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CAPITOLO UNO

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15 agosto

7:07

Diga di Black Rock, Great Smoky Mountains, Carolina del Nord


La diga era lì, immutabile, gigantesca, l’unica costante della vita di Wes Yardley. Gli altri che ci lavoravano la chiamavano la “Madre”. Costruita per generare energia idroelettrica nel 1943 all’apice della seconda guerra mondiale, la diga era alta quanto un edificio di cinquanta piani. La centrale elettrica collegata alla diga era alta sei piani, e la Madre si stagliava alle sue spalle come una fortezza uscita da un incubo medievale.

Wes cominciò il turno nella sala di controllo nello stesso modo in cui aveva fatto negli ultimi trentatré anni: si mise a sedere alla lunga scrivania semicircolare, ci buttò su di peso la tazza del caffè e fece il log-in nel computer che aveva davanti. Lo fece in automatico, senza pensare, ancora mezzo addormentato. Era l’unica persona nella sala di controllo, un luogo così antiquato da somigliare al set della vecchia serie televisiva Spazio 1999. L’ultima volta era stata ristrutturata a un certo punto negli anni Sessanta, ed era una versione anni Sessanta di come avrebbe potuto essere il futuro. Le pareti erano coperte di manopole e interruttori, molti dei quali non venivano toccati da anni. C’erano grossi schermi video che nessuno accendeva mai. Non c’era nessuna finestra.

La mattina presto normalmente era il momento della giornata preferito di Wes. Aveva un po’ di tempo da solo per sorseggiare il caffè, dare una scorsa al registro della notte precedente, controllare le cifre di produzione elettrica, e poi leggere il giornale. Abbastanza spesso si versava una seconda tazza di caffè arrivato circa a metà della pagina sportiva. Non aveva motivo di fare altrimenti; dopotutto, lì non succedeva mai niente.

Negli ultimi due anni aveva preso a leggere gli annunci economici come parte del rituale del mattino. Da diciassette anni, da quando erano arrivati i computer e la sala di controllo si era automatizzata, i cervelloni della Tennessee Valley Authority parlavano di controllare la diga da postazione remota. Non si era arrivati a quel punto, e forse non ci si sarebbe arrivati mai. Non era arrivato niente neanche dagli annunci e dalla lettura di Wes. Era un buon lavoro. Sarebbe stato felice di uscirsene di lì su un tavolo autoptico un giorno, in un futuro, si spera, lontano. Si allungò distrattamente per prendere la tazza sfogliando i resoconti dell’ultima nottata.

Poi alzò lo sguardo – e tutto cambiò.

Lungo il muro di fronte a lui stavano lampeggiando sei lucette rosse. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che era successo che gli ci volle un intero minuto per ricordare anche solo che cosa significassero quelle luci. Ogni luce era un indicatore delle saracinesche. Undici anni prima, durante una settimana di piogge torrenziali, su a nord, ne avevano tenuta aperta una per tre ore buone al giorno in modo che l’acqua sulla cima non esondasse dalle pareti. Una delle luci aveva lampeggiato per tutto il tempo in cui era rimasta aperta.

Ma… sei luci? Tutte contemporaneamente? Poteva solo significare…

Wes strizzò gli occhi davanti alle luci, come se così potesse vederle meglio. “Che diavolo..?” disse a bassa voce.

Prese il telefono sulla scrivania e digitò tre cifre.

“Wes,” disse una voce assonnata. “Come va? Hai visto i Braves ieri sera?”

“Vince?” disse Wes ignorando la presa in giro dell’uomo. “Sono di sotto, e sto guardando il pannello. Ci sono delle luci che mi dicono che le saracinesche dalla Uno alla Sei sono tutte aperte. Cioè, adesso, tutte e sei le saracinesche. È un malfunzionamento dell’attrezzatura, vero? Una specie di errore della strumentazione, o un problema tecnico del computer. Vero?”

“Le saracinesche sono aperte?” disse Vince. “Non può essere. Non mi ha detto niente nessuno.”

Wes si alzò e andò lentamente verso il pannello. Il filo del telefono si allungava dietro di lui. Fissò le luci, meravigliato. Non c’era un display. Non c’erano dati a spiegare niente. Non si vedeva niente. C’erano solo quelle luci, che lampeggiavano fuori tempo, alcune veloci, altre lente, come un albero di Natale un po’ impazzito.

“Be’, è quello che sto guardando. Sei luci, tutte in una volta. Dimmi che non abbiamo sei saracinesche aperte, Vince.”

Wes si accorse che non aveva bisogno che glielo dicesse Vince. Vince stava parlando, ma Wes non lo ascoltava. Mise giù il telefono e si spostò per uno stretto corridoio fino a raggiungere la sala di osservazione. Gli sembrava che i suoi piedi non fossero attaccati al corpo.

