste spiegazioni… Animo, su, muoviamoci.
Maurilio si gettò nelle braccia di Giovanni.
– Aimè! Disgiungendomi da te mi si toglie la maggior parte della mia forza.
– Coraggio, coraggio: gli susurrò alle orecchie Selva abbracciandolo. Non sarà che per interrogarti, e poi ti restituiranno alla mia compagnia.
E con un bacio, come di addio, gl'insinuò nell'orecchia, tanto piano che Maurilio stesso appena le udì, le seguenti parole:
– Nega tutto e sempre, o piuttosto taci.
Il secondino accennava impazientarsi. Maurilio si staccò dalle braccia dell'amico e seguì l'uomo che lo era venuto a prendere, scorta al quale stavano due guardie, i bottoni della cui uniforme mandavano qualche riflesso di luce nell'oscurità del corridoio. Alle spalle di Maurilio fu richiuso lo spesso battente chiovato di ferro col medesimo stridere, col medesimo scricchiolìo di catenacci e di serrami.
Quando furono giunti all'uscio del gabinetto del Commissario, le guardie con uno spintone fecero entrar primo Maurilio, e dissero:
– Ecco il prigioniero.
– Sta bene: rispose la voce burbera del signor Tofi: andate.
Guardie e secondino sparirono; il nostro protagonista rimase timido ed esitante a quel posto, non osando levar gli occhi e sentendo nel petto battergli il cuore sotto la stretta d'una paura che cercava invano di dominare.
Ma prima che egli od altri avesse tempo di pronunziare una parola, appena partite le guardie, una persona si slanciò verso Maurilio e gli gettò le braccia al collo ed una voce amichevole e soave lo salutò chiamandolo per nome con infinito affetto.
Il giovane sentì dileguarsi il turbamento della sua paura, ebbe di botto l'animo rinfrancato trovandosi non senza molta meraviglia sul seno del vecchio parroco, del maestro e del protettore della sua infanzia.
– Lei!.. Lei qui, Don Venanzio: esclamò Maurilio con tanta commozione che appena poteva parlare. Oh! la è proprio il mio buon genio che la manda.
– Sì: disse il parroco: è la Provvidenza che ti vuol bene, e mi concede sempre la grazia di poterti soccorrere. Gli è un presentimento che mi ha spinto a venire a Torino; e qui ho trovato subito chi ha potuto farmiti restituire. Sono venuto a prenderti: tu sei libero, ed usciremo insieme da questo brutto luogo.
Un brivido di acuto piacere corse tutte le fibre del giovane.
– Libero: esclamò egli sentendosi quasi allargare i polmoni.
Non potè aggiungere altra parola; ma levò lo sguardo al cielo con espressione di commossa riconoscenza. Egli era persuaso che lo spirito benigno, il quale vegliava sul suo destino, era quello da cui era stato ispirato a Don Venanzio il presentimento da lui accennato, era stato suggerito il mezzo di venirlo a salvare.
Don Venanzio, abbracciato, baciato e ribaciato Maurilio, ne prese il capo colle due mani e lo stette guardando con amorosa attenzione e con viva sollecitudine. Dall'ultima volta che quei due s'eran visti, nella faccia espressiva del giovane erano ancora, e non di poco, accresciutesi le traccie della sofferenza e del malessere che a quel corpo indebolito cagionavano l'incessante travaglio dell'anima, la soverchia tensione dello spirito e il continuo lavorìo del pensiero. Più terreo il color delle guancie, più affondate le occhiaie, più sporgenti i zigomi nel macilento viso, più spiccate le rughe precoci alle tempia ed agli angoli della bocca, più curvo il petto ed abbandonato il portamento.
Il buon parroco, intenerito, lo baciò ancora una volta su quella vasta fronte incoronata dai nerissimi ispidi capelli come da una scura aureola, ed illuminata nel suo pallore dalla luce del pensiero.
– Mio povero Maurilio, disse Don Venanzio con accento di sì dolce affetto che più non avrebbe potuto la voce d'una madre. Tu hai sofferto ancora, tu soffri?
Il giovane rispose con un mesto sorriso.
Ma ad impedire ogni effusione suonò in quel momento la voce aspra e burbera del signor Commissario.
