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CAPITOLO II

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Don Venanzio portava bravamente la più bella vecchiaia che si possa vedere. Nella sua faccia, che era tutta un'espressione di bontà, si manifestava la pace soave d'un'anima onesta; nel suo sguardo, ancora vivace, brillava la fiamma di quell'affetto di cui Cristo fu modello divino, la carità. Intorno al capo la capigliatura folta ancora ma bianchissima gli faceva come un'aureola di candore. Vegeto e robusto della persona, a dispetto de' suoi ottant'anni camminava dritto e sollecito; vestiva abiti alla foggia pretesca, di panno grossolano, ma pulitissimi; le sue grosse scarpe splendevano per la fibbia d'acciaio sempre lucida come uno specchio. Aveva quasi sempre seco due compagni fedelissimi: la sua mazza di giunco col pome rotondo di falso avorio e Moretto, il terzo o il quarto d'una dinastia di cani volpini che si erano succeduti nell'affezione del buon parroco, nella fedeltà al padrone e nell'ufficio poco gravoso di custodire la canonica, efficacemente difesa senz'altro dall'amore e dalla venerazione di tutti i terrazzani. Questi due compagni Don Venanzio aveva ora lasciati nell'anticamera, il bastone in un angolo e il cane accovacciatovi presso coll'intimazione fattagli a dito indice alzato di non muoversi di là, fino al ritorno del padrone.

Il nostro buon sacerdote, insomma, era l'incarnazione la migliore e la più compiuta dell'accoppiamento d'una mente sana e d'una coscienza tranquilla in un corpo sano, ideale della personalità umana.

Il marchese, che era rimasto in piedi, fece per quel povero prete di campagna – un plebeo ancor esso, vivente in mezzo ai bifolchi – ciò che la sua dignità e la sua autorevolezza non l'avevano avvezzo a fare nemmeno pei più titolati e superbi maggiorenti dello Stato, gli mosse all'incontro colla mano tesa, un sorriso di vera cordialità sulle labbra.

– Eh buon giorno Don Venanzio, diss'egli: sia il benvenuto tra noi.

Don Venanzio toccò la mano che gli veniva porta così amichevolmente, e lo fece con rispettosa deferenza, ma insieme con franchezza, senza suggezione.

– Eccellenza: disse, mentre il marchese tenendolo per mano lo conduceva verso il camino e gli additava una poltroncina in faccia a quella da cui egli s'era alzato poc'anzi; Eccellenza, sono venuto a chiederle una grazia.

Baldissero sorrise con aria che non dinotava voglia alcuna di rispondere con un rifiuto.

– Ah! le grazie che Lei dimanda so già quali sono; si tratta di aiutarla a fare un po' di bene a qualche povero disgraziato.

– Eh! press'a poco… è qualche cosa di simile: disse il buon parroco con tutta ingenuità aggiustandosi nella poltrona, mettendo il suo tricorno sulle ginocchia, incrociando le mani sul cappello e guardando in volto il marchese coi suoi occhi limpidi e schietti come una fontana di montagna. Le ho detto subito l'affar mio, da quell'impaziente ch'Ella sa… che quando ho in capo qualche cosa che mi preme, non c'è verso che io possa indugiare a tirarla fuori… Ma ora, mi permetta, Eccellenza, che le domandi notizie della sua salute e quelle della cara madamigella Virginia… e del contino Ettore e del cavaliere Edoardo e del cavaliere Amedeo… ed anche della signora marchesa.

Baldissero sorrise alla poca diplomazia del buon prete, che a dispetto d'ogni convenienza gerarchica faceva passare innanzi nell'ordine della sua rassegna quelle persone che più lo interessavano.

– La ringrazio, stiamo tutti bene: rispose. Edoardo ed Amedeo sono nell'Accademia militare. Ettore e Virginia e mia moglie la li vedrà fra poco, poichè Ella è nostro ospite…

Don Venanzio fece un cenno come per iscusarsi.

