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Capitolo II
ОглавлениеLA LEGGE CONTENUTA NEL PENTATEUCO
NON È OPERA DI UN SOLO AUTORE
La quistione dellʼautenticità della legge così detta mosaica è di necessità connessa con quella più generale della autenticità del Pentateuco. Imperocchè, se fosse dimostrato, o potesse dimostrarsi, che tutto il Pentateuco è opera di Mosè, di conseguenza ne scenderebbe che anche la parte legislativa dovrebbe come tale tenersi. È anzi per altro dimostrato ormai dalla critica spassionata, e che si è lasciata guidare da soli criterii scientifici, che il Pentateuco non è opera nè di un solo uomo nè di una sola età, ma compilazione di più documenti scritti da più autori in età diverse. Potrà differirsi fra i critici intorno al numero di questi documenti originali, intorno alla relazione nella quale stanno fra loro, e intorno al tempo nel quale furono scritti, ma che lʼautore del Pentateuco non possa essere uno solo, e molto meno Mosè, è riconosciuto da tutti quelli che in tale quistione non hanno voluto lasciarsi dominare da un preconcetto dogmatico. Non torneremo qui ad esporre tutte le ragioni che danno causa vinta alle conclusioni della critica, tanto più che già da molto tempo avemmo occasione di farlo,[13] ma ci restringeremo a ciò che concerne soltanto la parte legislativa.
Imperocchè potrebbe pure il Pentateuco, quale oggi lo abbiamo, essere una compilazione di più documenti, fra i quali valutarsi come una sola la legislazione, e questa tenersi come opera autentica di Mosè. In altre parole, potrebbero le parti narrative del Pentateuco staccarsi del tutto da quelle legislative, e quando fosse, come è difatti, dimostrato, che la storia delle origini del genere umano e del popolo ebreo, quale è contenuta nel Pentateuco, non è opera nè di un uomo nè di una età, difendersi pur sempre lʼunità e lʼautenticità della parte legislativa. E però, siccome in questo scritto restringiamo le nostre ricerche soltanto alla legge, di questa sola dimostreremo che non può nemmeno intorno ad essa sostenersi la verità del concetto tradizionale dogmatico.
In prima, alcune delle disposizioni legislative, come resulta dalla sommaria esposizione che sopra ne abbiamo fatta, si connettono talmente con certe narrazioni storiche, che, quando sia dimostrato queste non potere avere per loro autore Mosè, ne scende per necessaria conseguenza che non possono appartenergli nè anche quelle. Così, a cagione di esempio, quando sia dimostrato che storicamente è impossibile che gli Ebrei durante le loro peregrinazioni nei deserti dellʼArabia abbiano posseduto il materiale necessario per edificare il tabernacolo, e fornirlo di tutti i suoi arredi, e di tutti gli abiti sacerdotali, quali ci vengono descritti nellʼEsodo (xxxv, 4–xl), ne resulta di necessità che nemmeno tutta la parte dispositiva (XXV–XXXI, 17) può attribuirsi a Mosè; perchè questi non avrebbe potuto comandare cosa che egli meglio di ogni altro sapeva non potersi eseguire. Come è possibile che nel deserto, mentre spesso mancavano di che sfamarsi, si comandasse agli Israeliti di far ogni settimana dodici focaccie di fior di farina, e porle nella tavola sacra nellʼinterno del tabernacolo, perchè Aron e i suoi figli le mangiassero come un cibo consacrato? (Levitico, xxiv, 5–9). Come è possibile che egualmente nel deserto potessero gli Ebrei avere olive sufficienti per fornire lʼolio necessario ad accendere quotidianamente un candelabro a sette lumi nellʼinterno del tabernacolo? Eppure per due volte nella legislazione ELN[14] sarebbe stato dato da Mosè un tale precetto (Esodo, xxvii, 20, e seg.; Lev., xxiv, 1–4).
Ma oltre questa grave obbiezione, che qui possiamo accennare in termini generali e confortare di pochi esempi, ve ne sono ben altre e non di minor peso.
Uno studio spassionato della legge contenuta nel Pentateuco fa chiaramente vedere che essa ha seguito lo svolgimento successivo dei diversi gradi della condizione del popolo, cosa impossibile a conciliarsi con la condizione pressochè immutata, quale avrebbe dovuto essere quella dei primi quarantʼanni dopo lʼescita dallʼEgitto, e quale del resto ci viene descritta nelle parti narrative del Pentateuco stesso. La condizione di orde nomadi in regioni pressochè deserte, come quelle dellʼArabia, e il tempo relativamente breve di quarantanni, non potevano essere tali da favorire un grande e pronto svolgimento di civiltà; dimodochè gli Ebrei, che si accingevano alla conquista della terra promessa, non dovevano nè potevano esser troppo diversi da ciò che erano, quando escivano dallʼEgitto. E se noi leggiamo le narrazioni bibliche, vediamo che stanno piuttosto a confermare che a confutare quanto qui asseriamo.
Ci si potrebbe per altro opporre che, secondo la narrazione biblica, la prima generazione degli Ebrei esciti dallʼEgitto sarebbe perita tutta nel deserto, e che Mosè avrebbe voluto aspettare ad avere tutta una nuova generazione, prima di fare accingere il popolo ebreo alla conquista della terra promessa (Num., xiv, 22, 23; xxvi, 64, 65), e che quindi un certo svolgimento dʼidee e di civiltà potrebbe essere avvenuto.
