Читать книгу La famiglia Bonifazio; racconto - Caccianiga Antonio - Страница 4

IV

Оглавление

Talvolta i filosofi hanno il torto di ritenere troppo assolute le loro teorie, se si contentassero di limitarle al circolo ristretto della loro visualità, avrebbero perfettamente ragione.

Per esempio: se il maestro Zecchini avesse proclamato, che l'uomo è un asino, senza uscire dalla sua scuola, nessuna autorità competente avrebbe trovato un argomento valido per confutarlo: e forse nemmeno lo stesso maestro avrebbe presentata un'eccezione.

E infatti, studiando sè stesso, egli aveva sovente l'occasione di confermarsi nel suo principio.

Appena ritornato dalla Brianza, il capitano Bonifazio invitò a pranzo il maestro Zecchini per presentarlo alla sposa, come amico e vicino di casa. Il maestro rimase colpito dalla bellezza lombarda della signora Maddalena, e per esprimere la sua ammirazione in modo che gli pareva molto appropriato, cominciò a raccontare a tutti i suoi amici e conoscenti che la sposa del capitano aveva due occhi da carbonara. E questa fu vera imprudenza, in un tempo, nel quale gli stessi mercanti di carbone non avrebbero osato chiamarsi col loro nome.

Guai se il capitano lo avesse udito! ma il maestro contemplando quegli occhi bruciava in silenzio, nascondeva le brace sotto la cenere, e pensando al carattere vivace dell'amico celibe, aveva doppia paura dell'amico ammogliato quantunque costui avesse dei pensieri molto più gravi di quello di sospettare del maestro Zecchini.

Malgrado tutte le precauzioni passibili, il primo tempo di quel matrimonio non poteva essere tranquillo e sereno, come sogliono essere tutte le lune di miele. A certe suonate di campanello il capitano lasciava trasparire un'involontaria apprensione, come al tempo degli arresti, a certi rumori notturni egli si alzava dal letto e andava a spiare attraverso le gelosie. La giovane sposa indovinava la causa di quelle inquietudini, e ne divideva le ansietà.

Tale condizione di cose rendeva il capitano più bisbetico del solito, e avendo ripreso le partite serali delle carte, ad ogni errore commesso il maestro andava soggetto a dei rabuffi che lo intimidivano; la buona signora si studiava di consolarlo dei modi bruschi del marito con indulgenti sorrisi, e sguardi incoraggianti, e l'asino bruciava.

Dopo qualche tempo la partita di terziglio fu abbandonata pel tresette. Il maestro pregato dal capitano aveva trovato un quarto giuocatore; certo Giacomo Pigna, fittaiuolo del paese, un po' rozzo, ma galantuomo, laborioso ed allegro, e gran bevitore. Egli capitava ogni sera fedelmente, anche attraverso la neve e le bufere, per fare la solita partita. Gettava il suo tabarro e il cappellaccio a cencio sopra una seggiola dell'anticamera, ed entrava intrepidamente nel salotto coi capelli sulla fronte, l'occhio brillante, il naso violetto, i zigomi accesi, un buon sorriso sulla bocca, il ventre proeminente, e gli stivali sopra i calzoni. Il capitano gli dava la mano, che egli non osava stringere che debolmente, per riguardosa modestia.

Prima di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine d'ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda aspirazione.

Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori elegantissimi, l'orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami, d'anitre, tacchini e colombi.

Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i parenti e gli amici, la nascita d'un figlio maschio, al quale venne imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia.

I bambini vennero allevati all'aria aperta, con una semplice vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno: giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull'erba, e correvano incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini.

Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all'amore di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate dall'insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il libriccino intitolato I doveri dei sudditi.

Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci ispira l'amore della patria, che la patria non può essere felice senza la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo s'imponesse ad un'altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto, dimostrava che quei pretesi doveri dei sudditinon erano altro che gli obblighi degli schiavi, ed indicava la prudenza necessaria per condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la patria.

E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale, ove l'Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d'Italia, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori, tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù. E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni generose che li avevano resi immortali.

Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a segno, alla ginnastica.

– Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze, – egli diceva loro; – impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi, – e rivolto a sua moglie soggiungeva: – Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.

E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell'educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d'oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia.

Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con passione all'agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica.

Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d'essere rilette.

Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo.

– Aspettate, e mi darete ragione col tempo, – egli diceva; – siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali.

Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.

Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l'occasione era favorevole all'applicazione della sua teoria.

Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell'intimità, come un'arma proibita. Il bisogno d'indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d'Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia.

L'insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.

A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l'esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d'esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.

Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni.

– Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all'Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d'accordo con ciascheduno.

Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico.

Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di contabilitàe finanze; mancavano le armi e i soldati, ma c'erano due incaricati alla milizia e un ministro di diplomazia e guerra, un abate all'istruzione pubblica, un canonico al culto, un avvocato alla consulta, due ingegneri alle pubbliche costruzioni, un avvocato all'amministrazione comunale, un altro alla Polizia, e l'avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.

E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell'impresa.» (Semenzi).

La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l'entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all'Europa l'odio degli Italiani per il dominio straniero.

