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Capitolo IV
ОглавлениеIL DECALOGO
Ad opinione di molti, prescindendo da alcune costumanze che nella gente ebrea saranno state antichissime, come la circoncisione, il diritto di primogenitura, il levirato e poche altre, si tiene che quella parte della legge detta Decalogo sia la più antica, e possa anche avere avuto per autore Mosè. Ma se questa nella sua generale enunciazione è una opinione che può accettarsi, non è però che sottoposta ad analitico esame non presenti nei suoi particolari alcune difficoltà. Il nome di Decalogo, che già si trova nella Scrittura (Esodo, xxxiv, 28; Deut., iv, 13; x, 4), è uno di quelli che hanno avuto più fortuna nella tradizione religiosa: Ebrei e Cristiani, tanto cattolici quanto protestanti di tutte le sètte, non hanno mai esitato a dare questo nome ai due passi dellʼantico Testamento (Esodo, xx, 2–17; Deut., v, 6–21), il contenuto dei quali sarebbe stato in origine, secondo la tradizione, scolpito sopra due tavole di pietra. Anzi, secondo alcuni dei moderni critici, il numero di dieci e talvolta quello di cinque sarebbe stato la base di molte altre parti della legislazione mosaica, che dividono perciò in tanti gruppi, composti la maggior parte di dieci, e talora di cinque precetti, ed è cognito ormai che il Bertheau ha fondato su questo principio tutto il suo libro intorno alla legislazione ELN.[53] Ma però se tutti sono concordi a chiamare Decalogo il contenuto dei due citati luoghi del Vecchio Testamento, non poche divergenze si trovano nel modo di dividerlo in dieci comandamenti. E siccome volgarmente se ne ha cognizione più per il catechismo che per lettura diretta della Bibbia, non sarà del tutto soverchio metterne dinanzi agli occhi del lettore la traduzione. Seguiremo la lezione dellʼEsodo, notando le varianti del Deuteronomio:
xx. 2.Io sono Jahveh tuo Dio, che ti feci escire dalla terra dʼEgitto, dal luogo di schiavitù. 3.Non siano a te altri Dei oltre la mia presenza. 4.Non ti fare scoltura, e qualunque immagine, che sia nel cielo di sopra, e nella terra di sotto, e nellʼacqua di sotto la terra. 5.Non ti prostrare a quelle, e non le adorare, che io Jahveh tuo Dio, Dio geloso, esaminatore della colpa dei padri sui figli, sui terzi e sui quarti [discendenti] per i miei nemici. 6.E faccio pietà a mille [generazioni], ai miei amici e agli osservatori dei miei comandi.[54]
7.Non pronunziare il nome di Jahveh tuo Dio in vano, che non ascolterà Jahveh chi pronunzia il suo nome in vano.
8. 9.Rammenta[55] il giorno del sabato per santificarlo.[56] Sei giorni lavorerai, e farai ogni tua opera; 10.e il giorno settimo sabato a Jahveh tuo Dio, non farai alcunʼopera tu, nè tuo figlio, ne tua figlia, il tuo servo, ne la tua serva,[57] nè il tuo bestiame, nè il forestiero che nelle tue città.[58]11. Perchè in sei giorni fece Jahveh il cielo e la terra, il mare, e tutto ciò che è in essi, e riposò nel giorno settimo, per ciò Jahveh benedì il giorno del sabato, e lo santificò.[59]
12.Onora tuo padre e tua madre,[60] acciocchè si prolunghino i tuoi giorni[61] sulla terra che Jahveh tuo Dio dà a te.
13.Non uccidere.
14.Non commettere adulterio.
15.Non rubare.
16.Non deporre contro il tuo prossimo testimonianza falsa.[62]
17.Non desiderare la casa[63] del tuo prossimo.
Non desiderare[64] la moglie[65] del tuo prossimo,[66] nè il suo servo, nè la sua serva, nè il suo bove, nè il suo asino, nè tutto ciò che è del tuo prossimo.
La divisione in dieci capoversi da noi qui seguita è quella dei Masoreti, che si uniforma al computo dei dieci comandamenti secondo S. Agostino, la Chiesa cattolica e la luterana. Il primo capoverso conterrebbe un solo comandamento intorno al monoteismo scevro dʼidolatria, i due ultimi capoversi conterrebbero due comandamenti, distinguendo il peccato di desiderio rispetto alla roba da quello rispetto alla donna altrui. Alla quale divisione si presta meglio la lezione del Deuteronomio che quella dellʼEsodo. Imperocchè la prima, ponendo in una proposizione distinta il desiderio della moglie altrui, distingue questo peccato da quello del desiderio degli altrui averi; mentre, secondo la lezione dellʼEsodo, si avrebbe prima il desiderio dellʼaltrui casa, come quello di un tutto, di cui poi sarebbero specificate le parti, e fra queste sarebbe annoverata anche la moglie. Seguendo questa lezione, è chiaro che il comandamento diretto a proibire in genere tutto ciò che appartiene al prossimo, sia la donna, sia la roba, non si può distinguere in due, ma va computato come uno solo. Difatti così lo computano gli Ebrei, malgrado la divisione masoretica dei paragrafi, e così lo computano anche Origene e le Chiese protestanti, eccetto la luterana. A compire poi il numero tradizionale di dieci, sono costretti a distinguere il primo paragrafo in due comandamenti. Ma anche qui si manifesta un altro disaccordo, imperocchè gli Ebrei seguendo il Talmud[67] e il pseudo Jonathan, cui si uniforma il Nachmanide, valutano per primo comandamento il secondo verso, che contiene lʼaffermazione dellʼesistenza di un solo Dio, e per secondo comandamento i VV. 3–6 che proibiscono la credenza in altri Dei, e lʼadorazione delle immagini; mentre Origene e i luterani e anche alcuni commentatori ebrei tengono il secondo verso come introduzione, il terzo che proibisce la credenza in altri Dei come il primo comandamento, e i versi quarto e quinto come il secondo comandamento, che proibisce lʼadorazione delle immagini.