Potrebbe anche opporcisi che gli Ebrei, sempre secondo la narrazione biblica, avrebbero, prima della morte di Mosè, conquistato alcune terre alla sinistra del Giordano (ivi, xxi, 21–35), e quindi avrebbero potuto mutare in parte le loro abitudini nomadi con quelle di gente a sedi più stabili; e perciò essersi avanzati nella via della civiltà. Ma queste obbiezioni si fondano più sullʼapparenza che sulla realtà.
Imperocchè in quanto alla prima è facile intendere che non accade nel succedersi di due sole generazioni che possano profondamente modificarsi le condizioni di un popolo, quale era lʼebreo nellʼescire dallʼEgitto. Prendiamo in esame il libro dei Giudici, che è certo in tutto il Vecchio Testamento quello che con più verità ci dimostra le condizioni di quel popolo,[15] e vedremo che gli Ebrei nei primi tempi dopo lʼinvasione della Palestina erano gli stessi di quelli esciti dallʼEgitto. Seguaci di culti politeistici, come tutte le genti a loro affini, privi di stabile costituzione politica, incapaci di resistere contro i popoli vicini, o primi possessori della terra da essi invasa, e atti solo a risorgere momentaneamente, quando trovavano alcuni capi di ventura audaci e valorosi, quali in sostanza erano quelli che la tradizione ha chiamato col nome di Giudici (Shofetim, Suffeti).
Inoltre poi fa dʼuopo esaminare, seguendo anche qui la narrazione biblica, per porci in una ipotesi più favorevole ai dogmatisti, che se Mosè vuole aspettare che sia estinta una generazione, e ne sorga unʼaltra, è solo per la conquista della terra promessa, non per trovare gente che fosse capace di ricevere ed eseguire le sue leggi. Imperocchè prima dellʼinvio dei dodici esploratori, il cui ritorno sarebbe stato occasione di scoraggiamento nel popolo, e quindi della risoluzione di lasciar perire tutti gli adulti nel deserto, per avere una nuova generazione meglio agguerrita, sarebbe già stata promulgata quasi tutta la legislazione ELN, e pochissime sarebbero state le leggi quindi aggiunte. Dimodochè, se questa osservazione di uno svolgimento di civiltà, che avrebbe condotto con sè anche uno svolgimento di legislazione, potesse avere qualche valore, potrebbe averlo soltanto per il Deuteronomio, sul quale però sarebbe qui anticipata ogni conclusione.
Intorno poi alla seconda obbiezione tratta dalla conquista di alcuni paesi, valgono le stesse cose dette fin qui, perchè quella conquista, anche secondo ciò che ne narra la Scrittura, sarebbe avvenuta soltanto alla fine dei quarantʼanni (Deut., ii, 14–24); e quando pure avesse mutato le abitudini nomadi del popolo, non avrebbe potuto avere nessuna influenza sullo svolgimento di una legislazione che lʼavrebbe preceduta.
La seconda ragione, per la quale non si può ammettere un solo autore della legislazione del Pentateuco, consiste nellʼesservi alcune leggi ripetute più volte, in modo che della ripetizione non potrebbe darsi spiegazione che appagasse. Prescindiamo per ora dal Deuteronomio, che non può qui valutarsi, perchè, secondo il concetto dogmatico, esso sarebbe appunto la ripetizione della legge; e non teniamo conto nemmeno dellʼessere ripetuti i comandi che sarebbero stati già imposti ai Patriarchi, perchè potrebbe tenersi ragionevole che Mosè avesse voluto dettare al popolo una legge compiuta; ma vediamo per ora solo le ripetizioni nella legge ELN.
La festa delle azzime in memoria dellʼescita dallʼEgitto sarebbe stata comandata una prima volta, avanti che la liberazione avvenisse (Esodo, xii, 14–20), una seconda volta, appena lʼescita dallʼEgitto era compiuta (ivi, xiii, 3–7), una terza, nel corpo generale di leggi, quando fu stabilito il patto fra Jahveh e il popolo (ivi, xxiii, 15), una quarta, nella consegna delle seconde tavole del Decalogo (ivi, xxxiv, 18), una quinta, nella legge generale intorno alle feste solenni (Levitico, xxiii, 6). Le altre feste sono anchʼesse ripetutamente imposte (Esodo, xxiii, 16, 17; xxxiv, 22, 23; Levitico, xxiii, 15–22, 33–44) e due volte imposto anche il giorno della penitenza annuale (Lev., xvi, 29–31; xxiii, 27–32), senza tener conto chetante della festa delle azzime, quanto delle altre, si parla ancora in altro luogo (Num., xxviii, xxix); perchè qui la ripetizione potrebbe avere un motivo plausibile, trattandovisi più specialmente dei sacrificii da doversi offrire in tali solennità.
Due volte, e quasi colle stesse parole, è ripetuto il comando di dovere nelle tre maggiori solennità dellʼanno, cioè nella Pasqua, nella Pentecoste e nella festa di Capanne, tutti i maschi presentarsi dinanzi a Jahveh, cioè nel luogo consacrato al suo culto (Esodo, xxiii, 17; xxxiv, 23).
Almeno dieci volte è comandata lʼosservanza del sabato (Esodo, xvi, 23–30; xx, 8–11; xxiii, 12; xxxi, 12–17; xxxiv, 21; xxxv, 2; Levit., xix, 3, 30; xxiii, 3; xxvi, 2). Cinque volte è imposta la consacrazione dei primogeniti (Esodo, xiii, 2; 12 e seg.; xxii, 28 e seg.; xxxiv, 19 e seg.; Num., xviii, 14–17). Lʼobbligo di adorare un sol Dio, e di non prestare culto a nessuna immagine lo vediamo più volte ripetuto (Esodo, xx, 2–5; xxii, 19; xxiii, 13, 24, 32; xxxiv, 14–17; Levit., xix, 4; xxvi, 1).