Provenienti da varie regioni d'Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell'Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani.

Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell'esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati.

Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà.

I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (Capitolo III della Capitolazione). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come emigrati.»

Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la nazione tornava ad essere invasa ed oppressa dalle forze preponderanti degli invasori stranieri.

Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora Mazzini).

Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto abbracciare.

Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri.

Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la partenza de' suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con volti arcigni e truce aspetto.

Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero in casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli che coi denti rosicchiavano le corteccie.

Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter arrestare quella devastazione.

Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse:

– Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene.

Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.

I soldati coi cavalli ricevettero l'ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l'obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà.

Partito quell'ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l'abitudine dell'alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno.

Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d'Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici.

Milano ricadeva in mano dell'Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione.

La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa.

Le vicende dell'assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione.

Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l'umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di resistere ad ogni costo, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l'ammirazione del mondo.

I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle.

Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell'assedio all'ambulanza.

Finito l'ultimo pane nero, e l'ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta.

Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d'un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l'aiuto d'un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all'esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d'un pronto risveglio della nazione e d'un ritorno alle armi.

La separazione fu dolorosa. Gervasio s'imbarcò in un bastimento francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa.

Povera Maddalena!.. quando li vide entrare pallidi e magri, col suo Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando:

– Dove è Gervasio?..

– È partito… risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco…

– È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!.. sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!..

Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l'esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre!

– Ha preferito l'esilio all'umiliazione di vivere sotto il giogo dei nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le cose non possono durare a questo modo, – e manifestando tutte le illusioni di quel tempo, si studiava di provare l'impossibilità d'un lungo dominio austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl'impediva di camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del viaggio, in quello stato.

Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non finiva mai d'interrogarli sui più minuti particolari del memorabile assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i due vecchi amici, che dopo l'assenza ritornavano a vivere insieme, sempre inseparabili, e sempre discordi.

Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si dispersero in vari paesi.

Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un'occupazione per non vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese rigurgitava di emigrati d'ogni parte d'Europa; le varie rivoluzioni del quarant'otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del passato, e le più esagerate illusioni dell'avvenire.

Ad un'anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita tumultuosa rendeva più doloroso l'esilio. Dopo lunga aspettativa gli venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento turbinoso della moderna babilonia.

Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia, e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie, senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d'Italia, e gli pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l'olezzo di quelle piante, e sentiva l'aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse alla memoria dell'emigrato; e i prospetti, l'aria, gli accenti, le esalazioni, tutto gli rammentava l'isolamento, e la lontananza della patria.

I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia degli amici.

Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società.

Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina, una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera; ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano l'orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l'uragano che doveva sconvolgere l'Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco diplomatico un'offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra, aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si andava consolidando a loro dispetto, e l'esilio temporaneo diventava domicilio stabile degli emigrati. E così passavano gli anni, e intanto l'amicizia e l'amore fiorivano anche sulla terra straniera.

Gervasio divenne intimo di casa Ravelli, fu il compagno inseparabile di Battistino, e non tardò a sentire per l'Angelina una profonda simpatia che a poco a poco si trasformò in reciproca affezione.

Allora la primavera di Bretagna parve più bella ai giovani innamorati, che aprendo l'animo ai sentimenti e ai pensieri concordi, si creavano una nuova patria sul suolo straniero, la patria dell'amore, e così trovavano più ridenti quelle verdi campagne, più vaghi i fiori, meno fosco l'orizzonte, meno pallido il sole, e le notti azzurre e brillanti di stelle più belle delle notti italiane.

Vivere insieme per amarsi sempre, e dimenticare tutto il resto, questa divenne l'unica aspirazione dei loro cuori.

Dopo uno scambio di lettere colle rispettive famiglie in Italia, furono fidanzati; pochi mesi dopo si celebrò il matrimonio, e la terra di Bretagna parve un paradiso terrestre ai due sposi, nell'ebbrezza dell'amore soddisfatto.

Passati dieci mesi venne alla luce un bel maschio, che per comune consenso dei due nonni fu battezzato col nome di Silvio, in segno di simpatia verso l'amico carbonaro, che fu prigioniero allo Spielberg, e di protesta contro il dominio straniero.

Pareva che la felicità sorridesse pienamente alla nuova famiglia, quando una febbre insidiosa assalì la puerpera, e mise subito in dubbio ogni speranza. I sintomi più minacciosi si succedettero con terribile rapidità, e la malattia finì in pochi giorni con un lutto spaventoso.

L'infelicissimo marito perdette la sua diletta compagna nel primo anno di matrimonio, il neonato perdette la madre nel primo mese di vita.

Sotto il colpo inaspettato dell'improvvisa sventura, lontano dai cari parenti, fra il suocero e il cognato al pari di lui disperati, Gervasio risentì tutto il peso dell'esilio e dell'isolamento.

La donna morta fu portata al cimitero colla sua candida veste di sposa; il bambino fu messo a balia; i Ravelli affranti dal dolore abbandonarono il paese, il povero esule rimase solo, fra una culla e una tomba, a piangere la sua cara compagna scomparsa; – solo senza patria, e senza famiglia!..

La famiglia Bonifazio; racconto

Подняться наверх