– Oh la è cosa intesa… e ne la prego: insistette il marchese. Ma veniamo tosto a quello che è il vero motivo della sua venuta, la buona opera ch'Ella ha bisogno di fare.

– La buona opera la deve far Lei: disse con tutta semplicità Don Venanzio. Si tratta d'un giovane per cui sono già venuto a supplicarla altre volte… parecchi anni sono… e quasi per un motivo identico… un povero trovatello allevato nel mio villaggio.

Il marchese prestò una viva attenzione e parve raccogliersi per iscrutare nella sua memoria.

– Un trovatello allevato nel villaggio? diss'egli con molto interesse: e lo si chiama?

– Maurilio Nulla.

A questo nome il marchese non nascose un certo moto di sorpresa.

– È strana, diss'egli: quell'individuo di cui Ella mi parla, è probabilmente il medesimo del quale stavo adesso occupandomi… Maurilio Nulla: sì, è lo stesso nome; trovatello: è la condizione sua di cui egli si lamenta…

Prese sulla mensola marmorea del camino lo scartafaccio che vi aveva deposto e lo porse al parroco, soggiungendo:

– Conosce Ella la scrittura di quel suo protetto?

– Signor sì.

– Ebbene, guardi se la è questa.

– Appunto.

Il marchese stette un momento sovra pensiero.

– Ella mi disse avermi parlato altre volte di codestui.

– Sì signore: quattro o cinque anni sono.

– Aiuti un poco la mia memoria; mi par bene d'averne un barlume di ricordo, ma non posso afferrare nulla di preciso.

– Questo giovane era stato arrestato sotto l'imputazione d'un delitto del quale io, conoscendolo per bene, lo sapevo assolutamente incapace. Son venuto ad invocare per esso la protezione di V. E., e grazie a questa potè venire scoperta la sua innocenza.

– Ah! ora mi sovvengo del tutto: esclamò il marchese. Uscito di carcere, stato ammalato all'ospedale, quel giovane privo di mezzi mi fu da Lei raccomandato perchè gli trovassi alcun impiego delle sue facoltà, ch'Ella diceva straordinarie, ed alcun guadagno dell'opera sua. In grazia di quel talento ch'Ella mi vantava… in grazia di quello strano suo nome… voglio dire delle circostanze in cui quel tale si trovava, avevo deciso di accoglierlo io stesso come una specie di segretario; ma egli non si presentò mai da me, e parve che cotal condizione troppo non gli sorridesse.

– Fu in causa d'un amico: disse il buon Don Venanzio mortificato, come se egli avesse da scusarsi di una colpa; mentre io supplicava per lui da V. E. un impiego nella sua casa, quell'amico lo allogava altrove, ed egli che nulla sapeva di quanto io stava tentando, accettava senz'altro.

– Sta bene… Mi ricordo che Lei così mi ha detto anche allora… Ma adesso, entrando, signor parroco, mi ha fatto intendere che la veniva a domandarmi per codestui la medesima cosa che mi chiese la prima volta che le toccò di parlarmene. Ella dunque sa che il suo protetto fu arrestato; e ne sa Ella eziandio la cagione?

– Sì, Eccellenza. Vengo adess'adesso dalla casa dove quel giovane abita. Io gli voglio bene, sono io che l'ho educato, posso dire; gli ho insegnato tutto quel poco ch'io so…

Il marchese lo interruppe in gentil guisa con un sorriso leggermente malizioso:

– Mi rallegro con Lei. Tutte le belle teorie politiche e sociali che si contengono in quel manoscritto è dunque Lei che glie le ha ispirate?

Don Venanzio tornò a confondersi in una nuova mortificazione.

– Ah! rispos'egli, io gli ho appena appena mostrato a spiegar l'ali; quando fu in grado di volare, il suo volo era più alto e potente del mio, perchè io potessi accompagnarnelo e dirigerlo ancora…

– Badi che quel giovinotto è tentato dalle ambizioni d'Icaro e corre rischio di fare un dì il capitombolo medesimo.

