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Capitolo III
ОглавлениеCENNO SULLE CONCLUSIONI DELLA CRITICA
INTORNO ALLA COMPOSIZIONE DEL PENTATEUCO
Se non può essere uno solo nè lo scrittore originale del Pentateuco, nè lʼautore di tutte le leggi in esso contenute, fa dʼuopo prendere partitamente in esame le varie raccolte di leggi e anche quelle isolate che vi si trovano sparse. La quale ricerca non può del tutto staccarsi dallʼaltra, intorno alla composizione del Pentateuco. E però, senza troppo in essa addentrarci, basterà accennare i più probabili resultati, ai quali oggi la critica è pervenuta.
Fondandosi anche per la parte narrativa sulle medesime ragioni sopra esposte per quella legislativa, cioè le allusioni a tempi, fatti e circostanze posteriori e di non poco alla età mosaica, le ripetizioni e le contraddizioni che nei racconti o leggendarii o storici sono anche maggiori che nelle leggi, i più dei critici si accordano a distinguere nel Pentateuco tre principali documenti originarii, cioè: 1o uno scritto chiamato da alcuni elohistico, perchè vi si usa principalmente nelle parti che precedono il capitolo vi dellʼEsodo il nome divino Elohim, piuttostochè quello di Jahveh; 2o altro scritto detto Jehovistico, o Jahvistico, per la ragione che si usa a preferenza il nome di Jahveh; 3o il Deuteronomio.
Non tutti però sono concordi nel nome dei due primi, perchè lo scritto elohistico è detto ancora Libro delle origini,[31] Scritto fondamentale,[32] Libro detta legge e delle genealogie,[33] Scritto annalista,[34] Libro dei quattro patti, cioè di Adamo, di Noè, di Abramo e di Mosè, e indicato però con la lettera Q,[35] Codice sacerdotale,[36] e anche è indicato con la semplice lettera A.[37]
Il secondo è chiamato altresì Profetico,[38] o Supplementare,[39] perchè si tiene che non ci sia mai stato uno scritto jehovistico per sè, ma che solo con alcuni sparsi frammenti si sia compiuto lo scritto elohistico, o quarto narratore,[40] o indicato colla lettera B,[41] o con quella C,[42] secondo che gli si assegna il secondo o terzo posto nellʼordine cronologico.
A questi tre principali documenti originarii si crede dai più che si debbano aggiungere altri scritti o di minore importanza o di minore estensione, come alcuni canti di origine antichissima, alcune leggi isolate, o anche brevi raccolte legislative; ma qui nel computare e nel valutare queste altre fonti troviamo nei critici una maggiore discordanza. È però oggi dai più concordato che fra i documenti originali ci sia stato uno scritto, detto da alcuni secondo elohista, perchè credono trovarvi analogie col primo di questo nome, di cui solo alcuni sparsi frammenti ci siano conservati nellʼattuale compilazione del Pentateuco, perchè o il Jehovista gli accolse nella sua opera, conservandone presso a poco la forma primitiva, oppure perchè questa combinazione di due fonti diverse sia fatta da un più recente compilatore; ma lo scritto nella sua integrità sarebbe perduto. E anche qui troviamo disaccordo nel nome, perchè altri lo chiamano il Terzo Narratore,[43] altri vogliono trovarci, almeno in parte, il Libro del Retto,[44] di cui si parla nella stessa Scrittura (Josuè, x, 13; 2o Sam., i, 18), altri lo dicono il Narratore Teocratico[45] altri lo indicano colla lettera B[46] o con quella C,[47] altri finalmente lo tengono come il vero e solo Elohista.[48]
Anche intorno al modo della compilazione sono discordi le opinioni. Per alcuni la compilazione dei primi quattro libri avrebbe preceduto la composizione del Deuteronomio, dimodochè vi sarebbe stato un compilatore per quelli, e poi lʼautore del Deuteronomio avrebbe allʼopera già esistente unito la sua,[49] o questa unione sarebbe stata fatta da un altro compilatore. Ad opinione poi di altri, la fusione in una opera sola dei diversi scritti originarii sarebbe avvenuta soltanto dopo la parziale composizione di ognuno di questi, tanto più che per alcuni il Deuteronomio sarebbe anteriore a gran parte dei primi quattro libri.