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III

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Durante l'estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari.

Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull'imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.

Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un'ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.

Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.

Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall'accusa fissava tanto d'occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.

Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino.

Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l'aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.

– Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.

– Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c'è qualche cosa che prenda fuoco.

– Sono delle vostre solite idee!.. io non sento niente… non c'è niente.

– Eppure c'è qualche cosa di bruciato! insisteva l'altro, andiamo a vedere.

Il capitano s'impazientava, montava in collera, lo accusava d'essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l'obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.

Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d'uomo ostinato, fino alla cocciutaggine.

Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo.

– Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto!

Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c'era il minimo odore di fumo.

Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.»

Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno.

C'era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non eccitare sospetti.

Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato il suo bravo sonetto per le nozze dell'amico, nel quale non mancò di rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa (che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno dell'occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere il permesso di stamparlo.

Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli diede una solenne lavata di testa, e gli osservò:

– Anche senza badare all'indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di chiamare l'Italia una nazione? dove vede la nazione?.. mi dica…

Il maestro tutto confuso gli rispose:

– Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione. Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone.

– Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu nemico dell'Austria?..

– Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l'Imperatore!..

– Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di Stato… e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno.

E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche parole:

– Si tenga per avvertito!

Il maestro Zecchini uscì dall'ufficio di Censura annichilato.

Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta, che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione.

Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a domandargli consiglio.

– Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di sottomettere i vostri concetti alla censura, avete commesso una asinaggine gettandovi volontariamente in bocca al lupo. Non sapete che a Milano hanno soppresso il Conciliatore? che hanno chiuso le scuole di mutuo insegnamento?.. Vi siete cacciato in un vespaio… potreste essere arrestato.

– Ma io non ho fatto niente!..

– Appunto per questo siete in pericolo. Tutti quelli che furono arrestati in questi giorni non hanno fatto niente… qualche leggerezza, qualche imprudenza, qualche fanciullaggine come la vostra; ma saranno condannati, perchè coloro che agiscono seriamente, sanno farlo colle dovute precauzioni, e l'Austria ne prenderà pochi. I generali muoiono raramente in battaglia, sono i semplici gregari che pagano per tutti. Ma pazienza che voi andiate in prigione, il peggio si è che compromettete gli amici con la pazzia dei sonetti, che non servono a niente. Non siete uomo da esporvi alle conseguenze d'un atto coraggioso, la vostra tempra frolla non vi permette di sfidare le crudeltà del dispotismo. Guai se vi manca ogni mattina il vostro caffè nero, e i calzerotti di lana l'inverno, il pancotto la sera, guai se vi togliessero l'aria e il sole dei campi, e vi chiudessero in un camerotto, colle balze agli stinchi per finire i giorni sul tavolaccio del carcere duro!..

Il povero Zecchini si coricò colla febbre, e battendo i denti andava borbottando la sua massima prediletta, come una giaculatoria in articulo mortis, e questa volta intendeva parlare di sè stesso, quando ripeteva con compunzione: – l'uomo è un asino, un asino, un asino!..

Gli volle molto tempo prima di ricuperare una discreta salute; e quando leggeva sulla Gazzetta di Venezia dei nuovi arresti, sentiva un brivido fra carne e pelle, gli pareva di vedersi in mezzo ai Carbonari, e se li figurava tutti neri, le vesti, il viso, e le mani, e faceva il più solenne giuramento di mai più esporsi a simili pericoli, e per evitare ogni occasione di compromettersi, non voleva più vedere nessuno, e non frequentava che una sola casa, quella del suo vicino, il capitano Bonifazio.

Intanto i processi di Milano e di Venezia continuavano le inchieste, e sempre nuove vittime cadevano in mano dell'Austria.

Il capitano Bonifazio e il colonnello Palanzo erano costretti di protrarre continuamente il matrimonio nell'interesse di Maddalena, perchè nè un fidanzato nè un padre potevano condannare una giovane sposa a vincolarsi per la vita con un uomo minacciato dalla prigione o dall'esilio. E attendevano silenziosi e cauti che fosse cessato il pericolo, cercando di giustificare il ritardo con facili pretesti, ammessi facilmente da chi non vedeva altri motivi.