Due volte è comandato di non sacrificare i figli al Dio Moloch (Levit., xviii, 21; xx, 2–5), quattro di non darsi alle pratiche superstiziose della magia e della divinazione (Esodo, xxii, 17; Levit., xix, 31; xx, 6, 27), tre volte è proibito lʼadulterio (Esodo, xx, 14; Levit., xviii, 20; xx, 10), due il furto (Esodo, XX, 15; Levit., xix, 11), lʼincesto (Levit., xviii, 6–18; xx, 11–14), la sodomia (ivi, xviii, 22; xx, 13), la bestialità (ivi, xviii, 23; xx, 15), il giurare in falso (Esodo, xx, 7; Levit., xix, 12), il maledire i genitori (Esodo, xxi, 17; Levit., xx, 9); due volte pure è imposto di onorarli (Esodo, xx, 12; Levit., xix, 3), e due volte è ripetuta la legge del taglione (Esodo, xxi, 23–24; Levit., xxiv, 18–20), tre volte è comandato di amare i forestieri e di trattarli con riguardo (Esodo, xxii, 20; xxiii, 9; Levit., xix, 33 e seg.), e due volte al contrario di non venire a patti con i popoli che abitavano la terra promessa (Esodo, xxiii, 32, 33; xxxiii, 12–15), tre volte è imposto di amministrare rettamente la giustizia, senza timore verso il ricco e potente, e senza riguardo verso il povero (Esodo, xxiii, 3, 6; Levit., xix, 15, 35), due volte è comandato di lasciare in favore dei poveri una parte del campo senza mietere, e la spigolatura della mèsse (Levit., xix, 9; xxiii, 22), due volte è imposto di non prestare ad usura (Esodo, xxii, 24; Levit., xxv, 36). E se per alcune di queste ripetizioni può in parte trovarsi una scusa, trattandosi di leggi o precetti che formavano la base dellʼIsraelitismo, e si può dire che il legislatore non si sentiva mai appagato di averli abbastanza raccomandati e inculcati nel cuore e nella mente, questa scusa però non può valere per tutte, e molto meno per certi minuti precetti, che imposti una volta in una forma precisa ed esatta, non si guadagnava nulla a ripeterli.
Quattro volte, senza contare nè il Genesi nè il Deuteronomio, è ripetuta la proibizione di cibarsi del sangue degli animali (Levit., iii, 17, vii, 26, xvii, 10, xix, 26), tre volte quella di mangiare gli animali morti di morte naturale, o lacerati dalle fiere (Esodo, xxii, 30; Levit., xi, 40; xvii, 15).
Due volte sono ripetuti o con identiche parole, o con molto simili, i precetti di non cuocere un capretto col latte della madre, di non accompagnare col pane lievitato il sangue del sacrifizio, di non lasciare fino alla mattina il sevo del sacrifizio pasquale, e di portare al tempio le primizie dei raccolti (Esodo, xxiii, 18 e seg.; xxxiv, 25 e seg.), il quale ultimo comando è ancora ripetuto una terza volta dove trattasi in generale delle rendite sacerdotali (Num., xviii, 11, 13). Due volte è imposto il sacrifizio quotidiano (Esodo, xxix, 38–42; Numeri, xxviii, 1–8). Due volte è proibito di mangiare dopo il secondo giorno, nel quale fossero offerte, le carni di certi sacrifizi votivi detti Shelamim (Levit., vii, 16–18; xix, 5–8). Due volte è comandato di lasciare ai poveri i prodotti rurali dellʼanno settimo, chiamato anno di rilascio (Shemità) e ancora anno sabatico (Esodo, xxiii, 11; Lev., xxv, 3–6). Due volte è ripetuto il precetto di offrire un sacrifizio espiatorio per i peccati involontarii, fossero questi commessi o dal pubblico, o da privati individui (Levit., iv, 13 e seg., 27 e seg.; Num., xv, 22–31). Finalmente due volte con parole quasi identiche è ripetuto il precetto di fornire lʼolio necessario per accendere il candelabro nel tabernacolo (Esodo, xxvii, 20 e seg.; Levit., xxiv, 1 e seg.). E forse questa enumerazione di precetti più volte ripetuti potrebbe anche accrescersi di qualche altro esempio; ma bastano al nostro assunto quelli citati.
Nè è soltanto la ripetizione che osta ad ammettere un solo compositore di questa legislazione ELN, ma anche la forma nella quale siffatta ripetizione ci apparisce. Può ammettersi fino ad un certo punto che un legislatore di un popolo primitivo e rozzo, oltre lʼavere imposto una o più leggi fondamentali nella precisa forma giuridica, torni poi a raccomandarne lʼosservanza in un discorso esortativo, ma la ripetizione, come vera e propria legge non è ammissibile. Anche poi indipendentemente da questa osservazione, vi sono nella parte precettiva del Pentateuco tali ripetizioni, delle quali non si può proprio trovare un perchè lo stesso scrittore vi sarebbe caduto. Tale è il comando di consacrare i primogeniti umani e degli animali esposto prima nel v. 2 del capitolo xiii dellʼEsodo, e poi ripetuto nei vv. 12–13 dello stesso capitolo. Perchè il legislatore non avrebbe addirittura, dopo aver accennato quel dovere, indicato ancora il modo come si doveva praticare?