– Le vostre confidenze ve le farete poi in più acconcio luogo di qua. Per ora, giovinotto, voi siete libero, e ringraziate la clemenza di S. M. che invece di mandarvi a vedere il sole a scacchi a Fenestrelle, vi fa la grazia di lasciarvi andar a dormire nel vostro letto. Ma frattanto questo piccolo incidente vi serva d'avviso! Fate senno, dissensato che siete! Ficcatevi un po' di sugo in quel cervellino di passero che vuol menare a bere le oche; e invece di pensare a cambiare le cose del mondo e riformare il Governo, pensate ad essere buon suddito, buon cattolico e riformare a voi la testa sconclusionata. Vedete i bei capi che pretendono dettar la legge a chi comanda e far camminare il mondo a loro capriccio! È nell'ospedale dei pazzerelli dove meritereste d'essere rinchiusi, poverini di teste bruciate… D'ora innanzi badate a voi! Non crediate di poterla fare impunemente in barba alle autorità ed alle leggi. Noi teniamo gli occhi su di voi e vediamo tutto, quasi quasi i vostri pensieri eziandio. Se questa volta l'avete scappolata tanto a buon mercato, un'altra non sarà più così. E sappiate, impertinenti e stupidi animali di rivoluzionari, che S. M. il Re di Sardegna ha abbastanza carceri e carabinieri, e se occorre palle e schioppi da mettere alla ragione quanti ne sieno di voi e dei vostri pari… Ora andatevene con Dio, e pregate il vostro santo protettore che non m'abbiate più a comparire davanti.
Maurilio ascoltò l'intemerata a capo chino e senza dare il menomo segno di quello che sentisse dentro sè; ma il buon Don Venanzio non nascose nella sua aperta e schietta fisionomia, tutto l'effetto di paura che in lui produssero le parole del Commissario.
– Andiamo, andiamo, diss'egli sollecito, prendendo il braccio del giovane, appena il signor Tofi ebbe finito. E il signor Commissario non dubiti che non daremo mai più ragione di malcontento all'autorità.
Maurilio però non si mosse, non ostante che Don Venanzio, a cui pareva mill'anni d'esser fuori da quel luogo, facesse a trarlo verso la porta.
– Signore, disse Maurilio al Commissario, quando venni arrestato, mi si sequestrarono delle carte… un manoscritto…
– Ebbene? lo interruppe bruscamente il signor Tofi con un tale sguardo che avrebbe agghiacciata la parola anche sulle labbra d'un ardimentoso.
– Vorrei pregarla, balbettò Maurilio, se si potesse di dar l'ordine che mi fosse restituito…
– Un corno! gridò il Commissario. Quello scartafaccio è nelle mani di S. E. il Governatore che ne farà quel che vorrà…
Il giovane accennò volere aggiungere ancora una parola; ma Tofi con più ruvidezza ancora:
– Adesso ho altro da fare che ascoltare le vostre sciocchezze. Non seccatemi dell'altro e partite, se non volete ch'io vi faccia ricondurre in qualcuno de' miei salotti qui sotto nei fossi del castello.
Maurilio non aprì più bocca, e Don Venanzio, che fece saluti rispettosi e vivaci per tuttedue, lo trascinò fuori sollecitamente. Nell'anticamera il parroco riprese la sua mazza e il suo cane che gli fece mille feste; e quando ebbe oltrepassata la sentinella che passeggiava dinanzi al portone, Don Venanzio mandò un gran sospirone di sollievo, strinse al suo petto il braccio di Maurilio su cui s'appoggiava affettuosamente e disse:
– Uhff! fa piacere l'essere fuori di lì, e faccio voti che per nessuna ragione, nè tu ned io non abbiamo da tornarci mai più.
Il povero prete doveva tornarci pur troppo per una dolorosissima cagione, onde assai aveva da soffrire la sua bella, onesta ed amorevol anima!
Camminato un poco in silenzio, Maurilio ad un tratto si fermò e scosse la testa, come uomo a cui una vicenda è troppo grave a sopportare.
– Lasciare nelle loro mani quello scritto! esclamò egli; ma colà dentro vi è tutta la mia anima, vi sono tutte le evoluzioni del mio pensiero; vi è quella parte della vita intima del nostro io, in cui non deve penetrar mai, è un sacrilegio che penetri occhio umano – e stento a credere perfino che penetri l'occhio di Dio… Ah! questa è la peggiore delle tirannie, questa è un'empia offesa alla libertà ed alla dignità della persona umana… E se mi presentassi al Governatore a richiamarmene, se invocassi colla forza del mio diritto la restituzione di ciò che è più mio di qualunque altra cosa possa appartenermi mai, di quello che è parte, si può dire, di me stesso, qual accoglienza mi si farebbe? qual risposta degnerebbero farmi?.. Quella di questo villano di Commissario: la minaccia di un carcere.