Fra i dottori ebrei è notevole poi lʼopinione del Maimonide, il quale conta per quattro comandamenti distinti i quattro versi 2–5,[68] e così si avrebbero tutti insieme tredici comandamenti invece di dieci.[69] Ma siccome questo numero è antichissimo nella tradizione, ed è fondato anche sulla ragione naturale che ha fatto adottare la numerazione a base 10, crediamo che non vi sia alcuna ragione per non vedere in questi due passi della Scrittura nellʼEsodo e nel Deuteronomio un vero e proprio Decalogo, per la divisione del quale nella forma che ora abbiamo, ci pare più logico e razionale il computo di Origene, delle Chiese riformate e di alcuni commentatori ebrei.
Ma sorgono però altre domande. Fra le due lezioni dellʼEsodo e del Deuteronomio quale è lʼanteriore? Si è mantenuta la composizione originale nellʼuna o nellʼaltra, o tutte e due hanno subito delle modificazioni? E finalmente a quale età si deve riportare la prima composizione di questo Decalogo? Per procedere con maggiore ordine, e anche con più sicurezza, incominciamo dallo studiare siffatte quistioni nellʼordine inverso a quello in cui le abbiamo proposte.
Se noi esaminiamo il contenuto del luogo biblico testè tradotto, non vi troviamo nulla che oltrepassi il cerchio dʼidee di una gente ancora nomade, in mezzo alla quale era sorto un uomo di genio superiore, che voleva infondere in essa i principii di una vita religiosa morale e civile. Il concetto primo di allontanare gli Ebrei dalle credenze politeistiche di altre genti appare, secondo tutta la storia, che possa risalire fino a Mosè. E vero che i suoi conati non poterono trionfare se non dopo alcuni secoli; perchè il popolo a lui immensamente inferiore ricadeva in quelle pratiche superstiziose, dalle quali egli voleva farlo risorgere; e alcuni degli stessi sacerdoti, alcuni degli stessi datori di leggi, che gli succedettero, facevano concessioni alle superstizioni popolari, anzichè combatterle. E però noi concediamo che il concetto di un puro monoteismo sia rimasto oscuro e soffocato, fino che lo richiamarono in luce e in vita i profeti dellʼottavo secolo a. C.; ma non vi è nessuna ragione per negare che il primo concetto di questo monoteismo sia stato insegnato da Mosè. Dunque il principale fondamento di tutto lʼEbraismo, cioè il culto di Jahveh ad esclusione di quello di ogni altro Dio, che troviamo espresso nei due primi comandamenti, può benissimo risalire fino ai tempi che immediatamente successero alla liberazione dallʼEgitto. Gli altri due precetti che concernono le relazioni dellʼuomo con Dio, cioè di non usare in vano del nome di Jahveh, e di consacrare ogni sette giorni uno di riposo, sono, il primo, lʼimmediata conseguenza della credenza in un Dio, il secondo, la forma di culto più semplice che possa immaginarsi, e non repugnante a una vita ancora nomade. Gli altri sei precetti, che riguardano le relazioni con la famiglia e con la società, sono espressi in forme così generali, che si riducono a quei più fondamentali principii, senza dei quali non è possibile esista verun comune consorzio fra gli uomini. Difatti impongono soltanto il rispetto agli autori dei nostri giorni, e lʼinviolabilità della vita, dellʼonore, della roba e della famiglia altrui. Nessuna più speciale determinazione che accenni a uno stato di società piuttosto che ad un altro. I principii contenuti nel Decalogo sono necessarii al buon ordine, tanto della vita nomade di unʼorda di mongoli, quanto allʼincivilimento più avanzato di qualunque popolo europeo. Il solo tratto esclusivamente nazionale è quello di dover riconoscere Jahveh come solo Dio, perchè era stato il liberatore dalla servitù egiziana. Ma questo si confaceva appunto benissimo alle condizioni del popolo ebreo nellʼetà mosaica. Un Dio che allora era principalmente un Dio nazionale, doveva essere raccomandato allʼadorazione del popolo, giustʼappunto perchè a questo popolo aveva dato la base dellʼesistenza nazionale, cioè la libertà.
