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Capitolo I
ОглавлениеCONCETTO TRADIZIONALE DELLA LEGGE EBRAICA
Quando si tratta della legge degli Ebrei, si deve intendere non solo quella civile e criminale, ma anche quella religiosa, cioè i dogmi e i riti che riguardano alle credenze e al culto. Imperocchè sotto il nome generico di legge gli Ebrei hanno sempre compreso tutte le varie disposizioni che regolano la vita, non solo nelle relazioni degli uomini fra loro, ma anche in quelle verso Dio, sia come individui, sia come nazione.—Questa legge ebraica è esposta, per ciò che concerne le sue basi fondamentali, nei primi cinque libri del Vecchio Testamento, detti perciò Pentateuco, e comunemente dalla tradizione religiosa attribuiti a Mosè. I quali, sebbene contengano non piccola parte di argomento narrativo, pure sono chiamati per eccellenza la Legge, in ebraico Torah, parola che primitivamente aveva il significato dʼinsegnamento, dottrina; ma quindi ha acquistato quello di legge, quasi volesse dirsi insegnamento divino, dottrina per eccellenza. Nè questo nome di legge dato ai primi cinque libri del Vecchio Testamento può dirsi improprio per il fatto che essi contengono una gran parte anche di narrazione. Imperocchè, a chi bene osservi, chiaro apparisce che la parte narrativa, ancorchè non forse per estensione, certo per importanza, nella mente di colui che a questi cinque libri dette la presente forma, sta come qualche cosa di accessorio, che serve alla legge come di occasione, e direi quasi come cornice del quadro. Però si può benissimo nello studio critico dei cinque libri detti mosaici separare la parte legislativa da quella narrativa, e studiarla come un tutto in sè compiuto e indipendente; sebbene sarà necessario far cenno anche di questa, se non per il suo interno contenuto, certo per ciò che riguarda il modo della sua formazione e compilazione, in quanto colle leggi la troviamo oggi intrecciata e connessa.
Incominciamo dal vedere quale sia il concetto religioso tradizionale sulla formazione e sullʼindole di questa legge, e perciò prescindiamo per ora da ogni quistione critica sulla età, sullʼautore, e sulla unità di composizione del Pentateuco. Siffatte quistioni saranno esposte e discusse a suo luogo: prendiamo per ora la legge quale nel Pentateuco stesso ci viene presentata.
Se la legge veramente detta non può trovarsi nel Pentateuco, prima che il popolo ebreo cominciasse ad avere almeno glʼinizii di una vita nazionale, che è quanto dire dopo lʼescita dallʼEgitto, non è però che nel disegno generale del Pentateuco, questa legge data al popolo sia senza precedenti e nella vita dei patriarchi del popolo stesso, e anche, risalendo più alto, nei patriarchi ancora di tutto il genere umano. La rivelazione nella mente dello scrittore, o per meglio dire, degli scrittori del Pentateuco, non è un fatto che incominci con Mosè, ma si fa risalire invece fino alle prime origini dellʼuomo. Soltanto una decadenza morale, in prima dei protoplasti, poi dei loro discendenti, avrebbe cagionato una limitazione sempre più ristretta della comunanza del Creatore con le creature. La quale comunanza ci viene rappresentata come un vero e proprio patto fra Dio e lʼuomo. Non è un contratto sociale come quello immaginato da Rousseau e dai politici teorici e metafisici del secolo passato; ma un contratto teocratico, nel quale Dio promette allʼuomo certi beni, purchè egli obbedisca a certi suoi comandi.
Vediamo i protoplasti, quali nel Vecchio Testamento ci sono rappresentati nel Paradiso terrestre, appena esciti dalle mani del Creatore.
Qui nel testo la parola patto non è scritta, ma vi è la sostanza e la forma di un vero contratto. Dio promette al primo uomo e alla sua compagna una perpetua felicità, a patto però che obbediscano a un suo comando. Non è qui luogo a ricercare quale significato questo comando possa avere; tale quistione è dʼindole del tutto mitica e teologica, e però qui ce ne passiamo; ma fatto sta che un patto fra il Creatore e i protoplasti sarebbe avvenuto. Adamo ed Eva mancano al patto, infrangono il comando divino, e quindi la promessa felicità viene ad essi a mancare.
Questo è un mito che non può dirsi particolare del popolo ebreo, nè delle genti semite: ormai da altri è stato dimostrato con ricca ed accurata erudizione, come sotto forma più o meno diversa questo mito si trovi nelle credenze di quasi tutti i popoli.[3] Ma gli scrittori ebrei, postolo a capo delle loro tradizioni religiose, hanno saputo riconnetterlo con la loro storia, sebbene, cosa molto notevole, in tutto il Vecchio Testamento non si trovi mai menzione del peccato originale, se non forse in due brevi allusioni, una presso un profeta dellʼetà assira[4] e lʼaltra presso un altro profeta dellʼetà dellʼesilio babilonese,[5] se pure quelle frasi non debbano ancora intendersi in altro significato.