Don Venanzio, tutto spaventato, lo stringeva pel braccio, guardava intorno con occhio pieno di sgomento, e tirandolo per fargli riprendere l'andare, dicevagli sottovoce con accento di amorevole rimprovero:
– Vuoi tacere?.. Ve' se si ha da parlare in questa guisa!.. E ad alta voce ancora, in una piazza!.. Per fortuna che con questo tempo c'è poca gente… Ma certe cose, Gesù buono, non bisogna nè anche pensarle. Vieni, vieni, andiamo a casa tua che abbiamo un milione di cose da dirci… Quanto al tuo manoscritto, credo di potertene dare le novelle, che l'ho visto io co' miei occhi non è più di un'ora.
– Davvero! esclamò Maurilio stupito non poco. Non è dunque più in mano del Governatore?
– No.
– E dov'è? chiese sollecito il giovane. E come fu dato a Lei di vederlo?
– L'ho visto fra le mani di quel medesimo personaggio a cui tu hai già dovuta quell'altra volta la tua liberazione, ed a cui tu la devi anche adesso.
In Maurilio queste parole produssero una subita emozione, cui Don Venanzio, se l'avesse osservata, avrebbe dovuto trovare strana ed inesplicabile.
– O chi? domandò egli con impeto, tremante la voce.
– Il marchese di Baldissero.
Maurilio mandò un'esclamazione dall'imo petto, d'una meraviglia che quasi pareva dolore.
– Il marchese!.. Lui?.. O fatalità! Il mio destino mi vuole dunque affatto perduto?
– No, no, calmati: s'affrettò a dire il parroco vedendo tanta commozione e tanta ansietà nel giovane. Il marchese bene trovò ardite le idee espresse in quello scritto, ma notò in esso tali traccie d'ingegno, che anzi desiderò vederti e parlar teco. Io gli promisi che nel giorno stesso di domani t'avrei condotto al suo cospetto.
Queste parole, invece che rassicurare, parvero turbare vieppiù il povero Maurilio.
– Io!.. Presentarmi a lui… dopo ch'egli avrà letto?.. oh no, oh no mai!
E si coprì colle due mani la faccia.
– Ma che cos'è? domandò il prete meravigliato di quella tanta commozione, cui, per le ragioni ch'egli conosceva soltanto, trovava eccessiva. C'è alcuna cosa in quel tuo scritto che ti debba far vergognare a comparire innanzi ad un onest'uomo?
Maurilio strinse forte il braccio di Don Venanzio, che s'appoggiava sul suo.
– Vergognare, no, perchè non c'è colpa nè viltà qualsiasi; ma temere sì… Innanzi alla superbia aristocratica di quel blasonato, la mia può parere un'audacia insolente…
– Ma spiegati!.. Che cos'è in fin dei conti?
– Spiegarmi?.. Non posso… È un segreto della mia anima, effuso entro quelle pagine in versi bollenti che eruppero come una lava; è un atto di quella mia vita interiore che dev'essere, che voglio chiusa ad ogni sguardo indiscreto… Nessuno ha da conoscere quel segreto e meno di tutti il marchese.
Don Venanzio rimaneva perplesso senza comprendere come alcuna qualunque attinenza, come indicavano le parole del suo giovane amico, potesse esistere fra il marchese e Maurilio che non si conoscevano il meno del mondo.
Il giovane, sempre agitato, continuava come parlando a se stesso:
– Può egli comprendere?.. Avrà egli compreso sotto le mie parole la verità?.. Chi non la comprenderebbe?.. A qual altra persona possono convenire quei detti?.. Più volte ne ho scritto il nome… È un nome che portano ben altri eziandio… Ma pure…
Il buon prete trovò una valida ragione, per lui sicurissima, da tranquillare Maurilio.
– Se io capisco bene, diss'egli, si tratta dunque di una cosa tua particolare, intima, segreta.
Il giovane fece un cenno affermativo.
– Ebbene, io metterei pegno qualunque cosa che il marchese non ne ha letto pure una parola. Conosco la delicatezza di quell'animo. Tutto ciò che gli sarà sembrato attenersi ai particolari della vita privata, egli lo avrà accuratamente tralasciato.
Maurilio parve acchetarsi; e lungo tutto il cammino che loro restava da percorrere per giungere alla casa dov'egli abitava, rimase taciturno, col capo chino e gli occhi dimessi.