Potrebbe ancora da alcuno tenersi come troppo speciale al culto il comando di consacrare a Dio il settimo giorno della settimana. Ma si avrebbe torto di riportare a tempi di una civiltà appena appena incipiente la riflessione filosofica e razionalistica di altre età. Posto, come provano i fatti, che una religione, e una religione con forme, esteriori, sia stata, almeno fino adesso, una delle basi di quasi tutti i modi di vita civile, il consacrare un giorno al riposo del lavoro e a una festa in comune, poteva anche non poco influire a rendere più miti i costumi, ad educare a sentimenti di fratellanza, e a far pensare che tutti gli uomini in sostanza sono eguali, tutti, ed anche i servi, devono riposare nel giorno che è alla religione consacrato.
Nè questo concetto è da tenersi come tanto elevato da oltrepassare quellʼorizzonte dʼidee in cui erano chiusi gli Ebrei nella loro nomade vita. Sono appunto i popoli che ancora da essa non sono esciti, i quali nutrono più profondamente fra loro questo senso di eguaglianza, perchè nè guerre, nè conquiste, nè acquistate ricchezze hanno potuto creare una aristocrazia, e quindi nemmeno differenze sociali.
Se però in quanto allʼintimo contenuto del Decalogo nulla repugna ad attribuirlo a Mosè,[70] non è lo stesso per il modo di compilazione, nel quale ci è pervenuto. Osserviamo in prima la sproporzione dei diversi comandamenti. Estesissimi quelli intorno al monoteismo e allʼosservanza del sabato, constano invece di due sole parole nel testo ebraico quelli relativi allʼomicidio, allʼadulterio e al furto. Di più moderata estensione, ma pur sempre sproporzionata alla stringatissima brevità di questi tre, sono i comandamenti intorno al rispetto del nome divino, allʼautorità dei genitori e al desiderio della roba altrui. Questa sproporzione è difficile a conciliarsi nel concetto di dieci comandamenti tutti della medesima importanza, e che avrebbero dovuto tutti essere dettati in una forma breve per potere facilmente ritenersi a memoria.
Se poi i dieci comandamenti erano scolpiti in due tavole, è difficile immaginare come potessero, esservi proporzionalmente distribuiti secondo la loro presente composizione. Ad ovviare almeno in parte a questa difficoltà, la Chiesa cattolica forma dei tre primi componimenti la prima tavola, e degli altri sette la seconda. Ma secondo la tradizione ebraica, forse qui più vicina al vero, la quale distribuisce i comandamenti cinque per tavola, ciò non è in nessun modo ammissibile nella presente forma del Decalogo. O bisognerebbe supporre due tavole di troppo diversa grandezza, o, se erano eguali, doveva il contenuto soverchiare nella prima, e rimanere troppo scarso nella seconda.
Inoltre la Scrittura stessa chiama i dieci comandamenti col nome di dieci parole, ed è vero che il vocabolo ebraico Dabar (parola) può significare anche lungo discorso, ma questo nome speciale dato al Decalogo, mentre le altre parti della legislazione sono chiamate ora precetti (mizvoth), ora leggi (mishpatim), ora statuti (huqqoth o huqqim), fa credere che la ragione di chiamare questi, che erano il fondamento di tutta la legge, col nome di parole, sia stata quella di aver trovato che consistessero in brevi enunciazioni di altrettanti precetti.
Se quella poi che abbiamo fosse la primitiva composizione, più difficile sarebbe spiegare la diversità fra la lezione dellʼEsodo e quella del Deuteronomio. Qualunque delle due sia la più antica, è certo che quando il Decalogo originario si fosse gelosamente conservato in una forma consacrata dalla tradizione, lo scrittore più recente avrebbe avuto ogni ragione per seguirla con fedeltà, senza introdurvi nulla di nuovo. Ma se la forma originaria era molto più breve, nulla repugna ad ammettere che ognuno dei due scrittori, i quali hanno accolto il Decalogo nellʼopera loro, vi abbia fatto certe aggiunte, che in qualche parte differiscono, e si sia permesso anche certe piccole modificazioni; perchè la parte fondamentale, quella consacrata nella tradizione o sacerdotale o popolare, rimaneva intatta.
Per ultimo, una obbiezione assai grave, contro la possibilità che il Decalogo fosse nella sua origine quale oggi lo abbiamo, è la stessa sua estensione. Come ragionevolmente osserva il Reuss,[71] per iscolpire sulla pietra e coi caratteri che si usavano negli antichi tempi uno scritto tanto esteso (620 lettere), non sarebbe bastata una superficie di un metro e mezzo quadrato, ciò che avrebbe costituito un peso troppo sproporzionato per tavole che avrebbero dovuto invece facilmente trasportarsi dallʼuno allʼaltro luogo. Mentre, riducendo i dieci comandamenti ai soli nudi precetti, sopprimendo le ragioni, le minaccie della pena, la promessa del premio, e anche ciò che è pura ampliazione del primo concetto, ogni difficoltà è tolta, e ristabilita in questo modo la proporzione fra ognuno dei dieci comandamenti, si capisce che facilmente si potessero ritenere a memoria; si spiega il nome scritturale di dieci parole; si spiegano, almeno in gran parte, le differenze delle due composizioni, specialmente per ciò che concerne le aggiunte posteriori; e sʼintende che potessero benissimo essere scolpite sopra due tavole di pietra di giusta estensione.