Il parroco si curvò nelle spalle, chinò la testa ed allargò le mani in una mossa di cordoglio e di rassegnazione:

– Eh lo so bene: disse: ma spero nell'aiuto di Dio che lo salvi… La Provvidenza che gli ha dato tanto ingegno non vorrà che questo torni nocivo o si consumi inutile. In fondo poi alla sua natura, sotto vivaci e frementi passioni che possono volgerlo al male, ci sono delle generosità quasi istintive che sono capaci di miracoli di bene… Dunque io l'amo quel giovane; e forse appunto l'amo tanto più in quanto che vedo i pericoli di perdersi in mezzo a cui cammina, e sarei fiero che Iddio adoperasse la mia pochezza per ricondurlo sulla buona strada, su quella del vero.

Arrossì come persona che si accusa d'un fallo.

– È certo soverchia vanità la mia, soggiunse, ma parecchie volte il Signore, appunto per dimostrare la potenza e l'efficacia della verità, usa de' più deboli strumenti per farla trionfare. Maurilio ha studiato molto, si è istruito assai della scienza terrena, ma tuttavia spero ancora che la mia ignoranza col rincalzo della fede possa aprirgli un giorno gli occhi sulle cose del mondo superiore. Ogni qual volta io capito a Torino, vengo a vederlo; talvolta non è che per quest'ultima ragione ch'io abbandono la tranquilla casetta del mio villaggio e casco giù a farmi toglier la testa nell'assordante confusione di questo viavai cittadino; e la presente è appunto una di quelle volte. Ho avuto come una specie d'istinto che quel poveretto doveva aver bisogno di soccorso; è il mio buon Angelo custode che me ne ha ispirata l'idea. Insomma da parecchi giorni avevo un gran bisogno di vederlo, e questa mattina non ci ho più resistito ed a dispetto della stagione e del cattivo tempo sono venuto. Alla sua abitazione, la signora Rosina (è la padrona del quartiere dove Maurilio dimorando in compagnia di alcuni amici, appigiona una camera ammobigliata), la signora Rosina mi raccontò tutto ciò che è avvenuto questa mane e di cui vedo V. E. essere già informata.

– Sì: il suo protetto fu arrestato come congiurante contro l'attual forma di Governo e contro la sicurezza dello Stato.

– Misericordia!.. Può dunque essere un affar serio?

– Se l'accusa viene provata, serio assai.

– Ma benedetta la pace! Come lo Stato e il Governo possono aver da temere di un misero giovane, senza aderenze, senza mezzi di sorta?..

– E l'ingegno? Quell'ingegno ch'Ella stessa Don Venanzio riconosce in lui superiore? Codesta è una forza contro cui ogni Governo deve con cura guardarsi. L'intelligenza dissemina i principii e sparge le idee: e queste e quelli, quanto più sono perniciosi, tanto più rapidamente attecchiscono e crescono come fanno le male erbe nei campi. Se si può arrestare la mano che getta i cattivi semi nei solchi non è egli miglior cosa che dover dipoi strappare le cattive piante già nate? E inoltre: guardi! In queste sue pagine ch'io stava appunto leggendo, quel giovane medesimo esalta a buon diritto la potenza dell'associazione. Un individuo solo potrà nulla o poco, per quanto abbia forza di mente; ma lasciate che a lui si uniscano parecchi, ed avrete ogni difficoltà a spezzarlo. Questo cotale è unito, a quanto pare, ad una schiera di giovani audaci che aspirano niente meno che ad un sovvertimento sociale.

Don Venanzio, spaventato, esclamò guardando il marchese con occhi pieni di supplicazione:

– Dio buono! Le cose sono sì gravi!.. Ed Ella, signor marchese, rifiuta di dar la sua protezione?