Ma tutto non isfuggiva alla perspicace penetrazione delle donne; alcune parole colte a volo, alcuni fatti sospetti che coincidevano coi dolorosi avvenimenti del giorno le illuminavano abbastanza, da renderle rassegnate al destino, come ad una necessità ineluttabile.

Il più difficile per Bonifazio consisteva nel giustificare il ritardo delle sue nozze presso il maestro Zecchini, il quale s'interessava vivamente alla sorte dell'amico, trovava opportunissimo il matrimonio, si riprometteva dal medesimo una conversazione più geniale, e non poteva credere nè rassegnarsi ai pretesti che gli venivano presentati dal capitano come i veri motivi della prolungata dilazione.

E questo era nuovo argomento di dissenzione fra i due vicini, per le osservazioni noiose da una parte, e le risposte bisbetiche dall'altra.

Così passavano i mesi dolorosi pei fidanzati, pieni di angoscie per le famiglie, con maneggi segreti dei congiurati per stornare le minacce, e per disperdere tutte le prove compromettenti per coloro che erano liberi.

Tutto il 1821 trascorse nella caccia accanita degli inquisitori in cerca di congiurati, e nella somma destrezza dei capi della setta per sottrarre nuove vittime alla vendetta degli usurpatori, e alla insidiosa procedura di giudici arrabbiati per non poter cogliere nei loro tranelli che un numero assai limitato di Carbonari.

In febbraio 1822 il lungo processo degli arrestati era finalmente finito, e interessava ai capi di assistere alla lettura delle sentenze delle povere vittime, che si faceva sulla pubblica piazza.

A tale scopo il capitano Bonifazio partì per Venezia col suo domestico, potendo aver bisogno d'un uomo fidato, in quella dolorosa circostanza.

Era il 22 febbraio, una bella giornata serena, il sole rallegrava la laguna e illuminava le case e le botteghe in assetto di festa.

Mosè che ignorava il motivo del viaggio del padrone, essendo libero fino a mezzogiorno, chè a quell'ora doveva trovarsi in piazza, girovagò tutta la mattina intorno a Rialto.

Passeggiando per la pescheria si fermava davanti i banchi ad ammirare i pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, dal roseo al verde, dal bianco al bruno, tutti brillanti di squamme metalliche; e passando per l'erberia stava colla bocca aperta davanti le botteghe rigurgitanti di commestibili d'ogni genere, ornati di verdi fronde, e contemplava estatico i cestoni di frutta e di erbaggi, le piramidi di aranci e di limoni, le valanghe di bietole e patate, i mucchi di polli e di selvaggina, i monti di carubbe, i barili d'uva calabrese e di fichi secchi.

I mercanti vantavano ad alta voce le loro merci ad eccessivo buon mercato, e invitavano i passanti a non lasciarsi sfuggire la bella occasione; chi cantava e chi urlava i nomi degli oggetti messi in vendita, chi alzava in aria i campioni, chi metteva il cesto sotto il naso dei passanti. E una folla allegra e ciarlona di curiosi e di acquirenti andava e veniva per la via fra quella babilonia di gente e di prodotti di tutti i colori e di tutti gli odori. Quando fu vicina l'ora fissata dal padrone, Mosè dovette allontanarsi da quel bizzarro e rumoroso spettacolo, e si avviò verso la piazza.

Percorrendo le Mercerie si trovò fra gente affatto diversa, che camminava in fretta, colla testa bassa, verso un altro spettacolo.

Sotto l'arco dell'orologio si stentava a passare, tutti andavano verso la piazzetta dove sorgeva la berlina, un palco alto, con una colonna tronca nel centro intorno alla quale girava una panca. Una folla immensa si stipava al sole in mezzo ai magnifici edifizi, davanti lo specchio della laguna. Tutta la guarnigione austriaca era sotto le armi, non si vedevano che teste e baionette.

Comparvero fra gli sbirri, alcuni Italiani ammanettati, salirono sul palco, e rivolti verso il palazzo dei Dogi si udirono condannare a morte, e al carcere duro per aver osato sognare l'indipendenza della patria dallo straniero; e questa sentenza veniva letta da un curiale austriaco da quel palazzo, in quella piazza eretti da un popolo libero, ove tutto attestava quattordici secoli di indipendenza, contro un dominio usurpato da circa nove anni senza l'assenso dei veri padroni.