Rotto in prima il patto dai protoplasti, e caduto poi il genere umano in più profonda corruzione, e distrutto per ciò dal diluvio, mito anche questo comune a quasi tutte le genti,[6] Dio rinnuova il patto con la sola famiglia superstite alla totale distruzione. Noè e i suoi figliuoli, dopo esciti dallʼarca, offrono a Dio un sacrifizio, ed Egli promette che non più avrebbe maledetto la terra per cagione dellʼuomo, non più avrebbe distrutto ogni vivente, e le stagioni non avrebbero più cessato di avere il loro corso (Genesi, viii, 20–22). Ma in unʼaltra narrazione troviamo la sanzione di questo patto in diverso modo esposta, e qui per la prima volta non solo troviamo la cosa, ma anche la parola. Fra Dio e i Noachidi si fa un vero patto; berith, dice il testo ebraico, e patto è il significato di questo vocabolo.
Il patto è che Dio non distruggerà più col diluvio il genere umano nè il rimanente del creato, e impone di ricambio ai Noachidi non più un mitico comando, di cui non bene si coglie il significato, ma la legge, che è base prima di ogni civile consorzio, cioè il rispetto della vita altrui, la proibizione dellʼomicidio, sotto pena al trasgressore di essere anchʼegli ucciso. «Chi versa il sangue dellʼuomo, per mezzo dʼuomo il suo sangue sarà versato» (Genesi, ix, 6). Ma quasi ciò non bastasse a mitigare la ferocia di quegli uomini primitivi e rozzi, sarebbe stato proibito, secondo lo scrittore di questa parte del Pentateuco, anche il nutrirsi del sangue degli animali. Si dava il permesso agli uomini di mangiare degli altri animali la carne, ma non insieme col sangue. «Però la carne con la sua anima, col suo sangue non mangerete» (Genesi, ix, 4).
In queste due sole disposizioni sarebbe consistita, secondo il Pentateuco, tutta la legge imposta da Dio alʼ genere umano salvato dal diluvio.
È prezzo dellʼopera per altro accennare qui brevemente come nella molto più recente tradizione giudaica questa legge primitiva si sia più estesa, e come i talmudisti abbiano insegnato che non solo dopo il diluvio, ma anche ai protoplasti fosse stata imposta lʼosservanza di sette precetti, detti dei Noachidi, dando a questa parola non il ristretto significato di discendenti di Noè, ma di tutto il genere umano, prima e al di fuori del popolo ebreo.
Questi sette precetti sarebbero stati, secondo il Talmud: 1o lʼobbligo di osservare le leggi civili; 2o di non bestemmiare Iddio; 3o di adorare un solo Dio e non con culto idolatrico; 4o di astenersi da unioni incestuose; 5o di non uccidere; 6o di non rubare; 7o di non mutilare un animale per cibarsene.[7] E col metodo dʼinterpretazione tutto proprio dei talmudisti si pretende desumere lʼimposizione di questi sette precetti dal verso 16 del capitolo ii del Genesi, il quale però nel suo significato letterale e vero contiene soltanto il permesso di mangiare di ogni albero dellʼEden, tranne quello della scienza del bene e del male. Ma è cosa cognita ormai che i dottori del Talmud hanno dimostrato un ingegno tutto speciale per dare alle parole della Scrittura un significato molto diverso da quello proprio e genuino. E ciò sia detto una volta per sempre, imperocchè nel corso di questo nostro scritto, ponendo a confronto le disposizioni della legge scritturale con quelle sancite poi dal Talmud, ci troveremo troppo spesso a dover notare, che secondo questo si contengono nella Scrittura riti e leggi che in nessun modo furono nella niente di chi scriveva il Pentateuco.[8] Ma, introdottesi nel successivo svolgimento della vita religiosa e civile dellʼebraismo, e del giudaismo, i dottori del Talmud vollero anche a queste trovare un fondamento nella Scrittura, sebbene chiaro apparisca che in nessun modo vi sia. È questo il falso metodo di esegesi biblica formatosi nelle scuole talmudiche, il quale richiederebbe a sè solo uno studio speciale; ma basti qui lʼaverlo brevemente accennato.[9]
Dopo il patto della Divinità coi Noachidi avvenne, secondo la tradizione biblica, la dispersione delle genti, e quindi la vocazione di Abramo. Con questo primo patriarca del popolo ebreo Dio avrebbe stabilito un nuovo patto esposto in modo differente in due luoghi del Genesi. Secondo il primo (xv) questo patto sarebbe stato sancito mediante il sacrifizio di diversi ammali, e Dio avrebbe promesso ad Abramo che la sua discendenza, dopo una schiavitù di quattro generazioni, sarebbe sorta a libertà, e avrebbe conquistato la Palestina. Seguendo poi altra narrazione (xvii), il patto fra Dio e Abramo sarebbe stato sancito collʼimporre a questo e a tutti i suoi discendenti per la perpetuità dei secoli il precetto della circoncisione. Segno materiale della elezione fatta da Dio di questa stirpe, perchè gli fosse popolo fedele, a cui in ricambio avrebbe dato il possesso della terra di Canaan.