Baldissero levò la mano destra con mossa piena di nobiltà e di grazia, e disse con quel suo sorriso aristocratico:

– Non ho detto codesto, e non lo dico… Sono anzi molto disposto a favorire il suo raccomandato. Ho scorso alcune di quelle sue pagine di scritto. C'è molto ingegno davvero! Un'intelligenza sviata che ha mestieri d'essere ricondotta fra le guide dei buoni principii dall'esperienza e dall'autorità d'una mente più matura. Ho una grande curiosità, che non mi so spiegare, di veder codestui e parlargli. Non penso neppure che il male sia poi tanto grave come apparve alla Polizia: forse c'è più imprudenza di giovinotti che altro; ho già preso l'impegno di parlare di ciò a S. M. io stesso: e se il Re porta su questo incidente un giudizio compagno al mio, spero che il suo protetto e quegli altri che partecipano ora la medesima sorte, saranno quanto prima restituiti alla libertà.

– Benedetta Lei!..

– Ma frattanto non mi spiacerebbe, caro Don Venanzio, d'avere da Lei alcuni maggiori ragguagli sul conto di questo giovane. Ella me ne ha discorso un tempo, ma, confesso sinceramente che ho tutto obliato.

Il parroco raccontò ciò che sapeva di Maurilio; ed il marchese ascoltò con attenzione, e sollecitò per avere i più minuti particolari con sì minute domande che appariva metter egli in codesto un vivissimo interesse, quale Don Venanzio non avrebbe mai supposto potesse avere.

Di questa guisa il parroco fu tratto a dire di quegli oggetti che erano stati trovati addosso all'esposto bambino: la lettera scritta da mano di persona del volgo, il rosario d'agata e il bottone da livrea; cose di cui la prima volta che aveva fatto cenno di Maurilio al marchese, non era nato il caso di parlare.

– Ma codesto, disse il Baldissero, è un filo che può guidare allo scoprimento delle origini di quel giovane. Si può sapere, per esempio, a qual famiglia appartenesse la livrea di cui fece parte quel bottone d'argento…

– Ho bene sperato ancor io che ciò varrebbe a pormi in su alcuna traccia del vero, ma inutilmente: così disse Don Venanzio. Una volta, e son già di molti anni, e Maurilio, ancora fanciullo, se ne viveva presso i villani che l'avevan raccolto, venendo a Torino recai meco e il bottone e il rosario, sperando col primo scoprire la famiglia che aveva lo stemma impresso su quel bottone, e raccogliendo informazioni intorno ad essa tentare se mercè quel rosario e quella lettera si fosse potuto venire a capo di qualche cosa.

– Ebbene?

– Ebbene appresi che quello era lo stemma della famiglia de Meyrat, estinta da tempo, il cui ultimo rampollo anzi morì nelle guerre dell'impero. Ora siccome sono ventiquattro anni appena che il lattivendolo Menico trovò Maurilio abbandonato…

– Ventiquattro anni! esclamò il marchese come se dèsse una certa importanza alla misura di questo tempo. Quel giovane ha dunque ventiquattro anni?

– O poco più, perchè veramente quando Menico lo trovò poteva già contare parecchi mesi, ma insomma non può avere a niun modo più di venticinque anni, e la famiglia de Meyrat non ha più avuto esistenza dal 1813.

– È vero, interruppe il marchese, l'unica ragazza, che sopravvisse al colonnello morto a Lipsia, morì monaca a Ciambery.

– Era dunque impossibile avere in proposito nessuno schiarimento, com'è impossibile che Maurilio abbia alcuna attinenza con quella famiglia.

Baldissero appoggiò il gomito al bracciuolo della poltrona, e sostenne il capo colla mano destra in mossa profondamente riflessiva.

– Quando i lontani collaterali che presero l'eredità dei de Meyrat ne liquidarono la successione, la maggior parte delle loro sostanze fu comperata dal signor La Cappa, ora barone; in quelle negoziazioni ebbe molta parte un uomo che servì pur anche la mia famiglia, Nariccia; non sarebbe forse inopportuno consultare quest'uomo.