Non è tanto facile però ricostituire questa primitiva composizione del Decalogo per ciò che riguarda il fondamento primo della religione ebraica, cioè il precetto del monoteismo. Il primo paragrafo del Decalogo contiene: 1o una affermazione: lʼesistenza di Jahveh come Dio; 2o tre proibizioni: non avere altri Dei, non farsi nessuna immagine, non adorarla; 3o la pena e il premio che seguirebbero alla trascuranza od osservanza di questi precetti. Ora, secondo il criterio molto giusto di tenere estranea alla originale composizione questʼultima parte, e anche ciò che può valutarsi come semplice ampliazione; riducendo insomma alla più nuda espressione tanto lʼenunciazione della esistenza di Jahveh, quanto la parte precettiva, il primo paragrafo rimarrebbe nella seguente forma:
«Io sono Jahveh tuo Dio, che ti fece escire dalla terra dʼEgitto.
«Non siano a te altri Dei.
«Non fare a te scultura e qualunque imagine.
«Non ti prostrare a quelle, e non le adorare».
Ma, anche così ridotto, questo primo paragrafo apparirà troppo esteso, se si riflette che non può contenere al più se non due soli comandamenti. Ma quali erano questi in origine? il non avere altri Dei, e non farsi imagini, oppure il riconoscere Jahveh come Dio, e non averne veruno oltre lui? In altre parole, si comprendeva o no nella prima composizione del Decalogo la proibizione di adorare Jahveh sotto una forma sensibile? È questa una quistione di grande importanza, e che si riconnette collo svolgimento delle idee religiose presso il popolo ebreo. Coloro che opinano, e probabilmente a ragione,[72] che il monoteismo puro di ogni forma idolatrica si sia svolto successivamente e non formato dʼun sol tratto, credono per conseguenza che per lungo tempo nella religione del popolo ebreo si sia ammessa lʼadorazione di Jahveh «otto la forma sensibile di una immagine. E infatti lʼadorazione del vitello o bove dʼoro prima nel deserto (Esodo, xxxii) e poi nel regno di Samaria (1o Re, xii, 28, 33), starebbe in favore di tale ipotesi. È vero che nei documenti scritturali, quali oggi gli abbiamo, questʼadorazione ci è rappresentata come un deviamento dalla religione prescritta. Ma questo, molto probabilmente, è un modo di narrare i fatti accomodato secondo i concetti di uno scrittore profetico, che viveva in età più recente, e che voleva allontanare i suoi contemporanei da ogni culto idolatrico. Tanto più che alcune traccie anche ora nella narrazione biblica, restano a dimostrare quale realmente sia stata la verità dei fatti. Nella narrazione dellʼEsodo (xxxii, 2–6) Aron ci apparisce troppo connivente esecutore delle volontà del popolo nellʼerigere il vitello dʼoro. E la mancanza per parte sua di qualunque tentativo di opposizione non sarebbe spiegabile, se già nel Decalogo fosse stata imposta la proibizione di adorare ogni immagine. Se poi nelle tradizioni e nelle abitudini del popolo non fosse rimasto sempre vivo il culto di Jahveh sotto lʼimmagine del bove, anzichè di accorto politico, sarebbe stata quanto mai impolitica la misura di Geroboamo di stabilire dei luoghi per questo culto, allo scopo di distogliere i suoi sudditi dal recarsi al tempio di Gerusalemme. È da credersi al contrario che anche i luoghi stessi fossero consacrati da antiche abitudini popolari.[73] Inoltre poi, per quanto i talmudisti vi abbiano intorno fantasticato, è impossibile negare traccia di un culto idolatrico nella narrazione del Numeri, ove si parla di una immagine di serpente, guardando verso la quale si credeva guarire dal morso dei serpenti velenosi;[74] immagine che si dice ancora rimanesse come oggetto di culto fino ai tempi del re Ezechia (2o Re, xviii, 4), uno dei riformatori della religione ebraica secondo le idee dei profeti. Dimodochè da queste riflessioni, che qui si possono accennare soltanto di volo, siamo tratti a concludere che la proibizione di adorare Jahveh rappresentato da qualunque immagine, nella più antica composizione del Decalogo non fosse compresa; e però non con piena certezza, ma con molta probabilità, ne pare che lʼoriginaria sua forma si potrebbe nel seguente modo ricostituire:
1o Io Jahveh tuo Dio che ti feci escire dalla terra dʼEgitto. 2o Non siano a te altri Dei. 3o Non pronunziare il nome di Jahveh tuo Dio in vano. 4o Rammenta il giorno del sabato. 5o Onora tuo padre e tua madre. 6o Non uccidere. 7o Non commettere adulterio. 8o Non rubare. 9o Non deporre testimonianza falsa. 10o Non desiderare qualunque cosa del tuo compagno.[75]
Ridotta in tal modo la primitiva composizione del Decalogo, anche le differenze fra le due lezioni sono in gran parte diminuite. Rimane nel quarto comandamento la lezione del Deuteronomio: osserva il giorno del sabato, invece che rammenta. Ma qui la differenza è così piccola che non può presentare alcuna difficoltà, se pure non vogliamo spiegarla come alcuni critici, i quali credono più recente la versione del Deuteronomio. In questa ipotesi starebbe bene nella lezione più originale la parola rammenta, come una esortazione ad aver ognora presente alla memoria un precetto che per la prima volta veniva imposto; mentre in una versione posteriore, quando già lʼosservanza del precetto era divenuta abituale, era più propria lʼespressione osserva, tanto più che vi si soggiunge: come ti comandò Jahveh tuo Dio; parole che chiaramente alludono a un comando antecedente.