Quando Maurilio e Don Venanzio giunsero alla porta n. 7 di via ***, dalla loggia della portinaia uscì fuori con impeto sora Ghita medesima scortata come da uno stato maggiore dalla comare Marta, dalla comare Polonia e da non so quali altre comari del quartiere.
L'evento straordinario dell'arresto dei giovani in casa del pittore aveva radunato colà l'esercito attivo e la riserva delle lingue femminili di pian terreno in tutta quella strada e formava l'argomento delle più vivaci chiaccole di quelle brave sfaccendate; quando ecco uno degli eroi dell'avventura tornare tranquillamente a casa per distrurre tutte le supposizioni di ogni sorta che quelle argute donne si erano già industriate di fare. E il ritorno non era meno strano dell'andata; condotto via da poliziotti, accompagnato da un agente della pubblica sicurezza, se ne tornava come se di nulla fosse stato, a braccio con un vecchio prete. C'era di che mettere in uzzolo altro che la curiosità di un drappello di vecchie comari! Fu perciò che sora Ghita, visto appena, nel campo di visione che apriva ai suoi occhietti sempre in sull'avviso il finestruolo della loggia, spuntare la faccia pallida di Maurilio e le chiome bianche di Don Venanzio, per un subito impulso si cacciò fuori, armata d'interrogazioni, e dietrole tutta la valorosa schiera delle comari.
– Ah! Ella qui, sor Maurilio! esclamò essa, levando le mani secche e rugose all'altezza della sua cuffia madornale in un atto di meraviglia che voleva esser piena di allegrezza e di consolazione. Oh che piacere! Hanno adunque riconosciuto che la era una gran porcheria lo arrestare della brava gente come lei? E l'hanno mandata sciolta, non è vero? Me ne rallegro tanto. E l'avvocato Selva? È egli vero che fu arrestato ancor egli? S'è detto così, lo si dice ancora per tutto il quartiere… Un altro bravo giovane quello lì che non ha il suo compagno. (E si volgeva alle comari, mentre col suo corpo seguitava a chiudere il passo a Maurilio ed al prete). Grazioso e gentile e ben educato che gli è un vero piacere. Non passa mai davanti al mio camerino senza salutarmi, e qualche volta viene a discorrerla meco e ci ha sempre un fascio di novellette e di piacevolezze che incanta ad udirlo. (E qui parlava di nuovo a Maurilio). Spero bene che avranno lasciato andare anche lui; o se non ancora, lo lascieranno andare quanto prima. E quell'altro, che è un signore quello là che ha dei milioni, l'avvocato Benda, il padrone di quella bestia del mi' uomo, non è una frottola che sia stato arrestato anche lui? Ma che smania è codesta di voler mandare in gattabuia tutta la gente ammodo! Io mi credo che abbia dato la volta a quei signori della Polizia… Io già rispetto l'Autorità, i comandamenti di Dio, della Chiesa e del signor Vicario, ma non mi posso tenere dal dire che queste le sono vere porcherie. Finiranno per mandare in galera l'onesta gente e lasciar stare tranquilli i birbanti che ce n'è una tal quantità oramai in questa nostra città che se vi rintoppate in uno sconosciuto, non siete sicuri di non aver dato del naso in un ladro; e lo provano i frequenti delitti che succedono tutti i giorni, che dicono che la è tutta una combriccola, che sono centinaia e più, che si chiamano la cocca, di ogni razza di Dio, birboni che non temono nè Cristo, nè l'Anticristo, nè gli angeli, nè il demonio, che al tempo della mia gioventù mai e poi mai si sono udite di simili cose…
Maurilio, esaurita affatto ogni sua provvista di pazienza, fece un tentativo infelice per isgusciare tra la portinaia ed il muro: ma sora Ghita non era donna da lasciarsi vincere nè per sorpresa, nè per altro; fu lesta a chiudere compiutamente il passaggio mettendosi davanti al giovane, e continuò lo scroscio della sua parlantina.