Notiamo intanto che nelle varie narrazioni del patto divino, tanto coi Noachidi, quanto con Abramo, secondo una di esse, la sanzione consisterebbe nellʼofferta del sacrifizio fatto dagli uomini alla Divinità, secondo lʼaltra, nella osservanza di certe leggi o di certi riti da Dio agli uomini imposti. Ma inoltre nel patto fra Dio e Abramo, se lʼuna narrazione pone il sacrifizio degli animali, lʼaltra pone la circoncisione, che è in qualche modo anchʼessa un sacrifizio cruento: anzi, secondo lʼopinione più accettabile, nullʼaltro che avanzo, mitigamento e simbolo dei sacrifizi umani e dei culti fallici, quando i costumi presso certe genti, come accadde presso gli Egiziani e presso gli Ebrei, sʼingentilirono, e si elevarono a più alta moralità.
Oltre il rito della circoncisione, il narratore di alcuni luoghi del Genesi vuol far risalire fino ai tempi patriarcali lʼabborrimento per le unioni matrimoniali con le genti palestinesi, cosa che resulta da quanto vien detto rispetto al matrimonio dʼIsacco (xxiv), e poi anche a quelli di Esaù (xxvi, 34 e seg.) e di Giacobbe (xxvii, 46; xxviii, 1–9). Dimodochè questa, che in origine sarebbe stata soltanto una raccomandazione paterna, divenne in appresso una legge.
Il patto stabilito da Dio con Abramo sarebbe stato da prima rinnovato con Isacco (xxvi, 2–5) e poi con Giacobbe (xxviii, 10–22; xxxv, 9–15), ma senza lʼimposizione di nuovi precetti. Per altro, nel rinnovare la promessa col patriarca Isacco, Dio gli avrebbe detto che sarebbe mantenuta, in premio che Abramo aveva ubbidito alla sua voce, e osservato ciò che gli aveva imposto, i comandamenti, gli statuti e le leggi (xxvi, 5). Il senso letterale di questo verso è chiaro per chi non voglia portarvi lo spirito del sofisma. Lo scrittore biblico vuole con lʼesempio di Abramo esortare allʼobbedienza della legge divina; ma non ha certo inteso di dire che ad Abramo fosse stato imposto da Dio un numero di precetti, di statuti e di leggi. Anche qui però la fantasia dei dottori del Talmud non si è acquietata alla verità, e ha voluto sognare che tutta la legge, perfino i più minuti precetti rituali, erano stati da Abramo conosciuti ed osservati.[10]
Nel rinnovamento poi del patto col patriarca Giacobbe, questi avrebbe promesso, secondo una delle due narrazioni (xxviii, 22), di consacrare a Dio la decima dei suoi averi, ciò che prova che nella mente dello scrittore di questa parte del Genesi la consacrazione delle decime si voleva far risalire fino ai tempi patriarcali, se non come un rito precisamente imposto, almeno come una pratica consuetudinaria.
Ciò che è narrato di Esaù e di Giacobbe starebbe a provare che si voleva altresì riportare fino alla stessa età il diritto di primogenitura (xxv, 31–34; xxvii, 36). Da un fatto poi avvenuto allo stesso patriarca Giacobbe, cioè da una lotta da esso sostenuta contro un essere, che non si sa bene dalla lettera del testo se debba tenersi come un uomo o come qualche ente soprannaturale, lo scrittore di questo luogo del Genesi dice a modo dʼincidente, che erasi stabilito nella gente dʼIsraele il rito di non mangiare il nervo ischiatico di qualunque animale, perchè in quella lotta al patriarca questo nervo era rimasto slogato, in modo da doverne andare zoppo (xxxii, 25–33).
La licenziosa narrazione del matrimonio dei due figli di Giuda, Er e Onan, con una donna di nome Tamar, e lʼincontro di questa con suo suocero, proverebbero lʼuso antichissimo del levirato, cioè dellʼobbligo di unirsi alla vedova del fratello morto senza prole. E così, secondo lʼesposizione che ora ne troviamo nella Scrittura, la legge nella età patriarcale si sarebbe ristretta a quanto fin a qui ne abbiamo accennato, che è ancora tutto quel poco che di argomento legislativo ritrovasi nel Genesi.
Lʼesistenza nazionale degli Israeliti incomincia, almeno in parte, colla liberazione dalla servitù dellʼEgitto; e da questo tempo troviamo, secondo la tradizione religiosa trasmessaci nella Scrittura, il principio della formazione della legge. Seguiamola per ora secondo il concetto tradizionale.