Così questa osservazione ci conduce naturalmente a risolvere anche la prima delle tre quistioni proposte, cioè quale delle due lezioni del Decalogo sia anteriore. Originaria abbiamo detto che non sia nè lʼuna nè lʼaltra, ma anteriore è forse da tenersi quella dellʼEsodo.[76] Lo proverebbe in prima lʼespressione ora citata in quanto al precetto del sabato.
In secondo luogo lʼautore stesso del Deuteronomio nelle parti che precedono e seguono immediatamente al Decalogo (v, 2–5, 22–27) dice a chiare note di riferirsi alla promulgazione anteriore di esso, e di non fare altro che ripeterlo; nè i più arditi tra i critici negano che questi passi siano di uno stesso autore.[77]
In terzo luogo osserva con molta finezza il Reuss,[78] ma non perciò con minor ragione, la differenza nellʼultimo comandamento denoterebbe uno svolgimento dʼidee da dimostrare una età più recente nella versione del Deuteronomio. NellʼEsodo si proibisce di desiderare la casa del compagno, e poi si enumerano come varii contenuti della casa la moglie, i servi, il bestiame. Nel Deuteronomio invece si pone in prima la moglie come un essere a sè, come quello che ha diritto di persona, e poi si parla della casa, del campo, dei servi e degli animali. Questo maggiore rispetto alla dignità della donna, è segno forse di civiltà più avanzata.
Da ultimo la differenza fra le due ragioni addotte per il riposo del sabato hanno fatto ai critici seguire diversa opinione sullʼetà delle nostre due versioni.
Imperocchè quelli che tengono relativamente recente il primo capitolo del Genesi, credono per conseguenza posteriore la versione dellʼEsodo, ove si connette il riposo del sabato coi sette giorni della creazione.
Al contrario coloro che tengono quel capitolo del Genesi come antichissimo, vedono anche in questo punto una ragione di più per riconoscere anteriore a quella del Deuteronomio la versione dellʼEsodo.
Ma senza voler qui decidere una quistione tanto complessa e dipendente dallʼesame di tante altre parti della Scrittura, quale è quella della età cui possa risalire il primo capitolo del Genesi, diremo che, conceduta pure la relativa modernità di questo passo, si può sempre tenere anteriore nel suo tutto la versione dellʼEsodo, e interpolazione più recente la ragione del riposo del sabato.[79]
Imperocchè, per mettere in accordo almeno questa versione del Decalogo col concetto generale che domina nella legislazione ELN, può essere stata aggiunta questa ragione; mentre nel Deuteronomio il finale compilatore lasciò quella che già dal Deuteronomista era stata posta. Nè ciò parrà difficile ad ammettersi, se si riflette che le modificazioni e aggiunte tanto al Decalogo, quanto alle altre parti più. antiche della legge, sono state fatte probabilmente in parte, dai narratori jehovista ed elohista, che le hanno accolte nelle loro opere, e in parte dai successivi compilatori.
Risolute in questo modo le quistioni intorno al Decalogo in sè stesso considerato, non si può fare a meno però di esaminarlo anche in relazione col quadro narrativo, nel quale è posto secondo la Scrittura. Assumiamolo in poche parole. Nel terzo mese dopo lʼescita dallʼEgitto gli Ebrei giunti al deserto del Sinai si sarebbero accampati di faccia al monte di questo nome. Mosè salitovi in cima avrebbe avuto ordine da Jahveh dʼimporre al popolo di tenersi pronta per il terzo giorno, nel quale sarebbe avvenuta la rivelazione alla presenza di tutti. E in mezzo a lampi e a tuoni Jahveh stesso avrebbe proferito i dieci comandamenti uditi da tutto il popolo. Il quale però atterrito da questo genere di teofania avrebbe detto a Mosè che quindi innanzi parlasse egli solo con Jahveh, perchè avevano paura di essere sorpresi dalla morte a così tremenda apparizione. Difatti il popola si allontana, ma viene quindi fra esso e Jahveh sancito il patto, e Mosè salito sul monte vi resta quaranta giorni. A che questi fossero impiegati, se a ricevere le tavole dei dieci comandamenti, o le leggi successivamente esposte nei capitoli xxi–xxiii dellʼEsodo, o il disegno del tabernacolo e i riti di quanta atteneva al culto, o meglio per tutti e tre questi oggetti, non resulta molto chiaro dalla biblica narrazione quale oggi lʼabbiamo. Fatto sta che durante questi quaranta giorni, impazientiti glʼIsraeliti di tanto indugio, avrebbero fatto il vitello o bove dʼoro come imagine di Jahveh, da doversi riconoscere per il Dio liberatore dalla schiavitù egiziana e da doversi adorare. Mosè, quantunque prevenuto da Jahveh di questa ribellione del popolo, avrebbe allo scendere dal Sinai sentito tanto orrore di vedere unʼimagine idolatrica, che avrebbe spezzato le due tavole della legge. Passiamo in silenzio le altre circostanze che non si connettono col Decalogo. Diciamo soltanto che rotte le due prime tavole, dopo che Jahveh alle intercessioni di Mosè avrebbe conceduto al popolo il perdono, avrebbe ancora comandato al profeta di scolpire altre due tavole che contenessero gli stessi comandamenti come le prime, e perciò Mosè sarebbe stato sul monte Sinai altri quaranta giorni.