– E dunque, Lei sa s'egli è vero che l'avvocatino, come lo chiamano laggiù alla fabbrica, sia stato arrestato? E perchè poi? Si dice che c'entra la prepotenza d'un gran signore col quale ieri sera ebbe un battibecco alla festa da ballo… Ma guardiamo un po' se questa è ragione per arrestarlo… ed anche i suoi amici!.. Io era così impaziente, così fuori della grazia di Dio, per codesto, che volevo correre con questo tempaccio fin colaggiù alla fabbrica ad udire un po' che cos'era stato, a rischio anche d'avere un rabbuffo con quello scontroso di mio marito, il più insopportabile uomo di questo mondo… e d'ogni mondo possibile…
Maurilio stava per offendere la brava portinaia, mandandola con ira ai centomila diavoli, ma Don Venanzio intromise colla sua solita dolcezza, col suo sorriso tutto bontà, la sua mite parola.
– Noi non sappiamo nulla di preciso, mia cara signora Ghita; ma certo v'è ogni ragione di credere che, come per Maurilio, così anche per gli altri, l'autorità avrà riconosciuto il suo errore e si affretterà a ripararlo. Errare è una cosa che succede a tutti, anche a chi comanda, perchè da nessuno si può pretendere che sia infallibile, ma quando lo sbaglio si corregge, allora non c'è più nulla da dire.
E con quel suo simpatico e benigno sorriso, spinse gentilmente da una parte la portinaia, e per l'apertura che rimase, s'affrettarono egli e Maurilio a guizzare.
Un quarto d'ora non era trascorso, ed ecco presentarsi alla vista delle comari, sempre ancora intente a chiaccherare, l'allegra figura di Giovanni Selva. E' se ne veniva col suo abituale piglio di buon umore, canterellando un'aria di teatro, un sigaro acceso in bocca, come uomo che se ne torna da una passeggiatina dopo un buon asciolvere. Come già intorno a Maurilio, la portinaia colle sue compagne assaltarono al passaggio il secondo venuto.
Selva, rimasto solo nel carcere, e non osando mai più sperare una sì pronta liberazione, non era senza inquietudine di ciò che in quel momento accadesse al compagno da cui lo avevano separato, di ciò che avesse poi da toccare a lui medesimo. Per fortuna la sua ansiosa aspettazione non fu di lunga durata. Come già erano venuti a prender Maurilio, così accadde di lui, e nella medesima guisa fu egli condotto innanzi alla faccia fieramente burbera del signor Commissario.
Il modo con cui questi accolse il giovane era tale da far agghiacciare il sangue nelle vene a qualunque che non avesse la calma, la risoluzione e la coraggiosa noncuranza di Giovanni. A costui l'intimata da farsi doveva essere ben più aspra e terribile e romoreggiante di severissime minaccie, perchè egli aveva osato ammaccare de' suoi pugni ribelli le brutte faccie dei poliziotti rappresentanti della legittima autorità. Era pur vero che que' malcreati di scherani colla prepotenza codarda del numero e dell'impunità assicurata se n'erano vendicati coi maltrattamenti che sappiamo; ma tuttavia il solenne principio che il suddito deve lasciarsi battere e dir grazie, porgere le spalle al bastone e baciar la mano che lo regge, principio su cui, secondo il signor Tofi, deve fondarsi ogni ben regolata società, codesto principio, dico, era stato gravemente offeso da que' tali scopozzoni somministrati da Giovanni, e bisognava guarentire da ogni ulteriore contusione la santità del principio e il naso degli sgherri. Un tiranno da dramma di arena in giorno di festa, che ha dietro la quinta il carnefice già bello e pronto coi calzoni rossi e la barbaccia finta al mento per comparire al primo olà muggito in voce di basso profondo, non accoglie più ferocemente il primo amoroso cui sta per mandare al patibolo, di quello che fece il Commissario verso il nostro Giovanni. La voce reboante del signor Tofi, dall'alto del suo cravattino duro tuonò come un temporale dalla montagna. Il colpevole che gli stava dinanzi era degno della galera e peggio; a tanto misfatto l'orrore dei buoni si doveva e la mano vindice del carnefice; del 33 avevano ricevuto un'oncia di piombo nella testa pervicace dei birboni di ribelli che appetto a Selva erano agnellini di candore governativo e d'ubbidienza e rispetto all'augusto legittimo Sovrano5. Ma del feroce discorso quanto più inaspettata, tanto gradita fu la conclusione all'orecchio del giovane: ed era che per intanto gli si dava il largo. Giovanni aveva ascoltato tranquillo le invettive e le minaccie del Commissario, come un modesto ascolta i complimenti che gli si fanno, senza chinar punto gli occhi innanzi alle fiere pupille che lucicchiavano sotto la gran tesa del cappellone che il signor Tofi teneva insolentemente piantato in testa; all'annunzio finale della sua libertà restituitagli, il giovane ebbe la forza di continuare nella medesima apparente impassibilità, ma il cuore gli si mise a saltellare allegramente nel petto, e confessò egli stesso di poi che il giuoco dei polmoni nel rifiatare gli divenne di subito più libero e più facile.