Nella sala di osservazione l’intera parete a sud era di vetro completamente rinforzato. Normalmente dava su un calmo fiume che scorreva lontano dall’edificio, svoltando a destra qualche centinaio di metri più in là per poi sparire nei boschi.

Non oggi.

Adesso, di fronte a lui, c’era un torrente scatenato.

Wes rimase lì, a bocca spalancata, congelato, ottenebrato, con un freddo solletico che gli si diffondeva per le braccia. Era impossibile vedere quel che stava accadendo. La spuma spruzzava a decine di metri di altezza. Wes non vedeva neanche i boschi. Udiva un rumore attraverso lo spesso vetro, però. Era il ruggito dell’acqua – di più acqua di quanta lui potesse immaginare.

Quaranta milioni di litri di acqua al minuto.

Il rumore, più di tutto il resto, gli fece sobbalzare il cuore nel petto.

Wes tornò di corsa al telefono. Sentì la sua stessa voce nella cornetta, senza fiato.

“Vince, ascoltami. Le saracinesche sono aperte! Tutte quante! Abbiamo un muro d’acqua alto dieci metri e largo sessanta che sta venendo qui! Non riesco a vedere che diavolo sta succedendo. Non so come sia accaduto, ma dobbiamo richiuderle. ADESSO! Conosci la sequenza?”

Vince era stranamente calmo; però lui tutta quell’acqua non l’aveva vista.

“Prendo il manuale,” disse.

Wes andò al pannello di controllo con il telefono incastrato sotto all’orecchio.

“Dai, Vince. Muoviti!”

“Okay, ci sono,” disse Vince.

Vince gli disse la sequenza a sei cifre, che Wes digitò nella tastiera.

Guardò le luci, aspettandosi che si fossero spente; ma lampeggiavano ancora.

“Non va. Hai altri numeri?”

“I numeri sono quelli. Li hai digitati giusti?”

“Li ho digitati come me li hai detti tu.” A Wes presero a tremare le mani. Comunque stava cominciando a sentirsi calmo anche lui. Anzi, più che calmo. Si sentiva lontano da tutto quanto. Una sera era rimasto coinvolto in un incidente automobilistico su una strada innevata di montagna, e mentre la macchina girava su se stessa andando a colpire il guardrail Wes si era sentito proprio come in quel momento lì. Si sentiva addormentato, come se stesse sognando.

Non aveva idea di come le saracinesche fossero state aperte, ma sei in una volta voleva dire liberare molta acqua. Decisamente troppa acqua. Una quantità di acqua che avrebbe scavalcato le sponde del fiume. Avrebbe causato una massiccia inondazione. Wes pensò al lago gigantesco sopra alle loro teste.

Poi pensò a qualcos’altro, a una cosa alla quale non voleva pensare.

“Premi cancella e ricominciamo da capo,” disse Vince.

“Vince, c’è il villaggio turistico tre miglia lungo il corso del fiume. Siamo in agosto, Vince. Lo sai che sto dicendo? È alta stagione, e non hanno la più pallida idea di cosa sta per succedere. Dobbiamo chiudere tutto all’istante, o dobbiamo chiamare qualcuno laggiù. Devono far evacuare la gente.”

“Premi cancella e ricominciamo da capo,” disse di nuovo Vince.

“Vince!”

“Wes, hai sentito cosa ti ho appena detto? Chiudiamo le saracinesche. Se non ci riusciamo chiamo il villaggio tra due minuti. Adesso premi cancella e ricominciamo da capo.”

Responsabilmente, Wes fece come gli era stato detto, temendo nel profondo di se stesso che non avrebbe mai funzionato.

*

Il telefono sulla scrivania di fronte suonava incessantemente.

Montgomery Jones era alla caffetteria del Black Rock Resort, a cercare di godersi la colazione. Era la stessa colazione che gli servivano ogni giorno – uova strapazzate, salsicce, pancake, waffle – tutto ciò che si voleva. Ma oggi, dato che c’era così tanta gente, era seduto nell’angolo del locale più vicino all’ingresso. C’era un centinaio di mattinieri lì, a occupare tutti i tavolini, a intasare i lavori in tutte le zone di ristoro. E quel telefono stava cominciando a rovinare la mattinata di Monty.

Si voltò e guardò nell’ingresso. Era un posticino rustico, con una pannellatura in legno, un caminetto in pietra e una scrivania malconcia che centinaia di persone avevano inciso nel corso di lunghi anni. La scrivania era un folle intaglio di iniziali racchiuse in cuoricini, auguri dimenticati da tempo e incerti tentativi di tratteggio.