Prescindiamo da tutto ciò che questa narrazione contiene di maraviglioso e soprannaturale, e pure restringendoci allʼesame del modo come la Scrittura espone il fatto, resteremo convinti che più non vi si trova se non la memoria confusa di una leggenda tradizionale conservata in più documenti scritti, combinati poi insieme dallʼultimo compilatore.
Imperocchè nel breve assunto che abbiamo fatto della teofania sul Sinai abbiamo seguito lʼopinione tradizionale, che ha tentato di ricondurre a concorde armonia elementi fra loro pugnanti; ma se leggiamo i capitoli xix, xx, xxiv dellʼEsodo vi troviamo tale confusione, che ci dobbiamo subito persuadere che non può un solo scrittore avere nè immaginato nè raccontato che i fatti siano accaduti in tal modo.
Nei primi 19 versi del capitolo xix, se togliamo i due emistichi 2a e 9b, tutto il rimanente è abbastanza in sè stesso armonico ed uno. Lʼemistichio 2a non può essere dello stesso scrittore, perchè questi nel primo verso narra: «Nel mese terzo della escita dei figli dʼIsraele dalla terra dʼEgitto, in questo giorno vennero nel deserto di Sinai». Ora è impossibile che dopo aver ciò narrato, lo stesso autore soggiunga, come abbiamo nellʼemistichio 2a, «e si partirono da Refidim, e vennero nel deserto di Sinai, e si accamparono nel deserto»; perchè il partirsi da Refidim non può essere succeduto allʼesser giunti nel deserto del Sinai, e perchè sarebbe ripetuto due volte con immediata successione di parole il fatto di esser giunti nel deserto e di esservisi accampati. Mentre, sopprimendo lʼemistichio 2a, le parole si succedono in perfetto ordine logico.
È evidente poi ad ogni lettore che il 9b «e manifestò Mosè le parole del popolo a Jahveh» non fanno se non ripetere quello che già era stato detto nella ultima parte del v. 8, dimodochè questi due emistichi 2a e 9b sono da tenersi come provenienti da altre fonti, accolti, come di solito, dal compilatore nellʼultima composizione. Il quale avrà aggiunto di suo le prime quattro parole del v. 10, rese necessarie per riprendere il filo del discorso, interrotto mediante lʼinserzione dellʼemistichio 9b.
Abbiamo poi dal v. 20 al 25 una ripetizione dì fatti già narrati nei precedenti 19 versi. La discesa di Jahveh sul monte Sinai, la chiamata di Mosè, la sua ascensione, e lʼavvertimento al popolo di tenersi lontano. E per peggio, non vi è solo ripetizione nelle due parti di questo capitolo, ma anche contraddizione; perchè, mentre nei primi 19 versi appare chiaramente che solo Mosè doveva salire sul Sinai, nel v. 24 si dice che con lui sarebbe asceso anche Aron. Il v. 22 contiene poi unʼavvertenza speciale per i sacerdoti ammoniti anchʼessi di santificarsi, quantunque consueti di appressarsi a Jahveh. Queste due circostanze mostrano che questo frammento appartiene a scrittore che voleva usare un riguardo alla casta sacerdotale, perciò crediamo che a ragione lo Schrader[80] lo attribuisca al narratore teocratico.[81]
Dopo lʼesposizione del Decalogo, nel v. 21 del capitolo xx troviamo che Mosè di nuovo ritorna presso la tenebre che avvolgeva la divinità.
Nel capitolo xxiv, 1 si narra che Mosè ascende ancora sul monte, e con lui Aron, i due figli di questo Nadab e Abihu, e i settanta anziani;[82] dal v. 12 al 15 si parla di unʼaltra ascensione di Mosè accompagnato almeno fino a un certo punto da Giosuè suo ministro; e finalmente nellʼultimo frammento, v. 16–18, abbiamo unʼaltra vocazione di Mosè, dopo che la gloria divina sarebbe stata per sei giorni avvolta nelle nubi, e unʼaltra ascensione sul Sinai, ove si sarebbe trattenuto quaranta giorni e quaranta notti. A che fine tutto questo salire e questo scendere ripetute volte non si può in alcun modo capire. Le difficoltà qui, come in moltissimi altri luoghi, non si spiegano, se non con lʼammettere più narrazioni originarie che non da un solo, ma da successivi compilatori sono state in tal modo non combinate, ma confuse insieme, e perciò è ora impresa difficilissima quella di distinguerle nettamente e ristabilirle nella loro forma primitiva.[83] Per il nostro assunto basta ciò che abbiamo accennato; il tentativo di una ricostituzione delle fonti da cui lʼattuale narrazione è formata, se pur lo credessimo possibile a riuscire, qui non è necessario. E opportuno però fermarsi alquanto intorno allʼultima ascensione di Mosè sul Sinai, narrata nel cap. xxxiv, che sarebbe avvenuta dopo lʼadorazione del vitello dʼoro, per avere da Jahveh due altre tavole dei dieci comandamenti, avendo egli, per isdegno alla vista dellʼidolo, rotto le prime (xxxii, 19).