Il terrore dominava quella folla, che assisteva in silenzio all'orribile spettacolo. Alle parole «condannati a morte» un fremito di sorpresa, di pietà, di sdegno sorse dalla folla, ma subito dopo ritornò il silenzio della paura.

Mosè non potendo trovare il padrone in quella calca ritornò all'albergo, e quando vide il capitano gli andò incontro con aria misteriosa e gli domandò:

– Ha veduto sulla berlina quel signore magrolino cogli occhiali che è venuto a farle visita una sera d'autunno, or son quasi due anni?!

– Non dirlo nemmeno all'aria, se un giorno non vuoi vedermi al suo posto. Tutti quei condannati sono veri galantuomini, vittime d'una imprudenza. Volevano fare il bene, ma non sapevano farlo colla finezza indispensabile nella lotta del diritto inerme contro la forza armata.

Mosè restò sbalordito, e pensava agli ordini ricevuti dal padrone poco dopo la visita di quel signore: il cancello del parco sempre chiuso, il cancello del brolo sempre aperto! e cominciava a capire qualche cosa, ma il capitano poteva essere sicuro che il segreto delicato starebbe sepolto per sempre in fondo al cuore dell'onesto e fedele domestico.

Abortite le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte e terminato l'infame processo dei Carbonari colle barbare condanne, il paese, seminato di spie, scoraggiato per le prove fallite, parve immerso in un silenzio di morte. I vecchi patriotti rimasero prostrati, scoraggiati di tentare nuove imprese; i giovani si gettarono negli stravizi, nella vita molle effeminata, che il governo straniero incoraggiava in molte maniere per facilitarsi il dominio d'uomini fiacchi e di anime corrotte.

Quella fu l'epoca fortunata dei teatri, delle ballerine e delle mime, dei veglioni mascherati, dei carnevali rumorosi, degli intrighi galanti, della vita allegra e spensierata.

Duravano tuttavia le proteste contro il dominio straniero, ma si limitavano a maledire o beffare il governo, eludere le leggi, burlarsi della dabbenaggine di qualche Tedesco, degli spropositi italiani dei Croati, a canzonare la ingenua semplicità d'un soldato, a guardare in aria sprezzante gli ufficiali dell'esercito austriaco.

Poi sorsero nuove sétte, ma coi capi cospiratori viventi all'estero, pieni d'illusioni sulle condizioni locali del paese, con forze immaginarie, e con tentativi arrischiati che esponevano le vite dei cittadini, moltiplicando le piccole sollevazioni impotenti, e producendo nuove vittime.

Che cosa potevano fare i prodi soldati degli eserciti napoleonici lasciati in disparte? i patriotti intelligenti rimasti senza patria? Crearsi una famiglia, educarla coi sani principii della giustizia, vivere ritirati, apparecchiare i figli per l'avvenire, attendere e sperare.

E così fece il capitano Bonifazio.

Andò in Brianza a sposare la sua Maddalena. Le nozze ebbero luogo in primavera del 1822, con semplicità patriarcale, senza feste, senza chiassi, e senza sonetti, come conveniva in tempi tristi, dopo dolorosi avvenimenti.

La sposa che aveva sempre vissuto in campagna si trovò benissimo nella sua nuova dimora nei dintorni di Treviso. La casa era più grande, il possesso più esteso e più ricco; l'aspetto della pianura era meno pittoresco delle colline di Brianza, ma l'orizzonte più ampio ed aperto, la campagna bagnata da acque correnti, e l'aria pura ed elastica che viene dalle Alpi e passa per l'immenso letto del Piave apporta la salute, esilara lo spirito, ed eccita l'appetito.

Il capitano riprese i suoi lavori agricoli e di giardinaggio, la Maddalena assistita da Mosè e da una fantesca, ordinò la casa; e così ebbe origine la nuova famiglia Bonifazio, della quale abbiamo raccolto la semplice istoria in queste povere pagine.

La famiglia Bonifazio; racconto

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