Mosè è lʼuomo prescelto da Dio a liberare il suo popolo, perchè rammenta il patto stabilito con i patriarchi di concedere alla loro discendenza il possesso della terra di Canaan (Esodo, iii, 15–17; vi, 3–8); e dopo le lotte da lui sostenute contro il Faraone, quando il popolo ebreo è sul punto di ottenere la sua libertà, le prime leggi imposte sono queste: 1o della fissazione del Calendario; 2o della offerta del sacrifizio della Pasqua; 3o di festeggiare questa per sette giorni, astenendosi da ogni pane lievitato; 4o della consacrazione a Dio dei primogeniti per rammentare che quelli degli Ebrei erano stati salvi nel totale eccidio dei primogeniti degli Egiziani (xii, 1–28, 43–50; xiii, 1–16).
Dopo il passaggio del Mar Rosso, nella prima stazione nei deserti dellʼArabia si parla di uno statuto e di una legge posta da Dio o da Mosè al popolo, ma non si spiega in che cosa questo statuto e questa legge consistessero (xv, 25), anzi dalla totalità del contesto pare che si parli soltanto di un generale avvertimento di prestare obbedienza agli avvertimenti del Signore. Però lʼinterpretazione talmudica anche qui vuoi trovare lʼinstituzione di alcune leggi determinate. Secondo alcuni sarebbero stati ripetuti i sette precetti dei Noachidi, più quelli dellʼosservanza delle leggi civili, del riposo del sabato e del rispetto verso i genitori; altri a questʼultima legge morale sostituiscono il rito della purificazione per mezzo della cenere della vacca fulva (Numeri, xix), e altri le leggi sulle unioni incestuose.[11] Ma siccome ognuna di queste leggi si trova poi a suo luogo singolarmente istituita, questa interpretazione talmudica è da tenersi erronea, e da riporsi fra quelle tante che falsano la vera intelligenza del testo.
Difatti in quanto al riposo nel giorno del sabato, sarebbe stato per la prima volta ordinato nella occasione di raccogliere la manna, narrandosi che il giorno sesto della settimana ne avrebbero trovata doppia porzione, e nel settimo non ne avrebbero trovata punta, dovendo in quello riposare (xvi, 22–30).
Lʼassalto improvviso fatto dalla gente amalechita, e dal quale gli Ebrei a stento avrebbero potuto salvarsi, sarebbe stato occasione per comandare come legge che quando fossero stabiliti nella Palestina, pensassero a distruggere intieramente questo popolo, che aveva mostrato così fiera inimicizia (xvii, 8–16).
La venuta di Jetro suocero di Moisè fa che egli consigli al genero dʼistituire dei giudici nel popolo, per non troppo affaticarsi lui stesso a giudicare tutte le liti possibili ad insorgere. E sarebbero stati distribuiti questi giudici, come capi di diversa autorità, di mille, di cento, di cinquanta e di dieci uomini (xviii, 13–27).
Queste adunque sarebbero state le sole leggi dettate da prima per occasione al popolo ebreo innanzi la promulgazione di un vero corpo di leggi, come sarebbe stato quello del Sinai. Il quale, secondo la compilazione che adesso ne abbiamo, consterebbe 1o del Decalogo (xx, 1–17); 2o del rito intorno al modo di edificare lʼaltare (ivi, 23–26), ripetendosi ancora la proibizione di adorare idoli dʼargento o dʼoro; 3o di una serie di numerose leggi per la massima parte risguardanti la vita civile (xxi–xxiii), alle quali però si uniscono i precetti dellʼosservanza del sabato, quantunque già imposta nel Decalogo, e quello delle tre solenni feste annue, cioè della pasqua dʼazzime, della festa della mèsse, e di quella della raccolta nellʼautunno, oltre pochi riti sui sacrifizi, sulle primizie e sulla proibizione di cucinare gli animali col latte della loro madre (xxiii, 12–19).
Alla esposizione di queste leggi fa seguito la solenne stipulazione del patto fra Jahveh e il suo popolo, sancito col sangue di un sacrifizio (xxiv, 4–8).
Questo doppio metodo di esporre ora leggi isolate, come fossero insegnate e stabilite per qualche occasione di fatto, e ora una serie di leggi, come formanti un più o meno esteso codice, si trova ripetuto nei tre libri di mezzo del Pentateuco. E in questo doppio metodo dovremo seguire anche noi il compilatore del Pentateuco fino che esponiamo il concetto tradizionale della formazione della legge.
Dopo la stipulazione del patto, Mosè sarebbe salito sul Sinai per ricevere da Dio le tavole di pietra, che pare debba credersi contenessero il Decalogo, e anche sentire le altre leggi. Per ciò è detto che vi si trattenne quaranta giorni. Ma nella presente compilazione del Pentateuco si trovano in questo luogo le prescrizioni risguardanti la costruzione del tabernacolo, i suoi arredi, lʼobbligo di accendere il sacro candelabro, gli abiti sacerdotali, la ceremonia della consacrazione dei sacerdoti, il precetto del doppio sacrifizio quotidiano a mattino e a vespro, il modo come comporre lʼolio sacro e le droghe per il profumo, il tributo per supplire alle spese del culto, la designazione degli artefici più abili alla esecuzione di tali opere, e finalmente una nuova ingiunzione di riposare nel giorno del sabato (XXV–XXXI).