Altro esempio più concludente dello stesso genere può trarsi dal capitolo xxxiv dellʼEsodo. Se vogliamo pure tenere per vera la ragione dataci della fattura di due nuove tavole del Decalogo, perchè le prime erano state spezzate da Mosè, quando allo scendere dal Sinai vide il vitello dʼoro eretto come idolo dal popolo (Esodo, xxxii, 19); non sappiamo davvero trovare una ragione sufficiente per ispiegare la ripetizione dei precetti contenuti nel XXXIV, 11–26, mentre erano stati già esposti o nel Decalogo o nel successivo corpo di leggi (cfr. xxiii, 15–19) o nel cap. xiii.
Un terzo esempio si può allegare dal capitolo xxxv, che incomincia con le seguenti parole: «Mosè adunò tutta lʼadunanza dei figli dʼIsraele, e disse loro: queste sono le cose che comandò Jahveh di eseguire». Ogni lettore si aspetterebbe qui una sequela di ordini e di precetti. Tutto invece si restringe al coniando di osservare il riposo del sabato, perchè col verso 4 incomincia un altro discorso con una nuova introduzione riguardo al dovere di raccogliere offerte dʼogni genere per lʼedificazione del tabernacolo.
Il riposo poi del giorno del sabato, è, come già abbiamo veduto, più volte imposto, e qui si aggiunge soltanto di non accendere in quel giorno il fuoco. Ma da un lato questa ripetizione, dallʼaltro il trovarsi esposto un solo precetto, mentre nel primo verso si enunciano più cose, induce a concludere che non si possa dare altra spiegazione ragionevole dei tre primi versi del capitolo XXXV, se non riconoscendo in essi un breve frammento di una raccolta più estesa di leggi e riti, inserito qui dal compilatore, perchè pare vagli questo, a torto o a ragione, il luogo più opportuno.
I capitoli xix e xx del Levitico, i quali contengono più leggi e precetti in parte già imposti al popolo in raccolte di leggi che ad essi precedono, e che nel medesimo tempo formano per il contenuto e per lo stile qualche cosa di compiuto in loro stessi, non si sa vedere perchè si trovino nel luogo ove oggi sono, se non vogliamo anche qui riconoscere alcune piccole raccolte di leggi, messe insieme da un più recente compilatore. La qual cosa si farà innanzi più chiara, quando più minutamente nei suoi particolari esporremo questa parte della legge ELN. Ed è certo che solo questa ipotesi di una compilazione di più documenti originarii può spiegare la composizione della legge del Pentateuco, quale oggi lʼabbiamo, con le sue illogiche e inutili ripetizioni, che si trovano espresse le più volte senza allusione al già detto; e proprio come se si trattasse di comandare cosa non mai prima enunciata.
Lʼesegesi delle scuole talmudiche ha bene avvertito questa difficoltà, e avendo dallʼaltro lato stabilito a priori il principio che nella Scrittura, come divina rivelazione, non può e non deve contenersi nemmeno una lettera dʼinutile o di soverchio, ha voluto trovare ragione, se non di tutte, almeno di molte di queste ripetizioni. Ma fa dʼuopo ben riconoscere che qui le scuole talmudiche hanno dato soltanto prova di una sottigliezza sofistica e falsa. Basterà citare qualche esempio. Tre volte, computando anche il Deuteronomio, è ripetuto nel Pentateuco il precetto di non cuocere il capretto col latte della madre, e precisamente con le identiche parole. Ebbene, il Talmud insegna che una di queste proibizioni vale per inibire di cibarsi di tale cucinato, lʼaltra di usarne in qualsivoglia altro modo, e la terza di semplicemente cucinarlo.[16]
Dallʼessere quattro volte ripetuto, computando anche qui il Deuteronomio, il precetto di portare gli avvertimenti di Jahveh sulla mano e fra gli occhi, il Talmud vuole dedurne che quattro dovevano essere i paragrafi biblici scritti nelle filatterie.[17]
Se nel Decalogo è comandato di non rubare, e nel Levitico (XIX, 12) il precetto è ripetuto, il Talmud con la maggiore serietà vuole insegnarci che nel Decalogo si proibisce di rubare persone per farle schiave, e nel Levitico di rubare denaro o qualunque oggetto.[18] Eppure è adoperato nei due luoghi lʼidentico verbo ghanaz, e del rubare persone è esplicita la proibizione in altro luogo (Esodo, xxi, 16). Ma, senza citare altri esempi di tal genere, che anche tre soli bastano per condannare tutto un sistema di esegesi di simil fatta, esporremo solo un modo generale dʼinterpetrazione, col quale spessissimo nel Talmud si vuole giustificare le ripetizioni delle leggi nel Pentateuco.
Se in un luogo si legge essere una data azione delittuosa sottoposta a una data pena, e in altro luogo si torna a proibire quella stessa azione, il Talmud spiega la ripetizione, dicendo che non basta istituire una pena per una azione che non è dalla legge stessa proibita, quasi il sancire la pena non valesse quanto dichiararla delittuosa. Così se nel capitolo xxii dellʼEsodo sono sancite le pene per le diverse specie di furto, ciò non sarebbe bastato, se nel Levitico non si fosse detto in termini generali non rubate. E ciò si enuncia nel Talmud in questi termini: «Qui impariamo la pena, ma lʼavvertimento proibitivo donde si deduce?»[19]
Le spiegazioni che le scuole teologiche hanno voluto dare delle ripetizioni legislative del Pentateuco sono presso a poco tutte dello stesso valore, e qui abbiamo voluto dare solo qualche esempio di quelle talmudiche, perchè forse meno generalmente conosciute, ma lʼinsistervi più oltre sarebbe inutile. Passiamo piuttosto alla più grave obbiezione che impedisce di ammettere nella legislazione del Pentateuco un solo autore, vogliamo dire il fatto di esservi non poche contraddizioni; e qui è necessario prendere in esame anche il Deuteronomio. Imperocchè se le ripetizioni di questo libro non ostano al concetto tradizionale della legge mosaica, vi ostano, e insuperabilmente, le contraddizioni di esso verso gli altri libri del Pentateuco.