Ma dopo la teofania, nella quale sarebbe avvenuta la consegna di queste seconde tavole, che per lʼopinione tradizionale sarebbero state copia delle prime, segue tutto un passo, in parte parenetico, in parte precettivo, che per il modo come è stato inteso da alcuni critici, è dʼuopo vedere per intiero. Jahveh dunque così avrebbe parlato a Mosè:
XXXIV. 10.Ecco io stabilisco un patto: dinanzi tutto il tuo popolo farò prodigi, che non furono creati in tutta la terra e in tutte le genti; e vedrà tutto il popolo, in mezzo al quale tu sei, lʼopera di Jahveh, che è prodigiosa, quella che io opero con te. 11.Osserva ciò che io ti comando oggi: ecco io caccio dalla tua presenza lʼEmoreo, il Cananeo, lʼHittita, il Perizita, lʼHivveo, e il Jebusita.[84] 12.Riguardati dallo stabilire patto con gli abitanti della terra, nella quale tu vai, acciocchè non siano dʼinciampo in mezzo a te. 13.Ma demolirete i loro altari, e spezzerete le loro statue, e le loro Asherot[85] distruggerete. 14.Anzi non tʼinchinerai ad altro Dio, perchè Jahveh, il cui nome è il Geloso, Dio geloso egli è. 15.Non istabilire patto con gli abitanti della terra, i quali errano dietro i loro Dei, e sacrificando ad essi, ti chiamerebbero, e tu mangeresti del sacrifizio. 16.E prenderesti delle loro figlio per i tuoi figli, ed errerebbero le loro figlie dietro i loro Dei, e farebbero errare i tuoi figli dietro i loro Dei. 17. 18.Dei di getto non ti farai. Osserverai la festa delle azzime, sette giorni mangerai azzime, come ti ho comandato, nel tempo del mese della primavera, perchè nel mese della primavera escisti dallʼEgitto. 19.Ogni apertura di matrice per me, e in tutto il tuo armento ciò che avrai maschio primo nato, o bove, o agnello. 20.E il primo nato dellʼasino riscatterai con un agnello, e se non vorrai riscattarlo, lʼaccopperai: ogni primogenito fra i tuoi figli riscatterai; e non si vedrà la mia presenza a mani vuote.[86]
21.Sei giorni lavorerai, e nel giorno settimo riposerai, dallʼarare e dal mietere riposerai. 22.E osserverai la festa delle settimane nelle primizie della mèsse del grano, e la festa della raccolta al volger dellʼanno. 23.Tre volte allʼanno si vedranno tutti i tuoi maschi alla presenza del Signore Jahveh Dio dʼIsraele. 24.Imperocchè caccerò le genti dinanzi a te, ed estenderò il tuo territorio, e niuno desidererà la tua terra, quando tu andrai a presentarti dinanzi Jahveh tuo Dio tre volte allʼanno. 25.Non verserai con il lievito il sangue del mio sagrifizio, e non rimarrà fino alla mattina la carne del sacrifizio pasquale. 26.Il principio delle primizie della tua terra porterai nella casa di Jahveh tuo Dio: non cucinare il capretto con il latte della madre.[87]
In questo passo si è voluto da alcuni critici trovare un altro Decalogo[88] e, spingendo le cose fino alle ultime conseguenze, si è preteso che questo fosse il più antico, mentre quello da noi sopra esposto si sarebbe formato in un tempo di più avanzata civiltà. Questo invece, più conveniente a un popolo rozzo, si sarebbe ristretto ai soli precetti della religione e del culto. Ma venendo a specificare i dieci precetti, quegli stessi che propongono e sostengono come vera tale interpretazione non sono dʼaccordo nel computare le dieci parti di questo preteso Decalogo; nè avrebbe utilità prenderle tutte in esame. Vediamo pure quella del Wellhausen,[89] il quale riduce i dieci comandamenti in questo modo: 1o Non adorare altri Dei; 2o non farsi Dei di getto; 3o festeggiare la pasqua delle azzime; 4o consacrare i primogeniti; 5o lavorare sei giorni, e riposare il settimo; 6o tre volte allʼanno comparire tutti i maschi alla presenza di Jahveh; 7o non mischiare con il lievito il sangue del sacrifizio; 8o non lasciare fino alla mattina il grasso del sacrifizio pasquale; 9o portare nella casa di Jahveh il meglio delle primizie; 10o non cuocere il capretto col latte della madre.