Pronunziando il nome di Nariccia, il marchese ebbe un interno sussulto; si tacque, ma la sua riflessione si fece ancora più profonda. Chi avesse potuto guardargli nel cervello, vi avrebbe letto questi pensieri:

– Nericcia! Egli fu di cui si servì mio padre per togliere a mia sorella il figliuolo… Bene giurò egli che quel bambino era morto; e se invece… Ma codeste mie sono vere pazzie… Perchè avrebbe egli mentito?.. E costui che la fatalità mi mena innanzi con quel nome di Maurilio, come potrebbe esser mai quel bambino, mentre non ha che ventiquattro anni, e sono ventisei che quella tragedia è avvenuta?.. E poi che cosa ci avrebbe da entrare il bottone della livrea dei de Meyrat?

Si passò la mano su quella sua leggiadra fronte come per ispazzarne via i torbidi e folli pensieri, e riprese parlando a Don Venanzio:

– L'importante per prima cosa è di ottenere la libertà del suo raccomandato. E ciò tenterò tosto. Fra poco mi recherò a Corte e parlerò a S. M. Quando quel giovane sia libero, voglio vederlo, voglio parlargli e confidenzialmente ed a lungo… E se vi ha luogo, faremo anche le ricerche occorrenti per iscoprire l'esser suo.

Un lieve grattare all'uscio annunziò di nuovo che alcuno domandava d'entrare: al permesso datone dal marchese venne il solito domestico, che annunziò:

– Il cavaliere Massimo d'Azeglio chiede di parlare a V. E.

Don Venanzio s'alzò in tutta fretta.

– Io la lascio in libertà, signor marchese, disse egli premurosamente quando appena Baldissero ebbe dato ordine al domestico d'introdurre il d'Azeglio.

– Caro Don Venanzio; rispose il marchese: Ella è nostro ospite già ci s'intende. Frattanto che io avrò il colloquio con questo signore che s'è fatto annunziare, passi di là da mia nipote Virginia a cui sarà un gran piacere il vederla.

– Quella cara fanciulla! esclamò il vecchio prete con accento di ossequenza affettuosa: per me sarà un favore l'esserne ricevuto.

Il domestico aveva riaperto l'uscio, ed entrava l'alta e simpatica persona di Massimo d'Azeglio.

Don Venanzio s'inchinò profondamente ma senza servilità innanzi al marchese, s'inchinò passando daccanto al nuovo venuto che s'avanzava, ed uscì col domestico che richiuse il battente dell'uscio.

Baldissero, senza abbandonare la poltrona, si volse verso il visitatore e fece col capo un cenno di saluto gentile sì, ma in cui pur tuttavia era una lieve traccia di riserbo, una tinta di autorevolezza da superiore.

Massimo, egli, salutò con quella spigliatezza elegante che gli era naturale, in cui s'accordavano la grazia del gentiluomo e la libertà dell'artista.

– La riverisco signor marchese.

Questi gli accennò la poltrona da cui s'era levato allor'allora Don Venanzio.

– Buon giorno cavaliere. Godo di vederla.

Nessuno dei due offrì all'altro la mano. D'Azeglio sedette e fissando il suo occhio limpido e intelligente sulla nobile figura del marchese, con un sorriso de' più simpatici rispose inchinando leggermente la testa:

– La ringrazio. La mia venuta non la stupisce?

– No; sapevo che Lei era venuto a Torino dopo sì lunga assenza, ed ho avuto la superbia di lusingarmi ch'Ella non avrebbe affatto dimenticato un vecchio amico della sua famiglia.

– Dimenticato, no certo… Sarei venuto ad ogni modo a riverirla; ma pure, se mi vi sono recato così sollecito… Lei sa come uno dei miei pochi pregi è quello d'essere sincero… si è perchè, oltre il piacere di vederla, avevo da chiedere alla sua protezione un favore.