La parte più importante di tutta la legge, e come il centro intorno al quale si aggira, è certo per comune consenso il Decalogo. Se il Deuteronomio non fosse altro che ripetizione della legge antecedentemente esposta, il Decalogo in esso contenuto (v, 6–21) dovrebbe essere identico a quello dellʼEsodo (xx, 2–17). Ma passando sopra piccole differenze di forma, la diversità della ragione data al precetto di riposare nel sabato difficilmente può conciliarsi. NellʼEsodo (ii, 11) la ragione è espressa in questi termini; «Perchè in sei giorni Jahveh fece il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e riposò nel giorno settimo, perciò benedisse Jahveh il giorno del sabato e lo santificò». Nel Deuteronomio invece si legge (v, 15). «E rammenterai che servo fosti nella terra dʼEgitto, e ti fece escire Jahveh tuo Dio di colà con mano forte e con braccio teso, perciò ti comandò Jahveh tuo Dio di fare il giorno del sabato». La differenza su questo punto è troppo profonda e troppo spiccata. Secondo una composizione del Decalogo la ragione del riposo del sabato si connette col primo capitolo del Genesi, col fatto cosmico della creazione, e lʼuomo deve riposare, perchè nel settimo giorno la creazione fu compiuta: questa ragione è del tutto teologica. Secondo lʼaltra composizione la ragione è del tutto nazionale, risguarda solo il popolo dʼIsraele, che deve riposare, in memoria di essere stato liberato dalla condizione di schiavitù, giacchè lo schiavo è condannato a incessante lavoro, e non può prendersi un giorno di riposo.
Ma se intorno al sabato si nota dolo questa differenza nella ragione del precetto, molto più grave è la diversità intorno alle altre feste annuali. Secondo le leggi dellʼEsodo (xxiii, 15–17, xxxiv, 17–24) e del Deuteronomio (xvi) le feste nel corso dellʼanno sarebbero soltanto tre, la Pasqua delle azzime nella primavera, la Pentecoste, e la festa delle Capanne nellʼautunno; mentre secondo le leggi del Levitico (xxiii) e del Numeri (xxviii, 16–xxix) sarebbero almeno cinque, cioè oltre le tre enumerate, due altre al primo e al dieci del settimo mese. Se il Deuteronomio è una ripetizione della legge antecedente, come spiegare il silenzio delle due feste solenni, e principalmente quella del dieci del settimo mese, giorno per gli Ebrei solennissimo fra tutti, perchè destinato alla penitenza generale dei peccati? E nella legge stessa ELN, perchè questa diversità? Non si può supporre che i luoghi del Levitico e del Numeri siano un compimento di una legge imperfetta, quale dovrebbe essere di necessità quella dellʼEsodo se realmente, fino dallʼorigine le solennità annue fossero state cinque e non tre. Nè si può dire che nellʼEsodo si parli soltanto di feste che sarebbero veramente tre, mentre le altre due sarebbero solennità di altro genere; perchè vediamo nel Levitico xxiii che anche il primo giorno del settimo mese è chiamato, al pari della Pasqua, convocazione santa; e il riposo, la cessazione dal lavoro è del pari imposta per questo e per il giorno dieci dello stesso mese. Nè meglio varrebbe ricorrere allʼipotesi di uno svolgimento dʼidee religiose, per cui si fosse veduto lʼopportunità di stabilire altre due feste. Questo svolgimento può essere avvenuto in un lungo periodo di tempo, non durante il soggiorno nel deserto; e molto meno i sostenitori dellʼopinione dogmatica potrebbero proporre un cambiamento di concetto nella mente di Mosè. Altre contraddizioni esistono poi in molte parti del culto è del rituale.
Lʼaltare per i sacrifizi avrebbe potuto costruirsi o di terra, o di pietre, purchè non tagliate, e in qualunque luogo (Esodo, xx, 24 e seg.);[20] ma poi troviamo che lʼaltare del tabernacolo è costruito di legno e ricoperto di rame (ivi, xxvii, 1 e seg.) ed è proibito di offrire altrove ogni specie di sacrificio (Levit., xvii, 8, 9). La conciliazione proposta dai teologi che nel primo luogo dellʼEsodo si parli per il tempo anteriore alla costruzione del tabernacolo non può ammettersi, quando si rifletta che questo, secondo la narrazione biblica, fu ben presto costruito, e non sarebbe stato necessario dettare una legge apposita per lʼaltare, poichè pochissimi sacrifizi, o più probabilmente nessuno, oltre quello pubblico, di cui si fa menzione nel cap. xxiv, 4, saranno stati offerti dagli Ebrei in così breve tempo. Ma vi è da osservare di più che la disposizione del cap. XX, 24, 25 dellʼEsodo non ha per nulla lʼindole di transitoria e temporanea, ma di una legge perpetua regolatrice del culto. Il ricorrere poi allʼaltra ipotesi che si siano alternate nella vita religiosa del popolo ebreo diverse epoche, in alcune delle quali sia stato permesso, e in altre proibito, lʼoffrire sacrifizi in qualunque luogo al di fuori di quello consacrato al culto centrale, e che questa alternativa sia stata anticipatamente riconosciuta e sanzionata dalla legge mosaica, è cosa da relegarsi fra i sogni teologici.[21] Che infatto gli Ebrei abbiano continuato a offrire sacrifizi fuori del tabernacolo o del tempio centrale è vero, e che per un certo tempo non si sia opposta a tale uso nemmeno la legge è vero anche questo; ma la realtà del fatto è cosa ben diversa dalla esistenza di una legge che in anticipazione avrebbe preveduto e sanzionato non solo il succedersi di due costumanze diverse, ma anche il loro ripetuto alternarsi.