Per ottenere questo computo il Wellhausen è costretto a tenere come interpolato il verso 22, che impone lʼosservanza della festa delle settimane, e lʼaltra della finale raccolta dei frutti nellʼautunno. Con quanta ragionevolezza si voglia sopprimere questo verso, mentre è naturale, dopo aver comandato lʼosservanza della pasqua, parlare anche delle due feste annuali, ogni discreto lettore può facilmente intendere. Nè bastava accennare in termini generali che tre volte allʼanno ogni maschio doveva presentarsi al cospetto di Jahveh, perchè questa è pratica di culto diversa dalla semplice celebrazione della festa, che avrebbe potuto farsi in ogni luogo, senza recarsi alla presenza del Signore. Il Göthe che mantiene lʼautenticità di questo verso, conta come un solo precetto i due primi intorno al politeismo e allʼidolatria. Il Reuss invece cade in altra difficoltà. Mantenendo lʼautenticità del v. 22, computa come un solo comando quello relativo alle due feste; e per non trovarsi con un comando di più, computa ancora come uno solo i due diversissimi precetti di non mischiare il lievito col sangue del sacrifizio, e di non fare avanzare dellʼagnello pasquale fino alla mattina successiva.
Fatto sta però che, riducendo pure i comandamenti di questo luogo al minor numero possibile, meno di dodici non se ne possono trovare.
1o Proibizione del politeismo (v. 14). 2o Proibizione dellʼidolatria (v. 17). 3o Festa delle azzime (v. 18). 4o Consacrazione dei primogeniti (v. 19, 20). 5o Riposo del sabato (v. 21). 6o Festa delle settimane (v. 22a). 7o Festa della raccolta (v. 22b). 8o Presentazione dei maschi dinanzi a Dio tre volte allʼanno (v. 23). 9o Non mischiare il lievito col sangue del sacrifizio (v. 25a).
10o Non fare avanzare dellʼagnello pasquale fino alla mattina successiva (v. 25b). 11o Consacrazione delle primizie (v. 26a). 12o Proibizione di cuocere il capretto col latte della madre (v. 26b).
Questo computo, fatto secondo una lettura spassionata e non preconcetta del testo, rilega nel campo delle ipotesi ingegnose ma non corrispondenti a realtà, quella di un altro Decalogo, quantunque sia sostenuta da valentissimi e dottissimi critici. Ma è innegabile che spesso il desiderio di proporre cose nuove, e lʼamore poi di sostenerle, fa non tanto di rado fuorviare dal retto sentiero; mentre una critica più modesta esce meno facilmente dal vero.
Resta per altro una difficoltà a risolvere. Le cose dette nel passo testè tradotto sono ripetizione di ciò che era stato già detto o nel Decalogo o nel capitolo xxiii (12–24). Di ripetizioni nel Pentateuco se ne trovano tante, come sopra già abbiamo dimostrato (pag. 30–37), che non fa bisogno ricorrere ad ipotesi poco sostenibili per darne ragione: si spiegano invece col principio generale dei diversi documenti originarii insieme combinati. In questo luogo poi si può anche meglio spiegare come un più recente narratore abbia ripetuto cose che altri già aveva dette.
Il patto stabilito da Dio col popolo era stato rotto per lʼadorazione dellʼidolo, secondo il concetto dei diversi narratori, siano essi profetici o sacerdotali, ed era stato rotto ancora per avere Mosè spezzato le prime tavole: qui si tratta di ristabilirlo.
È naturale che si ripeta la principale condizione richiesta, acciocchè il patto possa mantenersi; cioè quella di non adorare altri Dei, di mantenersi fedeli a Dio, e di non seguire il culto praticato dagli altri popoli della Palestina. Ma è naturale ancora che, proibiti i culti politeistici e idolatrici, si accennino altresì per sommi capi le pratiche del culto voluto da Jahveh, ciò che si fa precisamente nei vv. 17–26. Cosicchè tutto questo passo (xxxiv, 10–26) è da tenersi ripetizione che un narratore più recente ha tolto dal capitolo xxiii, 12–33, dando però diversa distribuzione ai suoi concetti, e maggiore estensione a ciò che riguarda la proibizione del politeismo e dellʼidolatria. Perchè egli non ne aveva nulla altrove accennato, mentre il capitolo xxiii era già combinato in modo col Decalogo, che intorno a quegli argomenti ne era stato detto quanto bastava.[90]
Il Wellhausen però, a sostegno della ipotesi da lui tenuta per vera, aggiunge ancora che nel v. 27 si legge: «e disse Jahveh a Mosè: scriviti queste parole, imperocchè secondo queste parole ho stabilito il patto con te e con Israele». Egli vuole intendere che queste parole siano quelle che immediatamente precedono, e che lo scrivere debba riferirsi allʼincidere sulle tavole di pietra. Ma come vedremo nel capitola seguente, il patto fra Jahveh e il popolo era stabilito, oltrechè sul Decalogo, anche sopra molte altre leggi e prescrizioni (v. xxiv, 4–7); dimodochè anche in questo nostro passo lʼingiunzione di scrivere quelle parole non è da intendersi come se esse formassero il Decalogo, ma come quelle che in aggiunta al Decalogo, formavano base del patto fra Dio e il popolo.
In questo modo resta per noi fermo che solo vera e proprio Decalogo è quello che in doppia, ma poca diversa forma, leggesi nellʼEsodo XX e nel Deuteronomio v. Nucleo primo e fondamentale di una religione e di una legislazione di cui vedremo il successivo svolgimento.