Non c’era nessuno alla scrivania a rispondere al telefono, e chiunque fosse all’altro capo non recepiva il messaggio. Ogni volta che il telefono smetteva di suonare, faceva una pausa di qualche secondo e poi ricominciava. Per Monty ciò stava a significare che ogni volta che chi chiamava arrivava alla segreteria riappendeva e ci riprovava. Era fastidioso. Qualcuno doveva desiderare ardentemente fare una prenotazione dell’ultimo minuto.

“Richiama, idiota.”

Monty aveva sessantanove anni, e andava a Black Rock da almeno venti, spesso due o tre volte all’anno. Adorava quel posto. Ciò che adorava di più era alzarsi presto, fare una buona e calda colazione, e andarsene per le strade panoramiche di montagna con la sua Harley Davidson. Per questa vacanza aveva con sé la sua ragazza, Lena. Aveva quasi trent’anni meno di lui, ma era ancora di sopra, in camera. Le piaceva dormire fino a tardi, a Lena. Il che significava che sarebbero partiti tardi, quella mattina. Andava bene così. Lena ne valeva la pena. Lena era la prova che il successo ripagava. Se la immaginò a letto, con i lunghi capelli bruni allargati tra i cuscini.

Il telefono smise di suonare. Trascorsero cinque secondi prima che ricominciasse.

Benissimo. Ne ho abbastanza. Avrebbe risposto Monty a quel maledetto telefono. Si alzò e scricchiolò sulle gambe legnose fino alla scrivania. Esitò solo un secondo prima di sollevare la cornetta. Il dito indice della mano destra seguì l’intaglio di un cuore con una freccia nel centro. Sì, veniva lì spesso. Ma il posto non gli era familiare come se ci lavorasse. Non poteva prendere prenotazioni, e nemmeno messaggi. Perciò avrebbe solo detto a chi chiamava di riprovare più tardi.

Prese la cornetta. “Pronto?”

“Sono Vincent Moore della Tennessee Valley Authority. Sono alla stazione di controllo della diga di Black Rock, tre miglia a nord da dove siete voi. È un’emergenza. Abbiamo un problema con le saracinesche, ed è necessaria l’evacuazione immediata del villaggio. Ripeto, evacuazione immediata. Sta arrivando un’inondazione.”

“Cosa?” disse Monty. Qualcuno lo stava prendendo in giro. “Non la capisco.”

Proprio allora nella caffetteria cominciò un trambusto. Cominciò uno strano chiasso di voci che si alzavano di tono. Improvvisamente una donna urlò.

L’uomo al telefono ricominciò. “Sono Vincent Moore della Tennessee Valley…”

Urlò qualcun altro, una voce maschile.

Monty teneva il telefono all’orecchio ma non stava più ascoltando. Appena oltre la soglia la gente della caffetteria si stava alzando dalle sedie. Alcuni stavano andando alle porte. Poi, in un attimo, il panico prese il sopravvento.

Le persone correvano, spingevano, cadevano le une sulle altre. Monty osservò tutto. Un’ondata di gente venne verso di lui, con gli occhi spalancati, le bocche aperte in rotonde O di terrore.

Mentre Monty osservava attraverso la finestra, un muro di acqua di un metro almeno si abbatté a terra. Un tizio della manutenzione in un’auto da golf che risaliva una collinetta dalla casa principale fu preso dalla marea. Il mezzo si capovolse, gettando l’uomo nell’acqua e atterrandogli sopra. Il mezzo fu preso per un attimo, poi scivolò lungo il fianco della collina, spinto da tutta l’acqua, e guadagnò velocità.

Scivolava dritto verso le finestre, a una velocità impossibile.

CRASH!

Il veicolo si schiantò di traverso contro la finestra, infrangendola – e un torrente di acqua lo seguì.

Si riversò nella caffetteria attraverso la finestra rotta. L’auto passò attraverso i vetri, poi scivolò per la stanza. Un uomo cercò di fermarla, cadde in un metro d’acqua e non tornò più in superficie.

Ovunque la gente affondava nell’acqua che saliva, incapace di stare in piedi. Tavoli e sedie scivolavano per la stanza e si impilavano contro la parete opposta.

Monty si mise dietro alla scrivania. Si guardò i piedi. L’acqua gli arrivava già alle caviglie. Improvvisamente, dall’altra parte, l’intera finestra di nove metri della caffetteria collassò, scagliando enormi schegge di vetro dappertutto.

Sembrò un’esplosione.

Monty si preparò a correre. Ma prima che i piedi potessero partire, prima di poter anche solo balzare sulla scrivania, tutto ciò che poté fare fu alzare le braccia e urlare mentre il muro d’acqua lo divorava.

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