Per ultimo, se ciò mai potesse esser vero, sarebbe dʼuopo, per poterlo ammettere, che nella legge se ne facesse esplicita menzione, e si dicesse quando, e in quali circostanze si sarebbero potuti costruire altari e offrire i sacrifizi dovunque, e quando lʼesercizio del culto non era permesso, se non nel luogo centrale a ciò destinato. Potrebbe a prima vista credersi che di ciò si parlasse nel Deuteronomio (xii, 8 e seg.), perchè in questo luogo si dice che nel deserto ognuno faceva ciò che meglio gli talentava, mentre ciò non avrebbe potuto permettersi dopo compiuta la conquista della terra promessa. Ma questo passo non fa invece se non aggiungere la contraddizione di fatto a quella di diritto; perchè il Levitico (xvii, 8) proibisce di offrire sacrifizi fuori del tabernacolo incondizionatamente, anzi parla di accampamento, espressione che non è applicabile se non al tempo delle peregrinazioni nel deserto.
Che dire poi della conciliazione proposta dallʼIsaacita, secondo lʼinsegnamento talmudico, che le parole del Deuteronomio (xii, 8) si riferiscano non al tempo delle peregrinazioni nel deserto, ma a quello che immediatamente successe al passaggio del Giordano, vale a dire nei quattordici anni impiegati, secondo la tradizione, per la conquista e la divisione della terra promessa, nel qual tempo sarebbe stato permesso lʼoffrire sacrifizi in qualunque luogo? Ma il testo del Deuteronomio dice chiaramente «come noi facciamo qui oggi», e queste parole non possono riferirsi ad un tempo futuro, ma di necessità si riferiscono a una condizione presente a chi in quel momento parlava.
Dimodochè due sono qui le contraddizioni di diritto; in prima sul modo di costruire lʼaltare, in secondo luogo sulla proibizione o no di offrire sacrifizi in qualunque luogo si fosse; contraddizioni che si trovano nelle stesse leggi ELN. Ed una terza contraddizione poi nel fatto è quella che sorge dal Deuteronomio (xii, 8 e seg.), dove si menziona senza disapprovarlo un uso in opposizione con la legge anticipatamente promulgata.
Intorno al sacrifizio pasquale che gli Ebrei dovevano celebrare in Egitto, abbiamo nello stesso capitolo xii dellʼEsodo due leggi che fra loro punto non convengono. Secondo lʼuna (3–10), il rito del sacrifizio pasquale sarebbe stato di scannare un agnello o un capretto nel giorno quattordicesimo del mese primo, dopo averlo destinato fino dal giorno decimo, e mangiarne nella sera la carne arrostita con azzime ed erbe amare, e non farne avanzare per la mattina successiva, o bruciarla, caso ne avanzasse. Nellʼaltra (v. 21–27), di mangiare le azzime insieme col sacrifizio non si fa alcuna menzione, anzi non si parla del tutto della proibizione del pane lievitato. E ciò non sarebbe possibile, se fosse, come intende lʼinterpretazione tradizionale, che in questa seconda parte Mosè ripetesse agli anziani del popolo il comando ricevuto da Dio. Perchè la ripetizione, omettendo una parte importante, non sarebbe fedele. In due altri luoghi si aggiunge che non solo non poteva mangiarsi, ma nemmeno immolarsi questo sacrifizio insieme col pane lievitato (xxiii, 18, xxxiv, 25). Più discordante ancora da queste disposizioni è quella del Deuteronomio (xvi, 2), secondo la quale si sarebbe potuto fare il sacrifizio pasquale indifferentemente di animali ovini o bovini, mentre abbiamo veduto essere prescritto altrove un agnello o un capretto.[22]
Evidentemente queste leggi rituali non convengono punto fra loro, e troviamo in alcune ciò che nelle altre è del tutto ignorato.
Il sacrificio della festa di Pentecoste doveva constare, secondo una legge (Levit., xxiii, 18, 19), di un olocausto di sette agnelli, di un toro e di due montoni, di un sacrificio espiatorio di un capro, e di uno votivo (Shelamim) di due agnelli. Mentre in unʼaltra legge (Num., xxviii, 26–31) non si parla di sacrificio votivo, e lʼolocausto sarebbe constato di due tori, di un montone e di sette agnelli. Anche qui i talmudisti hanno cercato una conciliazione, interpretando che nei due passi citati si parli di due sacrifizi diversi, sebbene da doversi offrire nella medesima festa, e uno sarebbe stato per le primizie della mèsse, lʼaltro per la festa in sè stessa.[23] Ma ognuno vede quanto sia arbitraria questa conciliazione, che non ha nel testo nemmeno una parola che la giustifichi, e che sarebbe contraria ad ogni consuetudine delle altre feste.