Ma le prove di Giovanni non erano ancora finite. Il signor Tofi ebbe la felicissima idea di volergli far giurare, prima di dargli il volo, ch'egli d'or innanzi sarebbe un esemplare di suddito veneratore del trono e dell'altare, rispettoso d'ogni agente del Governo dal primo ministro al cane dell'usciere, dal cappello gallonato del generale alla cassa dell'ultimo tamburo dell'esercito, dalla toga rossa del senatore alle manette dello sgherro.
Giovanni si dimenticò d'essere un avvocato per ricordarsi soltanto che era un uomo schietto a cui ripugnava un falso giuramento anche imposto dalla prepotenza. Non cercò sotterfugi, non ricorse a restrizioni mentali, non addusse sofismi; guardò ben bene in faccia il Commissario e disse francamente ch'egli apparteneva alla setta dei Quaccheri i quali di giuramenti non ne facevano mai nè anco per salvarsi dalla morte.
Il signor Tofi aveva il più stretto dovere di salire in una collera ufficiale, e non ci mancò. Pensò un momento seco stesso se non aveva da rimandare nel carcere questo sedicente quacchero a maturare una più conveniente risoluzione; ma poi non ardì farlo ricordando le parole del conte Barranchi e l'ordine di liberazione venuto direttamente dal Re. Si contentò di fare scrosciar nuove minaccie sul capo del pervicace: che già l'autorità aveva l'occhio aperto su lui e sui suoi pari, e guardasse bene che al primo piccolo motivo di sospetto avesse dato, l'artiglio della polizia l'avrebbe preso di nuovo e per non lasciarlo più così di piano.
Selva salutò rispettosamente, uscendo, i cannoni che allora stavano appostati sotto l'atrio del Palazzo Madama, e confessò che quando si trovò fuori del portone al fioccar della neve che veniva giù fitta fitta, gli parve che quella giornata fosse più bella che una giornata di sole, e fu con un gusto tutto nuovo che accese il suo sigaro da un soldo in presenza dell'imponente facciata del castello in cui aveva sede l'orco della Polizia.
– Cara sora Ghita: disse Giovanni Selva alla portinaia rinfiancata dalla frotta fedele delle sue comari; sì, eccomi restituito alla libertà, agli amici, alla poesia ed a Lei. Come mi hanno arrestato? Colle manaccie di certi arcieri, più sporche della coscienza di un ladro. Perchè? Perchè quei furbi della Polizia, che leggono i pensieri nel cervello di una mosca, si sono immaginato che io ed i miei amici volessimo portar via le statue che stanno sul Palazzo Madama. Visto che le non ci entravano in tasca, hanno capito che eravamo innocenti e ci hanno mandati con Dio, senza darci manco da colazione. Tenga a mente questa esposizione di fatto, e la tramandi pure ai posteri, se la può, chè la storia ne trasmette loro difficilmente di più esatte e fedeli.
Ciò detto, abbracciando scherzosamente la vecchia portinaia, la tirò da parte per aprirsi il varco, e distribuito a manca ed a sinistra alcuni di quei suoi schietti ed allegri sorrisi, corse lesto verso le scale, cui salì a due scalini per volta, seguitando a canterellare allegramente la sua arietta.
Le cose dette da Selva non appagarono così compiutamente la curiosità delle donne che non avessero più materia di chiacchere e d'induzioni da mantenere vivo il colloquio per un'altra buona mezz'ora.
Ed ecco, a capo di questo tempo, presentarsi agli occhi della portinaia una persona la cui presenza era fatta apposta per interessare vivamente la vecchia ciarlona curiosa: il falso operaio della sera innanzi, l'interrogatore astuto ed insinuante, quello sconosciuto cui monna Ghita aveva trovato rassomigliare al fumista di via Santa Teresa, in una parola l'agente di Polizia, Barnaba.
Costui abbiamo visto, uscito dal Palazzo Madama, dopo il colloquio col Commissario, indirizzare i suoi passi verso l'osteria di mastro Pelone. Ciò che colà vi facesse e dicesse questo personaggio è giovevole che sappiamo per comprendere alcuni degli avvenimenti che avremo da narrare.
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Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che io sto ancora al di qua del vero.