Il fatto che il popolo avesse adorato il vitello dʼoro, mentre Mosè era sul Sinai, avrebbe, secondo la narrazione della Scrittura, cagionato la rottura delle tavole, dove sarebbe stato scritto il Decalogo (xxxii, 19). Quindi, dopo il pentimento del popolo e il perdono concesso da Dio, nasce la necessità di scolpire altre due tavole, che, secondo la presente compilazione del Pentateuco, sarebbero state solamente copia delle prime (xxxiv, 1). Ma poi in questo stesso luogo dellʼEsodo (ivi, 14–26) troviamo comandarsi da Jahveh a Mosè una sequela di precetti religiosi, che già troviamo sparsi nellʼantecedente raccolta di leggi (xxi–xxiii), e non si saprebbe vedere perchè precisamente questi avrebbero dovuto ripetersi a preferenza di tutti gli altri.
La composizione delle nuove tavole richiede un secondo soggiorno di Mosè sul Sinai di altri quaranta giorni. Scorsi i quali, Mosè convoca il popolo, gli comanda di nuovo, quasi tutte le raccomandazioni passate non fossero sufficienti, il riposo del sabato, ingiungendo di più in questo luogo di non accendere nel settimo giorno fuoco in nessuna delle loro abitazioni; e quindi glʼinvita a fare offerta volontaria di quanto era necessario per edificare il tabernacolo, per i suoi mobili ed arredi, e per gli abiti sacerdotali (xxxv). Segue una minuta descrizione della esecuzione di tutte queste opere (xxxvi–xl), la quale, tranne lʼuso del verbo al passato, come si richiede in una narrazione, invece che allʼimperativo o al futuro, come doveva essere in un comando, è una pedantesca ripetizione di tutto quanto già precede nei capitoli xxv–xxxi, sebbene in ordine alquanto differente. E con questa descrizione ha termine il libro dellʼEsodo.
Allʼedificazione del tabernacolo si dovevano connettere le disposizioni rituali del culto per ciò che risguarda la celebrazione dei sacrifizi, perchè, eretto il santuario, era necessario sapere qual culto era da praticarsi. E infatti il libro detto Levitico, che segue allʼEsodo, incomincia dalla esposizione minuta e particolareggiata dei riti di ogni specie di sacrifizii e di offerte, argomento che occupa i primi sette capitoli. Segue la consacrazione di Aron e dei suoi figli allʼufficio di sacerdoti (viii, ix), consacrazione che dura otto giorni. Viene quindi narrato il sacrilegio dei due figli dello stesso Aron, Nadab e Abihu, che ne sarebbero stati puniti da Dio con una morte non meno repentina che miracolosa; e in questa occasione viene imposto qualche altro rito risguardante la disciplina della vita sacerdotale e la pratica da seguirsi nel mangiare la carne degli animali sacrificati (x).
Alla consacrazione dei sacerdoti fanno seguito i precetti che concernono la santità di tutto il popolo. Perchè il concetto che predomina principalmente in questa parte del terzo libro del Pentateuco è quello di dovere il popolo ebreo formare una gente eletta consacrata a Jahveh. Lʼespressione fondamentale di questo concetto la troviamo già nella preparazione che precede la promulgazione del Decalogo sul Sinai (Esodo, xix, 5 e seg.) e anche nella prima compilazione di leggi (ivi, xxii, 30), ma i precetti necessarii ad osservarsi per conseguire questa santità di vita e mantenervisi, sono spiegati principalmente nel Levitico, Questa santità però è di diversi gradi, più alta, e quindi sottoposta a maggior rigore, per i sacerdoti; di grado inferiore per il resto del popolo, ma pure disciplinata anchʼessa da norme e da riti. Sʼincontrano per primi quelli che trattano della purità dei cibi. Gli animali, secondo un concetto tutto orientale, sono distinti in puri e impuri. È permesso di cibarsi soltanto dei puri, purchè ammazzati dallʼuomo in determinato modo, altrimenti il solo contatto del loro cadavere e molto più il cibarsene rende lʼuomo impuro. Gli animali impuri poi sono proibiti come cibo, e rendono immondi col contatto del loro cadavere le persone e le cose (xi). Si passa quindi ai riti che risguardano le impurità occasionate dal corpo stesso umano, come dallo stato della donna nel puerperio (xii), da alcune malattie cutanee, fra le quali principalmente è considerata la lebbra, dalla gonorrea e dai mestrui (xiii–xv).
Siccome poi alla fragilità umana è impossibile tenersi immune da ogni peccato involontario, e si può cadere nella trasgressione inconsciente di alcuno di tanti riti, una volta allʼanno nel decimo giorno del settimo mese che è quanto dire secondo il calendario ebraico, circa il principio dellʼautunno, viene imposta una cerimonia di generale espiazione mediante la contrizione di ogni persona e la celebrazione di certi speciali sacrifizii da farsi dal sommo sacerdote (xvi).