In quanto alla consacrazione dei primogeniti, un passo dellʼEsodo (xiii, 13) stabilisce che fra gli animali impuri solo quelli degli asini erano sottoposti al riscatto, o altrimenti a dover essere uccisi, mentre in altro luogo (Num., xviii, 15) si parla in generale del riscatto dei primogeniti di tutti gli animali impuri senza nessuna distinzione. Rispetto poi al modo come doveva intendersi questa consacrazione dei primogeniti è patente la contraddizione fra il Numeri (xviii, 14–18) e il Deuteronomio (xii, 17, 18; xv, 19–23). Imperocchè nel primo luogo si dice che i primogeniti degli animali appartenevano ai sacerdoti, nel secondo è chiaro che la consacrazione consisteva soltanto nel fare dei primogeniti un convito sacro nel luogo del culto centrale, ma convito sacro che facevano i proprietarii, cui poteva prender parte ogni persona in istato di purità. I talmudisti hanno voluto togliere queste due contraddizioni con un principio del loro metodo esegetico, che le espressioni generali di un luogo sono limitate da quelle particolari di un altro. Ma se questo principio è giusto, quando sia rettamente inteso e applicato, non si può ragionevolmente invocare, se le espressioni del testo esplicitamente vi si oppongono. Il testo del Numeri dice chiaramente «il primogenito dellʼanimale impuro riscatterai»; non può adunque intendersi, come vorrebbero i talmudisti, che si riferisca solamente alla specie asino[24] ciò che è detto di tutte le specie di animali impuri. Molto meno poi si prestano alla interpretazione talmudica i passi del Deuteronomio. Nei quali evidentemente il legislatore si dirige a tutto il popolo: «Non potrai mangiare nelle tue città la decima del tuo grano, del tuo mosto, del tuo olio, e i primogeniti dei tuoi buoi e delle tue greggie, e tutti i voti che prometterai, e le tue offerte, e lʼoblazione della tua mano. Ma soltanto dinanzi Jahveh tuo Dio li mangerai nel luogo che eleggerà Jahveh tuo Dio, tu e tuo figlio, e tua figlia, e il tuo servo e la tua serva, e il levita che è nelle tue città, e ti rallegrerai dinanzi Jahveh tuo Dio in tutto il prodotto delle tue mani». (Deut., xii, 17, 18). E altrove: «Ogni primogenito che nascerà nei tuoi buoi e nelle tue greggie maschio consacrerai a Jahveh tuo Dio, non lavorerai col primogenito del tuo bue, nè toserai il primogenito della tua greggie; dinanzi Jahveh tuo Dio lo mangerai anno per anno nel luogo, che sceglierà Jahveh, tu e la tua famiglia». (XV, 19, 20). Come è possibile che le parole «lo mangerai» si dirigano soltanto ai sacerdoti, come interpetra lʼIsaacita, anche in ciò pedissequo del Talmud, mentre tutto il discorso di necessità si deve intendere rivolto a tutto il popolo?
Non si può adunque in alcun modo negare che riguardo ai primogeniti prevalsero successivamente nel popolo costumanze, e quindi leggi diverse.
Il servizio dei leviti per il culto, secondo alcuni testi (_Numeri_, IV, 3, 23, 30, 39, 47), avrebbe dovuto durare dallʼetà di trentanni fino a cinquanta, ma poi, secondo un altro passo (ivi, VIII, 24), avrebbe dovuto incominciare da venticinque anni. E stata proposta la conciliazione che i cinque primi anni dovessero intendersi come di un tirocinio, e non di un vero e proprio servizio;[25] ma ciò non resulta in nessun modo dai testi messi a fronte tra loro, perchè non solo non fanno questa distinzione, ma usano le stesse frasi, lo che sta a provare che dalla lettera del testo viene anzi esclusa.
In quanto alle altre rendite sacerdotali è pure patente la contraddizione fra le leggi ELN e quella del Deuteronomio. Secondo la prima, i sacerdoti avrebbero avuto dei sacrifizi votivi il petto e la coscia destra di ogni animale immolato (Levit., vii, 34), più tutti i sacrificii espiatorii, e oltre i primogeniti, come testè abbiamo accennato, le primizie dei prodotti agrarii (Num., xviii, 8–20).[26] I leviti poi, ministri dei sacerdoti nel servizio del culto, avrebbero avuto la decima di tutti i prodotti, da cui dovevano a lor volta prelevare il decimo a vantaggio dei sacerdoti (ivi, 21–30). Mentre, secondo ciò che è scritto nel Deuteronomio (XVIII, 3), la parte dei sacerdoti nei sacrifizi sarebbe stata la coscia, le ganasce e il ventricolo, e i leviti non avrebbero avuto se non una parte, rimessa alla generosità dei proprietarii della decima, che come cosa consacrata avrebbero essi stessi dovuto godersi con la propria famiglia, andando in occasione delle feste nella città del culto centrale (ivi, XIV, 22–27). Di più, distribuivasi ogni tre anni la decima ai bisognosi di ogni luogo, fra cui vengono specialmente annoverati i leviti, i forestieri, gli orfani e le vedove (ivi, 28, 29; XXVI, 12). Queste due disposizioni non possono in niun modo insieme accordarsi; perchè se i leviti, che erano circa la cinquantesima parte di tuttala popolazione,[27] avessero avuto la decima di tutti i prodotti, sarebbero stati ricchi cinque volte più della media dei loro concittadini, e non avrebbero potuto annoverarsi in niun modo tra i bisognosi. Ma i talmudisti passarono sopra questa difficoltà, vollero vedere nella decima imposta nel Deuteronomio una cosa diversa da quella del libro dei Numeri, e la chiamarono decima seconda, come decima, del povero dissero quella da prelevarsi ogni tre anni.