Baldissero tirò indietro la testa fino ad appoggiarla alla spalliera della poltrona, e guardando con occhio urbanamente scrutativo il suo interlocutore, disse:

– Udiamo questo ch'Ella dice favore. Se la è cosa ch'io possa, faccia conto già fin d'ora come se vi avessi assentito.

Massimo tornò ad inchinarsi.

– Come Ella sa, io mi sono fatto artista…

– E letterato: aggiunse il marchese con un sorriso e con un tono che difficilissimo il dire se erano un complimento od una finissima ironia.

– Letterato è un termine troppo ambizioso, che non ardisco adoperare: disse Azeglio con accento e con sorriso pari a quelli del marchese: scarabocchiatore di tele e di carta, sissignore… Basta: l'artista non ha mica escluso in me il cittadino: anzi!.. Ho girato ed abitato varie parti d'Italia; ho imparato a conoscer meglio e ad amare di più la nostra nazione; ma non ho nemmanco cessato o sminuito di amare specialmente questo nostro angolo di terra, il Piemonte. Tornato per poco tempo a questo mio paese natìo, ho ricondotto qui non tanto l'artista, quanto il cittadino… L'ambiente di questo paese, anche dopo l'intelligente protezione data all'arte da Carlo Alberto, è ancora più propizio alle maschie virtù dell'amor patrio che non alle blandizie del culto del bello. Ho pensato di molte cose che mi furono suggerite dalla conoscenza che ho acquistata delle condizioni d'Italia, di molte cose che mi sembra avrebbe a tornare non inutile pel bene e d'Italia e del Piemonte stesso e della nostra monarchia di Savoia, che qualcuno sottomettesse all'apprezzamento del nostro Re, e mi sono detto che questo qualcheduno potrei essere io medesimo. È per ciò che sono venuto a pregarla, marchese, di farmi ottenere un'udienza il più sollecitamente che sia possibile da S. M.

Baldissero stette un momento in silenzio guardando d'Azeglio con quel suo sguardo cortesemente scrutatore, come se cercasse scorgere nell'animo di chi gli aveva parlato, o meditasse seco stesso quali potessero essere le cose che quel nobile fattosi liberale intendeva dire a Carlo Alberto, principe che in giovinezza aveva manifestato velleità liberali ancor egli; ma poi, come ravvisatosi e quasi pentito del piccolo indugio frapposto alla risposta, disse sollecitamente e con urbana condiscendenza:

– La ringrazio d'essersi rivolta a me per codesto. Quest'oggi stesso avrò l'onore di vedere S. M. e non dubito che mi sarà dato di farle una risposta quale Ella desidera.

Massimo fece un cenno del capo che era un ringraziamento; e Baldissero corrispose con un atto della mano che significava: è mio dovere. Stettero un momento in silenzio, come non sapendo qual discorso avviare, e fu il marchese che dopo un poco ricominciò a parlare.

– Conta Ella fermarsi alquanto tempo a Torino?

– Pochissimo. Fra due o tre giorni ripartirò per continuare la mia vita nomade d'artista traverso le città italiane.

– Ella dunque ha perso ogni affezione a questo nostro vivere torinese?

– Amo sempre questa città come il mio luogo natio; e trovo ch'essa potrebbe essere il più gradito soggiorno del mondo.

– Potrebbe essere? ripetè sorridendo il marchese.

– Signor sì: ribattè vivamente d'Azeglio; e non contraddico menomamente la giusta interpretazione che il suo sorriso dà alle mie parole. Potrebbe essere, ma non è tale per molte ragioni che qui non è il caso d'esprimere…

– E sulle quali forse, aggiunse Baldissero, noi non andremmo facilmente d'accordo.

Massimo annuì con un cenno.

– Che cosa vuole? Riprese egli poi. Sono io che mi sono guasto. La vita spigliata e libera che ho intrapresa, mi fa restare disagiato alle stampite di questa grave e severa monotonia regolata. Gli è come un buon pastricciano di campagnuolo che avendo calzato sempre abiti larghi ed alla buona, lo si voglia poi far rinserrare le membra nel vestito stretto e il collo nella cravatta allacciata delle foggie cittadinesche di rispetto.

