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CAPITOLO TRE

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Fu più difficile andarsene di quanto Mackenzie si aspettasse. Non aiutava il fatto che suo marito fosse ingessato da poco e che la madre di Ellington non fosse ancora arrivata quando lei dovette uscire dalla porta. Kevin stava misericordiosamente facendo il suo pisolino pomeridiano. Sapeva che avrebbe dormito per almeno un'altra ora e che per allora la suocera sarebbe stata lì. Eppure, le sembrava di abbandonare la sua famiglia. Aveva provato qualcosa di simile quando era partita per l'ultimo caso, ma questa volta ci stava male. Stavolta era più consapevole del proprio ruolo di madre e conosceva il senso di unità di cui lei ed Ellington erano capaci.

“Andrà tutto bene” le assicurò Ellington accompagnandola alla porta. “Mia madre è fin troppo opprimente. Si prenderà fin troppa cura di Kevin. E di me. Oddio, le piacerà troppo. Potrebbe non volersene più andare.”

“Questo non aiuta.”

Ellington la baciò teneramente sulle labbra. Si era abituata un po' troppo a quei baci, negli ultimi mesi. Qualcuno avrebbe detto che era diventata viziata.

“Vai” disse Ellington, guardandola negli occhi con profondità e passione. “Perditi nel lavoro per un po'. Penso che te lo meriti. Noi saremo qui ad aspettarti, al tuo ritorno.”

Le diede una pacca sul sedere, per smorzare a modo suo la serietà che gli si era insinuata nella voce. Entrambi si amavano ferocemente ed entrambi lo sapevano. Ma nessuno dei due, in particolare Ellington, era mai stato particolarmente bravo ad esprimerlo.

Si scambiarono un ultimo, rapido bacio e Mackenzie si ritrovò fuori dal loro appartamento, con la porta chiusa alle spalle. Aveva con sé solo un trolley, abbastanza piccolo da poter essere considerato un bagaglio a mano, e nient'altro. Si avviò lentamente verso l'ascensore, sapendo di essere più che pronta a tornare al lavoro, ma già sentendo la mancanza della sua famiglia.

***

Provò a guardare un film sull'aereo ma, con sua grande sorpresa, si addormentò quindici minuti dopo. Quando si svegliò all'annuncio del pilota che stavano iniziando l’ultimo atterraggio a Seattle, aveva la sensazione che le fosse stato rubato del tempo, in qualche modo. D'altra parte, non era sicura dell'ultima volta in cui era riuscita a godersi un vero e proprio pisolino. Anche se era stato su un aereo, era stato piacevole.

Si chiese se il senso di colpa che provava nel godersi il pisolino provenisse dal settore maternità, dal settore moglie, o se fosse un misto di entrambi.

Quando l'aereo atterrò erano le 20:31, ora locale, e il cielo era coperto. Il suo volo era partito da Washington con un ritardo di circa un'ora e mezza, facendola arrivare a Seattle ad un'ora che la costrinse a prendere in considerazione l'eventualità di aspettare ad agire fino al giorno successivo.

Parlò con il vicedirettore dell'ufficio di Seattle, il quale le disse che avrebbe incontrato l'agente che l'avrebbe assistita sulla scena del crimine come prima cosa il mattino seguente. Le diede il nome dell'agente – agente Ryan Webber – e le chiese se avesse tutte le informazioni aggiornate. Lei confermò di aver ricevuto i fascicoli dal direttore McGrath a Washington, e aveva tutto pronto prima ancora di caricare la valigia sul sedile posteriore della sua auto a noleggio.

In uno strano modo che non riusciva a definire, quando mise in moto l'auto provò un senso di libertà che non provava da quando aveva partorito Kevin. Si rese conto che, forse, poteva davvero farcela; forse poteva riuscire a bilanciare la sua carriera e la sua famiglia. Traboccava di eccitazione (e forse anche di ansia, ma del tipo positivo) all'idea di cominciare le indagini del caso, ed era piuttosto perplessa per il fatto di dover aspettare fino al mattino. Ma desiderava anche che Ellington fosse lì con lei. Immaginò che Tom Brady si sarebbe sentito così in un'altra squadra, essendo allenato da qualcuno che non fosse Bill Be-

Ossignore, sono stata troppo tempo con E, pensò, troncando quel paragone sul nascere, anche se in realtà non poteva fare a meno di sorridere.

Con quel pensiero in mente, si ritrovò ansiosa di andare in un albergo per poter fare una videochiamata con FaceTime a Ellington e Kevin.

Prima però doveva fare l'agente. Era incredibilmente strano doverselo ricordare. Mentre si recava al parcheggio dell'autonoleggio, con le chiavi in mano, guardò tra i documenti che McGrath aveva inviato e chiamò il numero dell'ufficio di Seattle.

Sapeva che aveva anche i fascicoli del caso da esaminare. Aveva ricevuto alcune e-mail da McGrath e dal suo assistente, dove la informavano che tutto ciò che le serviva sarebbe stato nella sua casella di posta elettronica entro le sei del pomeriggio, fuso orario orientale. Era altrettanto entusiasta di potersi buttare sui dossier, per avere una visione d'insieme del caso prima di parlare con qualcuno. Era il suo modo preferito per ottenere i dettagli di un caso, raccogliendo tutte le informazioni senza l'influenza o il suggerimento di nessun altro.