In quanto alla proibizione di mangiare gli animali morti di morte naturale, o lacerati dalle fiere, mentre lʼEsodo parla soltanto di questi, e dice assolutamente di non mangiarne, ma di gettarne la carne ai cani, nel Levitico (xi, 40; xvii, 15) si legge che chi avesse mangiato indifferentemente o degli uni o degli altri, o fosse cittadino, o forestiero, sarebbe stato impuro e sottoposto al rito della purificazione. E fin qui noi non sappiamo vedere quella contraddizione che altri critici vi notano,[28] perchè la proibizione è posta nellʼEsodo come norma; se poi alcuno o volontariamente o involontariamente lʼavesse trasgredita, si trovava impuro. La contraddizione però è nel Deuteronomio (xiv, 21), dove si parla solo di animali morti naturalmente, e si permette di dare di queste carni ai forestieri che si trovassero nel territorio israelitico. I rabbini hanno distinto fra il forestiero che si fosse fatto proselita, e quello che non si fosse sottomesso se non che ai precetti dei Noachidi, ma oltre che questa distinzione dal testo non resulta, sʼintendeva da sè che il proselita era sottoposto al rito del pari che lʼisraelita di nascita.
Se passiamo ora alle leggi civili e di ordine morale, incontriamo anche in queste due gravi contraddizioni. La prima intorno al riscatto degli schiavi ebrei. Nella legge dellʼEsodo (xxi, 2, 6) si stabilisce che lo schiavo ebreo avrebbe dovuto tornare in libertà dopo sei anni, tranne il caso in cui egli stesso avesse dichiarato di preferire lo stato di servitù, che allora rimaneva servo a perpetuità. A questa legge si conforma quella del Deuteronomio (xv, 12–18), eccettochè non contiene alcune disposizioni più miti riguardo alla donna schiava. Ma la legge del Levitico (XXV, 39, 40) è da un lato più dura assai, perchè fissa il tempo della liberazione soltanto allʼanno del Giubileo, che cadeva ogni 50 anni, e così vi doveva essere spesso il caso che uno schiavo invecchiasse o anche morisse nello stato di servitù. Ma certo è che il tempo di sei anni non può combinare con questo del Giubileo.—I talmudisti hanno conciliato la difficoltà, interpretando la frase dellʼEsodo che suona: e servirà per sempre, come dicesse: e servirà fino al Giubileo; i sei anni poi dovevano computarsi intieri, quando nel corso di essi lʼanno del Giubileo non cadesse, ma se ciò avveniva, la liberazione si effettuava anche –prima che i sei anni fossero compiuti.[29] Hanno voluto inoltre fare anche una distinzione fra i due testi, interpretando, come meglio si vedrà più innanzi, quello dellʼEsodo per il servo venduto giudiziariamente, e quello del Levitico per chi si fosse venduto schiavo volontariamente. Distinzione del resto che non ha nessun ragionevole fondamento.
La seconda contraddizione è intorno al matrimonio con la vedova del fratello. La legge del Levitico lo proibisce esplicitamente in due luoghi (xviii, 16; xx, 21), mentre il Deuteronomio impone quasi come obbligò al fratello del defunto di sposarne la vedova, quando non avesse lasciato prole, e se si fosse ricusato, era poco meno che ricoperto di vergogna (xxv, 5–10). Sʼintende che la conciliazione qui proposta è di distinguere il caso della cognata con prole da quella che ne è priva;[30] ma il testo del Levitico proibisce il matrimonio fra cognati senzʼalcuna distinzione. per concludere intorno a queste contraddizioni, termineremo collʼosservare che quando si parte dal preconcetto dogmatico che il Pentateuco sia parola divina, ne discende di conseguenza che contraddizioni non possono esservi; deve anzi tutto insieme concordare, anche se la mente umana non può trovare la conciliazione. Ma a chi esamina i fatti senza alcun preconcetto nè dogmatico nè miscredente, le contraddizioni si appalesano da sè, e la conciliazione non è possibile. Testimone eloquentissimo di tale verità è ciò che avvenne al celebre Colenso. Dunque concludiamo che una legge che si contraddice nelle sue diverse disposizioni non può essere opera di un solo uomo, eccetto che questi non abbia espressamente avvertito di voler abrogare o correggere con la disposizione successiva quella antecedente. Ma questo non è il caso per la legislazione del Pentateuco.
Vi è da ultimo a notare quale sia veramente la relazione della legge del Deuteronomio con quella dei precedenti libri; perchè, oltre le sopra esposte contraddizioni, esso è tale che non può in verun modo tenersi nè ripetizione nè compimento di quella. Non ripetizione, perchè in parte contraddice la legge antecedente, e in parte contiene moltissime disposizioni, di cui in quella non si fa alcuna menzione; non complemento, perchè in tal caso avrebbe dovuto sola esporre le leggi aggiunte alle prime, e non ripetere ancora, come infatti si vede, molte delle antecedenti. Di più, la legge deuteronomica è in sè qualche cosa di compiuto, che per intima indole e per differenza di forma si distingue troppo da quella ELN. Ma qui possiamo di volo accennare questi tre punti che saranno svolti, quando più innanzi faremo del Deuteronomio una compiuta analisi. Qui ci basti avere dimostrato che il concetto dogmatico di una legge mosaica non si accorda con lʼesame critico della legge stessa, quale ci è nel Pentateuco conservata. Questa dimostrazione, desunta qui dallʼesame interno della legge stessa, potrebbe venire avvalorata anche da quello dei libri storici, profetici e poetici del Vecchio Testamento, per iscoprire in quale relazione stiano con la legge; ma questo esame è necessario rimettere a quando dovrannosi trovare i criterii per istabilire lʼetà della composizione delle diverse parti della legge e della sua finale compilazione.