[50] Per ultimo lʼopinione oggi prevalente riconosce che anche il libro di Giosuè forma una cosa sola coi cinque libri detti mosaici, dimodochè avremmo piuttosto un Hexateuco che un Pentateuco. Ad ogni modo pera il compilatore si sarebbe valso delle fonti che aveva dinanzi a sè, cercando di fare unʼopera che avesse, per quanto era possibile col suo metodo di compilazione, unità di soggetto e di fine. E diciamo per quanta era possibile, imperocchè il suo metodo pare che fosse di conservare la forma primitiva degli scritti originarii, attaccando successivamente i diversi passi ora, dellʼuno ora dellʼaltro, e inserendo anche talvolta qualche frammento o rimasto fuori dei principali scritti; originarii, o di questi più recente. In questo solo modo possiamo spiegare come certi passi del Pentateuco disturbino troppo apparentemente lʼordine e il piana della composizione. Ne siano di esempio i capitoli xxiv e xxvii del Levitico, il v e il vi e alcuni altri del Numeri, sui quali a suo luogo ci tratterremo. Avrà inoltre il compilatore soppresso le ripetizioni che si sarebbero immediatamente succedute, o quelle fra le contraddizioni che più lo avranno colpito, e frapposto qua e là alcune frasi necessario o a connettere ciò che altrimenti sarebbe rimasto troppo scucito, o ad armonizzare ciò che sarebbe apparso in troppo palese contraddizione, o finalmente anche a spiegare ciò che per i suoi contemporanei sarebbe riuscito oscuro. Ma non ostante siffatto studio di connessione e di armonizzamento, siccome questo compilatore non ha di nuovo composto unʼopera sua, ed invece ha solo combinato insieme quelle che già esistevano, tentando da diversi scritti formarne uno solo; se pure è difficile ristabilire in tutti i più minuti particolari la primitiva composizione delle fonti originarie, si può benissimo dallʼaltro lato riconoscerne la diversità, e trovare anche in molti casi il punto ove, per dir così, i diversi pezzi sono stati insieme cuciti. Adduciamo un solo esempio nel seguente passo tratto dalla vocazione di Mosè.
Si narra in prima che Mosè, profugo nei deserti dellʼArabia, fu chiamato da Jahveh, e ne ricevette la missione di liberare gli Ebrei dallʼEgitto. Dopo molte esitazioni ad accettare questʼincarico, fondate danna parte sulla poca fede che gli Ebrei avrebbero avuto in lui, dallʼaltra sopra il suo naturale difetto della balbuzie, si risolve a partire per lʼEgitto ed a compiere la ricevuta passione, perchè rassicurato da Dio che gli Ebrei, mediante i prodigi da lui operati, gli avrebbero creduto, e alla balbuzie avrebbe riparato col far parlare in vece sua il fratello Aron.
Si racconta quindi il viaggio in Egitto, lʼincontro col fratello, la fede ottenuta mediante i miracoli presso il popolo; ma il nessun buon esito presso il Faraone, che anzi impone agli Ebrei lavoro più gravoso. Questi non possono fare a meno di lamentarsene con Mosè e Aron, e Mosè alla sua volta ripete questi lamenti a Jahveh, il quale gli risponde (vi, 1): «Ora vedrai quello che farò a Faraone, che con mano forte li manderà, e con mano forte li caccerà dalla sua terra». Evidentemente con queste parole la vocazione di Mosè e la sua prima allocuzione, da una parte ai suoi fratelli, dallʼaltra al re dʼEgitto, sono compiute; ogni lettore si aspetta che sʼincominci a narrare quello che Dio fece per costringere il Faraone a liberare gli Ebrei, narrazione che si prende a fare col v. 14 del capitolo vii. Tutto ciò che sta fra mezzo è altra versione della prima vocazione di Mosè e del primo discorso tenutogli da Jahveh, tratta certo da una fonte diversa. E per meglio persuaderne il lettore, è prezzo dellʼopera darne la traduzione:
vi. 2, 3.E parlò Elohim a Mosè e disse a lui: io sono Jahveh.[51] E apparvi ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe come El Shaddai, e nel mio nome Jahveh non fui conosciuto a loro. 4.E anche mantenni il mio patto con loro per dare ad essi la terra di Canaan, la terra delle loro peregrinazioni, nella quale peregrinarono. 5.Ed anche io ho sentito il gemito dei figli dʼIsraele, che gli Egiziani tengono in servitù, e rammenterò il mio patto. 6.Perciò dico ai figli dʼIsraele: io sono Jahveh, e vi farò escire di sotto le oppressioni degli Egiziani, e vi libererò dalla loro servitù, e vi redimerò con braccio teso, e con giudizii sommi. 7.E vi prenderò a me come popolo, e sarò a voi come Dio, e conoscerete che io sono Jahveh Dio vostro, che vi trae di sotto le oppressioni degli Egiziani. 8.E vi porterò alla terra che ho giurato di dare ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, e darò quella a voi eredità: io Jahveh. 9.E parlò Mosè così ai figli dʼIsraele, e non gli prestarono ascolto per lʼangustia di spirito, e per la dura servitù. 10. 11.E parlò Jahveh a Mosè: Va parla a Faraone re dʼEgitto, e mandi i figli dʼIsraele dalla sua terra. 12.E parlò Mosè dinanzi a Jahveh, dicendo: ecco i figli dʼIsraele non mi ascoltarono, e come mi ascolterà Faraone? ed io sono balbuziente.[52] vii. 1.E disse Jahveh a Mosè, vedi ti ho posto come Dio a Faraone, e Aron tuo fratello sarà come tuo profeta; tu parlerai tutto ciò che ti comanderò, 2.e Aron tuo fratello parlerà a Faraone, il quale manderà i figli dʼIsraele dalla sua terra.
Non è possibile che questo passo in una composizione primitiva e tutta di uno stesso autore seguisse il v. 1o del capitolo vi, poco sopra tradotto, e ciò per più ragioni. In prima in questo passo si riprende la narrazione da principio, ed Elohim apparisce a Mosè, e gli fa conoscere il proprio nome come nel cap. iii, v. 15. In secondo luogo gli parla dellʼoppressione sofferta dagli Ebrei, come se non mai glie ne avesse parlato, e lo incarica di assicurarli di una pronta liberazione, perchè si rammentava del patto coi patriarchi, cosa anche questa già sopra esposta (iii, 16–17). In terzo luogo gli Ebrei, secondo questa versione, non si mostrano disposti a prestare ascolto a Mosè, allʼopposto di ciò che sopra è narrato (iv, 31). Nè si dica che qui si parlerebbe di una seconda o di una terza allocuzione di Mosè al popolo, perchè da tutto il contesto chiaramente si appalesa come la prima. Finalmente Mosè presenta la difficoltà della balbuzie, già di sopra appianata, e là presenta, come se non mai avesse parlato a Faraone, mentre nel capitolo v si narra appunto che Mosè, coadiuvato dal fratello, ad esso si era presentato, cosa anche questa che sta a confermare, come qui si parli di una prima allocuzione. Ma tutte queste difficoltà insuperabili nella ipotesi tradizionale della unica composizione di un solo autore spariscono nella ragionevole ipotesi della critica di una compilazione desunta da diverse fonti. E qui, come altrove, abbiamo nei capitoli ii–vi, 1, la narrazione della vocazione di Mosè e della prima sua missione agli Ebrei e a Faraone secondo lo scritto jehovistico, arricchito forse ancora in certi punti da documenti più antichi, e guasto altresì da più recenti interpolazioni; mentre nel passo da noi tradotto abbiamo la narrazione, secondo lo scritto elohistico, più breve, più arida, e spogliata, come è suo stile, da tutti gli episodii aneddotici, che rendono la narrazione del Jehovista tanto più viva e più dilettevole.
Questo fatto, di cui abbiamo dato un esempio, si ripete molte volte in tutta la parte narrativa dal principio del Genesi fino alla fine del libro di Giosuè. Dimodochè, senza entrare qui nei particolari che ci fuorvierebbero non poco dal nostro assunto, dichiariamo di accettare nelle sue linee generali, se non in tutti i particolari, la conclusione di quei critici, che vedono nella composizione dellʼHexateuco tre scritti principali, il Jehovista, lʼElohista e il Deuteronomio, combinati tutti e tre, ma in differente proporzione, con altri documenti più o meno estesi, in parte più Antichi e in parte più recenti. Sʼintenda bene però che per ora non vogliamo qui nulla concludere intorno alla età relativa di questi scritti originarii, cosa di cui tratteremo a suo luogo.
Prendiamo ora in esame ad una ad una le diverse parti legislative.