Si può dire che questi xvi capitoli del Levitico formano un tutto abbastanza omogeneo ed ordinato come un corpo di disposizioni rituali, lo che non potrebbe egualmente affermarsi per gli altri capitoli che fanno seguito.
Sono poste qui per prime le disposizioni che proibiscono dʼimmolare fuori del tabernacolo qualunque animale ovino o bovino, senza portarlo allʼingresso del tabernacolo per versarne il sangue sullʼaltare e considerarlo un sacrifizio, e molto più è proibito lʼoffrire fuori del tabernacolo qualunque olocausto (xvii, 1–9). È ripetuta la proibizione fatta già ai Noachidi di cibarsi di sangue (10–14), e si dice nuovamente che chi mangia delle carogne di animali trovati morti o lacerati è considerato impuro, e quindi deve sottoporsi ai riti della purificazione (15, 16).
Seguono le leggi che proibiscono i matrimoni incestuosi (xviii, 1–18), lʼaccoppiamento nel tempo del mestruo (19), lʼadulterio (20), il sacrificare i figliuoli al Dio Moloch (21), e gli accoppiamenti o contro natura, o bestiali (22, 23).
I capitoli xix e xx sono un accozzo di molti precetti diversi di morale, di legge civile, di rito religioso, e perciò non ne facciamo qui lʼanalisi: più innanzi a suo luogo ne daremo, come di altri, la spiegazione.
Col capitolo xxi si riprendono le leggi sacerdotali che risguardano più propriamente la santità delle persone (L–xxii, 16). Si soggiungono quindi alcuni riti sulle qualità degli animali atti ad essere offerti in sacrificio (17–33). Il capitolo xxiii è tutto dedicato ai precetti di osservare le feste, incominciando da quella settimanale del sabato (1–3), poi della Pasqua delle azzime (4–8), e con maggiore diffusione che altrove si parla della Pentecoste (9–22), e della festa autunnale delle Capanne (33–44); ma a queste tre feste, già accennate nella legislazione dellʼEsodo, si aggiungono le altre due del primo e del decimo giorno del settimo mese (23–32), della seconda delle quali diffusamente era trattato già nel capitolo xvi.
Altri due brevi precetti del culto sono quelli di accendere nel tabernacolo il candelabro, e di porre sulla tavola sacra nello stesso tabernacolo da sabato in sabato dodici focaccie consacrate (xxiv, 1–9).
La legge che condanna a morte il bestemmiatore del nome divino è dettata per una occasione di fatto, che, interrompendo la sequela della esposizione legislativa, è in questo luogo narrata.
Un innominato figlio di una ebrea e di un egiziano avrebbe bestemmiato il nome di Jahveh. Denunziato e deferito a Moisè, questi ne consulta il detto di Dio, che stabilisce per tale peccato la condanna capitale (10–16); ma non si sa bene vedere perchè si ripeta qui (17–23) quella stessa legge del taglione già esposta nellʼEsodo (xxi, 23–25).
Seguono le leggi sul riposo da darsi ai campi ogni sette anni, sul giubileo da celebrarsi ogni cinquanta, sulla vendita e sul riscatto dei beni immobili e degli schiavi (xxv), conchiuse con una nuova raccomandazione di non adorare glʼidoli, di osservare il sabato, e di rispettare il Santuario (xxvi–1–2). Il rimanente di questo capitolo è di contenuto profetico e non legislativo.
Lʼultimo capitolo del Levitico contiene i riti intorno alla consacrazione delle persone e al modo di riscattarle (xxvii, 1–8), e quindi intorno alla consacrazione degli animali e dei beni immobili.
Il quarto libro detto Numeri, perchè tratta in gran parte del censimento del popolo, è, a nostra opinione, il meno ordinatamente compilato fra quelli del Pentateuco, tanto per la parte narrativa, quanto per la legislativa, e per ciò più difficilmente si sottopone ad una regolare analisi. Noi qui ci restringeremo, come porta il nostro assunto, alla sola parte legislativa».
Nel censimento del popolo è eccettuata la tribù dei leviti, della quale si fa un censimento a parte, (Numeri, i, 47 e seg.), per il servizio del culto. Viene perciò nel medesimo tempo stabilito che i leviti siano consacrati a questʼufficio in sostituzione dei primogeniti di tutte le altre tribù, i quali dovrebbero essere consacrati a Dio, perchè furono salvi in Egitto, quando fu fatta strage di tutti i primogeniti degli Egiziani. La ragione di questa sostituzione è taciuta nel testo biblico, ma i commenti rabbinici[12] la spiegano col fatto di essersi la tribù di Levi serbata immune dal peccato dʼidolatria nella adorazione del vitello dʼoro (cfr. Esodo, xxxii, 26). Nel fare poi il censimento dei leviti, si stabilisce ogni particolare sui loro diversi officii e sulla durata del tempo di servizio (iii–iv).