Fece il check-in in un motel a dieci chilometri dall'aeroporto e non perse tempo. Prima ancora di aprire la valigia, si sedette sul letto e videochiamò Ellington. Lui rispose quasi subito, riempiendo lo schermo con la sua faccia. Anche Kevin era parzialmente sullo schermo, in bilico sulle ginocchia di Ellington. Kevin era però più interessato a osservare il mento del padre, che a guardare il telefono.

“Ehi, ragazzi. Ce l'ho fatta. Sono qui.”

“Bene. Anche noi siamo qui. Sto per mettere a nanna l'ometto. Gli ho permesso di rimanere alzato più tardi del solito per poterti vedere, ma... beh, come puoi vedere, ha questioni più urgenti con il mio mento.”

“Kevin... ehi, piccolo.”

Lentamente, suo figlio si guardò intorno e vide il suo volto sullo schermo. La sua boccuccia si aprì in un sorrisetto e agitò le manine verso il telefono.

“Ecco fatto. Dai la buonanotte alla mamma.”

Il resto della conversazione durò circa cinque minuti, e fu, secondo Mackenzie, probabilmente la conversazione più banale e sdolcinata che avesse mai avuto. Ma quando terminò la telefonata, si sentì appagata. Si sentiva piena di energia, come se fosse in grado di affrontare qualsiasi cosa le indagini le avessero messo davanti.

Pensando al caso, accese il portatile e allestì una piccola postazione di lavoro. Ordinò del cibo cinese, prese una bibita dal distributore automatico di bevande in fondo al corridoio e si mise a studiare per qualche ora i fascicoli. Non c'erano tante informazioni come invece si aspettava, ma quello che vide era abbastanza brutto da far sembrare di cattivo auspicio la pioggia che aveva preso a cadere fuori.

Le vittime erano due, entrambe uccise in modo quasi identico. La differenza principale tra i due omicidi era che il più recente era avvenuto lì a Seattle, mentre l'altro era stato commesso a Portland, in Oregon. Le due città si trovavano a meno di tre ore di distanza l'una dall'altra, quindi non era poi così insolito, soprattutto se si considerava che gli omicidi erano avvenuti a quattro giorni di distanza l'uno dall'altro.

La scena più recente si trovava in un parcheggio situato a circa otto chilometri da dove attualmente si trovava Mackenzie, a leggere i fascicoli. La vittima era Sophie Torres, 23 anni, cameriera e modella part-time. La prima scena era in un piccolo parco pubblico a Portland. La vittima, Amy Hill, era stata trovata in una piccola fontana. Come Sophie Torres, era stata chiaramente colpita in faccia con un oggetto pesante, ma all'inizio non era chiaro se fosse morta per i colpi o per l’annegamento, poiché l'autopsia aveva effettivamente evidenziato segni di annegamento.

Mackenzie buttò giù alcuni appunti, allineando le somiglianze e le differenze di ogni morte. Le somiglianze erano, naturalmente, più evidenti. Entrambe le vittime erano giovani donne, entrambe considerate molto belle dalla maggior parte degli uomini. Erano state colpite in faccia, le ferite e i lividi erano identici in ambo i casi. Stando ai fascicoli, la Scientifica aveva ipotizzato che in entrambi gli omicidi fosse stato usato un martello. A causa della bizzarra scelta dell'arma e dell'età e del sesso delle vittime, questo era visto come opera dello stesso assassino.

Se le morti fossero state nella stessa città, Mackenzie non ne avrebbe dubitato affatto. Ma le tre ore di distanza tra le città e il fatto che Sophie Torres fosse stata uccisa appena fuori dalla sua auto le davano da pensare.

Una volta lette tutte le informazioni a sua disposizione (e terminata la sua cena a base di pollo all'arancia e Pepsi), tornò a leggere i suoi appunti. Non c'era abbastanza per stabilire un profilo sensato, quindi l'indomani avrebbe dovuto approfondire la questione. Le e-mail di McGrath dicevano che sarebbe stata in coppia con un agente dell'ufficio di Seattle e che avrebbe dovuto incontrarlo sulla scena del crimine più recente alle 8:00 del mattino. La cosa le dava fastidio, ma lo capiva. Sperava solo di essere in coppia con qualcuno che non fosse testardo e che non si opponesse a lei solo perché veniva da Washington DC.

Con tutti quei pensieri in mente, decise di dichiarare conclusa la serata. Si fece una doccia e andò a letto poco prima delle 23:00. Con così tante cose in testa, però, non riuscì ad addormentarsi fino a dopo mezzanotte. In quel lasso di tempo, quasi si aspettava di essere svegliata dal pianto di Kevin, dato che si svegliava ancora almeno una volta a notte, con il pannolino bagnato.

Ma la stanza d'albergo rimase silenziosa, l'unico rumore proveniente dalla pioggia battente all'esterno. Alla fine si appisolò, solo un po' scoraggiata dal lato vuoto del letto accanto a lei. Certo, le mancava Ellington, ma di tanto in tanto pensava che facesse bene al corpo distendersi. Quando finalmente si addormentò del tutto, dormì profondamente e, per la prima volta in circa otto mesi, dormì per tutta la notte.

Prima Che Insegua

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