– Tutto sta, disse il marchese continuando in quella urbanità sorridente e un po' maliziosa: tutto sta a sapere se meritino preferenza i modi del campagnuolo o quelli del cittadino.

– È una questione che si può risolvere sotto varii rispetti: rispose l'Azeglio con un'espressione che significava chiaramente declinar egli ogni volontà di discutere col suo nobile interlocutore. Rapporto a me confesserò che la risoluzione adottata è l'effetto dell'egoismo; mi trovo meglio in un modo che nell'altro… Ma Ella sa bene, soggiunse allegramente, che i Taparelli ne hanno tutti un ramo.

– Quell'originalità d'ingegno e di carattere che Ella battezza così poco rispettosamente, ha fatto di tutti i Taparelli degli uomini superiori che hanno servito con gloria il re ed il paese.

D'Azeglio s'inchinò in segno di riconoscente ringraziamento.

– È una bella consolazione per un uomo di merito l'aver dietro di sè ne' suoi antenati tanti valenti uomini da imitare.

– Ciascuno dà quello che ha. Avrei voluto, vorrei benissimo poter dare in me alla patria un uomo di Stato, un valente guerriero, un abile diplomatico: venga l'occasione e tutto quel poco che so, che sono e che valgo, metterò in servizio del mio paese. Per intanto non ho potuto dar altro ai miei concittadini che un meschino artista ed un meschino scrittore. Mi sono scrutato, come dice la Scrittura, le reni, e non ho trovato in me stoffa da personaggio di vaglia.

– Suo padre l'aveva avviata per la carriera militare: disse vivacemente il marchese abbandonandosi alla piega confidenziale che aveva preso il discorso. È una delle più belle, delle più utili al paese, delle meglio fatte per un nome qual è il suo, per una natura irrequieta…

– Come la mia: aggiunse d'Azeglio sorridendo, mentre Baldissero aveva troncato la parola per non dirlo egli.

– Bene; come la sua: ripetè scherzosamente il marchese. Perchè abbandonarla?..

S'interruppe: prese un'aria più grave, ma in pari tempo più affettuosa, quasi paterna.

– Mi perdoni, soggiunse, l'entrare in siffatti discorsi. Da tempo la mia famiglia è avvinta con vincoli di stima e d'affetto alla sua; i nostri avi combatterono sempre a fianco; di suo padre, il marchese Cesare, fui amico quasi intimo, e mi onoro nel ricordare la reciproca affezione che ci univa. Tutto ciò mi serve, se non di diritto, di scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.

– La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.

– Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.

– E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate… Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia… Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.

– Ma Ella non sa vedere via di mezzo – e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! – fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi… sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.

– Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?3.

Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:

– Ah che testa, che testa!.. Non la si correggerà mai più.

– Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.

– Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?

Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.

Massimo si alzò in piedi, accostò la sua alta persona alla parete, armò i suoi occhi miopi delle lenti ed esaminò attentamente l'oggetto additatogli.

– Molto bello: diss'egli poi; e sta qui prova con tutto il resto, come V. E. rechi in ogni cosa il più severo e intelligente buon gusto.

– Ah ah! esclamò piacevolmente il marchese: io scopro in lei un difetto che non avrei creduto mai più: quello d'essere adulatore.

– È un difetto che non mi sono mai scoperto neppur io: rispose D'Azeglio. Poi prese congedo: allora il marchese gli porse la mano.

– D'oggi stesso le farò una risposta circa la sua domanda d'udienza da S. M. Dove glie la debbo indirizzare?

Massimo diede il suo indirizzo all'albergo Trombetta e partissi.

Meno di mezz'ora dopo il marchese di Baldissero trovavasi in presenza di S. M. il Re Carlo Alberto, nella reggia ricca e severa di Torino.

3

Espressione testuale dell'Azeglio.

La plebe, parte III

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