Seguono quattro leggi che sono invero poco connesse. La prima è di tenere fuori dellʼaccampamento chiunque fosse per qualsivoglia ragione in istato dʼimpurità (v, 1–4). La seconda sul sacrificio espiatorio che doveva offrire chi fosse caduto in certe colpe involontarie (5–10). La terza sul modo miracoloso di verificare, mediante lʼacqua mista alla polvere del suolo del tabernacolo, se fosse vero o no il sospetto dʼinfedeltà da alcuno concepito contro la propria moglie (11–31). La quarta sul voto del nazireato, ossia di astenersi per un certo tempo dal bere vino e altri liquori inebrianti, durante il qual tempo chi aveva fatto tal voto non poteva nemmeno radersi (vi, 1–21).
Segue lʼordine dato ai sacerdoti di benedire il popolo, indicando altresì la forma di questa benedizione (22–27), quindi la narrazione della consacrazione del tabernacolo, e dei sacrifizii e delle offerte portate dai capi di ognuna delle dodici tribù (vii). E a questa narrazione si connettono i precetti sul modo come accendere il candelabro nel tabernacolo (viii, 1–4), la consacrazione dei leviti (5–22), e una nuova determinazione del tempo che doveva durare il loro servizio (23–26), la quale non si accorda con quello già prima accennato, perchè qui si fissa questo tempo dallʼetà di 25 a 50 anni, mentre ivi (iv, 3) si dice dover cominciare solo da 30.
Lʼessere giunti allʼanno secondo dopo lʼescita dallʼEgitto è occasione per istabilire come rito che chi si trovasse impuro per qualsivoglia ragione, o lontano dalla patria, doveva celebrare la Pasqua nel mese successivo (ix, 1–14).
Narrato quindi il modo come si regolavano nel deserto le diverse stazioni e le diverse partenze (15–23), sʼimpone come rito di dover sonare due trombe per convocare il popolo, sia per ordinare la partenza da una stazione, come per muoversi alla guerra, come ancora nei giorni di festa (x, 1–10).
Tutte le leggi e tutti i riti fino a qui accennati sarebbero stati, secondo la narrazione scritturale, esposti da Mosè ora al popolo, e ora ai sacerdoti, secondo la varia loro indole, nel deserto del Sinai, e nel primo anno dopo la partenza dallʼEgitto (ivi, 11 e seg.).
Dopo aver narrato poi come il popolo in mezzo ad alcune vicende si avanzasse verso la terra promessa, e come la mancanza di fede nella possibilità della conquista, facesse condannare tutta quella generazione a perire nel deserto nel tempo di quarantʼanni, il compilatore del libro dei Numeri continua a frammettere alla narrazione altre leggi e altri riti.
Nel capitolo XV si stabiliscono in prima i riti sulle offerte di farina, di olio e di vino che dovevano accompagnare i diversi sacrifizi secondo le varie specie di ammali (1–16). Sʼimpone quindi lʼobbligo di prelevare una parte della pasta della farina come offerta a Dio (17–21). Seguono i riti sui sacrifizi espiatorii dei peccati tanto del pubblico, quanto dei privati (22–31).
Dal fatto di un individuo sorpreso, mentre raccoglieva legna nel giorno di sabato, si stabilisce la legge che chi non rispetta il riposo di questo giorno deve morire per mezzo della lapidazione (32–36).
Non si vede il perchè qui piuttosto che altrove si esponga il precetto di portare ai quattro lembi della veste una certa forma di frangia (zizit) con un filo di colore azzurro, che avrebbe dovuto servire come ricordo perenne dei precetti divini per non allontanarsi da essi (37–41).
Dopo la narrazione dellʼattentato di Coreh e dei suoi compagni, contro la supremazia di Mosè e dʼAron, si stabilisce di nuovo che solo questi e i suoi discendenti, serviti dal rimanente della tribù di Levi, dovevano essere consacrati alla celebrazione del culto (xviii, 1–3). Quindi si stabiliscono le offerte, le decime, le primizie che ai sacerdoti e ai leviti erano dovute, come loro reddito, non avendo essi parte nella divisione delle terre (8–32).
Il capitolo xix parla di un rito intorno alla purità, cioè di dover immolare una giovenca di colore fulvo, e quindi bruciarla, acciocchè lʼaspersione della cenere servisse come mezzo di purificazione a chi si fosse reso immondo mediante il contatto di un morto, o anche solo collʼessersi trovato ad abitare sotto la medesima tenda, o sotto il medesimo tetto.
Narrati alcuni altri fatti, tra i quali storicamente importantissimo quello della conquista di alcuni paesi sulla sinistra riva del Giordano (xxi, 21–35), pare che si sia giunti al termine dei quarantanni, e alla morte di tutta la generazione che adulta era escita dallʼEgitto, e si fa allora da Mosè e da Eleazar, succeduto nel sommo sacerdozio a suo padre Aron, un altro censimento del popolo (xxvi), accampato ormai nelle pianure di Moab ai confini della terra promessa (xxii, 1). Ma trovandosi nel censimento una famiglia di cui sole superstiti erano cinque femmine, queste pretendono il loro diritto ereditario. E da ciò si prende occasione di stabilire la legge successoria (xxvii, 1–11). Moisè designa quindi come suo successore Giosuè figlio di Nun della tribù di Efraim (12–23). Segue lʼesposizione dei riti sui sacrificii, che dovevano offrirsi dal pubblico quotidianamente mattina e sera, e poi quelli del sabato, delle calende, e di tutte le altre feste (xxviii, xxix).
Il capitolo xxx parla dellʼobbligo dei voti, e delle cagioni speciali per cui le donne, vivendo sotto la potestà, o paterna, o coniugale, potrebbero da questʼobbligo essere esenti. Mosè avrebbe di nuovo raccomandato la distruzione dei popoli da conquistarsi nella terra promessa (xxxiii, 50–56), e avrebbe dato ancora a Giosuè le norme principali per la divisione della terra (xxxiv), dal che sarebbe stato condotto a stabilire due leggi, una sul!1 obbligo di dare ai leviti un certo numero di città per loro abitazione (xxxvi,8), non avendo essi una parte come le altre tribù, e lʼaltra di fissare sei città di asilo ove potesse sicuramente rifugiarsi lʼomicida involontario (9–34).
Si espone da ultimo che la legge successoria stabilita innanzi a favore delle sole figlie superstiti senza prole maschile dava luogo a un inconveniente, cioè che i possessi territoriali potessero in questo modo passare da una tribù allʼaltra. Viene quindi stabilito per legge che la figlia erede debba maritarsi con uomo della stessa tribù (xxxvi). E queste poche disposizioni dopo il secondo censimento del popolo vengono dette precetti e leggi comandate nelle pianure di Moab (ivi, 13).
Giunto, come abbiamo visto, il legislatore Mosè alla vigilia della sua morte, e istituite da lui tutte queste disposizioni legislative ora aggruppate in piccoli codici, e ora alla spicciolata secondo portava lʼoccasione, parrebbe che lʼopera della legge fosse compiuta, e difatti qui ha termine il quarto libro.
Ma succede il quinto, detto Deuteronomio, ossia seconda legge. Dopo un esteso discorso esortativo che sta come introduzione (i–iv, 43), e che contiene parecchi richiami alla storia del passato, la legge incomincia col Decalogo (v, 6–21) eguale nella parte precettiva a quella dellʼEsodo (xx, 1–17), sebbene con alcune differenze nella forma; e con una differenza nella ragione della festa settimanale del sabato, sulla quale ci fermeremo più innanzi.
Altri discorsi parenetici succedono al Decalogo fino al capitolo xii, col quale incomincia veramente la esposizione della legge, che finisce nel capitolo XXVIII con un altro discorso profetico sulle conseguenze perniciose, che sarebbero succedute alla, infedeltà del popolo verso Jahveh. Tutta questa seconda esposizione della legge è chiamata il patto stabilito fra Dio e il popolo ebreo, oltre il primo patto già stipulato in Horeb, che è quanto dire presso il Sinai (ivi, 69). Le altre parti del Deuteronomio (xxix–xxxiv) non sono più di argomento legislativo, ma soltanto storico o profetico.
Nè qui ci fermeremo nemmeno a una rapida analisi della legge deuteronomica, come abbiamo fatto di quella degli antecedenti libri, ma porremo soltanto la domanda: perchè questa nuova esposizione. E accenneremo che la risposta secondo il concetto ortodosso tradizionale è che Mosè giunto al termine della sua vita ha voluto unʼaltra volta ripetere la legge al popolo ed esortarlo ad osservarla, lo che avrebbe incominciato a fare nellʼundecimo mese del 40mo anno dopo lʼescita dallʼEgitto. Dal quale concetto è derivato appunto il nome di Deuteronomio, seconda legge, legge ripetuta, in ebraico, Mishneh Torah.
Riassumendo adunque il concetto ortodosso tradizionale intorno alla formazione della legge biblica, resulta essere il seguente.
Alcune leggi sarebbero esistite come precetto, o come consuetudine, fino dai tempi dei patriarchi. Alcune poche sarebbero state dettate in Egitto immediatamente prima della liberazione. Varii corpi di leggi sarebbero stati composti nel deserto di Sinai nel primo anno dopo lʼescita dallʼEgitto. Altre leggi in assai minor numero sarebbero state dettate nei rimanenti trentanove anni di peregrinazione nel deserto, o perchè occasionate da alcuni fatti, o come disposizioni complementarie alle leggi dianzi stabilite. Finalmente una generale, ma non compiuta ripetizione, della legge sarebbe stata fatta da Mosè poco prima della sua morte.
Ora si domanda, è possibile ammettere la storica verità di questo concetto? Lʼesame spassionato dei fatti lo conferma, o lo dimostra assurdo? Questo è ciò che ora esporremo.