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CAPITOLO DUE

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11 dicembre

9:01 ora della costa orientale

Studio Ovale

Casa Bianca, Washington DC


Susan Hopkins non riusciva quasi a credere a quello che vedeva.

Si trovava in piedi sul tappeto del salottino dello Studio Ovale – le comode poltrone dagli alti schienali erano state rimosse per i festeggiamenti della mattina. Trenta persone gremivano la stanza. Kurt Kimball e Kat Lopez le stavano accanto, così come Haley Lawrence, il suo segretario della Difesa.

Lo staff della residenza della Casa Bianca era tutto lì su sua insistenza, lo chef, le cameriere, i domestici, che si mescolavano agli altri invitati – i direttori della National Science Foundation, della NASA e del National Park Service, per dirne alcuni. C’era una manciata di personalità del giornalismo, così come due o tre cameramen attentamente selezionati. C’erano molti agenti dei servizi segreti, accostati alle pareti e a punteggiare la folla.

Su un grosso monitor televisivo montato vicino alla parete di fondo, Stephen Lief, un uomo che Susan poteva aspettarsi di non vedere mai in carne e ossa finché il suo mandato di presidente non fosse finito, stava per prestare il giuramento del vicepresidente. Stephen era sul finire della mezza età, assennato negli occhiali rotondi, i capelli grigi che si diradavano e si ritiravano sulla cima del cranio come un esercito in una ritirata disorientata. Aveva un corpo vagamente a pera, nascosto da un gessato Armani blu da tremila dollari.

Susan conosceva Stephen da tempo. Sarebbe stato il suo sfidante principale nelle ultime elezioni, se non fosse intervenuto Jeff Monroe. Prima, nei suoi giorni da senatore, era stato l’opposizione leale dei banchi opposti, un conservatore moderato, anonimo – cocciuto ma non pazzoide. Ed era un uomo carino.

Ma era anche del partito sbagliato, e per questo lei si era beccata molte critiche accese dagli ambienti liberali. Era un possidente terriero aristocratico, di famiglia ricca – uno della Mayflower, la cosa più simile alla nobiltà che avesse l’America. A un certo punto, pareva che avesse pensato che diventare presidente fosse suo diritto di nascita. Non certo il tipo di Susan – gli aristocratici che si credevano dei privilegiati tendevano a mancare del tocco comune che aiutava a connettersi con le persone che, ipoteticamente, si dovevano servire.

Era un provvedimento che dimostrava quanto Luke Stone le fosse entrato dentro, anche solo che avesse preso in considerazione Stephen Lief. Era stata un’idea di Stone. Stone gliel’aveva presentata scherzando, mentre i due giacevano insieme nel grande letto presidenziale. Lei stava riflettendo ad alta voce sui possibili candidati alla vicepresidenza, e Stone aveva detto:

“E perché non Stephen Lief?”

Lei aveva quasi riso. “Stone! Stephen Lief? Ma dai.”

“No, dico sul serio,” aveva detto.

Era disteso sul fianco. Il suo corpo nudo era magro ma duro come la roccia, cesellato e coperto di cicatrici. Uno spesso bendaggio gli copriva la recente ferita da arma da fuoco – era modellato sul torso lungo il fianco sinistro. Le ferite varie non la disturbavano – lo rendevano più sexy, più pericoloso. Gli occhi azzurro scuro la osservavano dalle profondità del volto segnato alla Marlboro Man, con un mezzo sorriso malizioso sulle labbra.

“Sei bellissimo, Stone. Come un’antica statua greca, uh, con una benda. Magari però i ragionamenti lasciali a me. Tu puoi adagiarti lì, a fare il bello.”

“L’ho interrogato alla sua fattoria, in Florida,” disse Stone. “Gli ho chiesto che cosa sapesse su Jefferson Monroe e sui brogli elettorali. Lui è stato chiaro con me fin da subito. Ed è bravo con i cavalli. Delicato. Deve pur voler dire qualcosa.”

“Lo terrò a mente,” disse Susan. “La prossima volta che cerco un cowboy.”

Stone scosse la testa, ma continuò a sorridere. “Il paese è spaccato, Susan. Gli eventi recenti hanno peggiorato più che mai i sentimenti. Tu te la cavi ancora bene, ma il Congresso ha i rating di approvazione più bassi della storia americana. Se credi ai sondaggi, i politici, i talebani e la Chiesa di Satana hanno tutti un punteggio molto simile, in America. Gli avvocati, l’agenzia delle entrate e la Mafia italiana hanno numeri molto più alti.”

“E lo dici perché…”

“Perché ciò che vuole il popolo americano adesso è che destra e sinistra, liberali e conservatori, si uniscano un pochino e comincino ad agire per il bene del paese. Strade e ponti devono essere ricostruiti, il sistema ferroviario dovrebbe stare in un museo, le scuole pubbliche cadono a pezzi, e non costruiamo un nuovo aeroporto maggiore da quasi trent’anni. Siamo al trentaduesimo posto nella sanità, Susan. Siamo in basso. Possiamo davvero avere altri trentun paesi davanti a noi? Perché te lo dico, sono stato in giro per il mondo, e i paesi buoni finiscono al numero ventuno o ventidue. Questo ci mette dietro a un sacco di brutti paesi.”

Sospirò. “Con un po’ di sostegno da parte dei conservatori, potremmo riuscire a far passare il mio pacchetto infrastrutture…”

Lui le tamburellò con un dito sulla fronte. “Adesso stai usando la zucca. Lief ha passato in senato diciotto anni. Conosce il gioco meglio di chiunque altro.”

“Pensavo che la politica non facesse per te,” disse lei.

“Infatti.”

Scosse la testa. “È quello che mi spaventa.”

Lui si mosse verso di lei. “Non spaventarti. Te lo dico io che cosa fa per me.”

“Dimmi.”

“La fisicità,” disse. “Con una come te.”

Adesso scacciò i ricordi, con il fantasma di un sorriso in volto. Si era alienata per un po’. Sul monitor, Stephen Lief si stava preparando per il giuramento. Si teneva nel vecchio studio di Susan all’Osservatorio navale. Ricordava bene la stanza e la casa. Era la bellissima villa turrita e timpanata in stile Regina Anna di metà Ottocento sul terreno dell’Osservatorio navale di Washington DC. Per decenni era stata la residenza ufficiale del vicepresidente degli Stati Uniti.

Si metteva sempre alla grande finestra a golfo visibile sul monitor, a fissare i bellissimi prati in pendenza del campus dell’Osservatorio navale. Il sole del pomeriggio passava per quella finestra, in un gioco incredibile di luci e ombre. Per cinque anni, aveva vissuto in quella casa da vicepresidente. L’aveva adorata, e ci si sarebbe ritrasferita in un battito di ciglia, se avesse potuto.

Ai vecchi tempi, di pomeriggio e di sera, usciva a fare jogging sul terreno dell’Osservatorio con gli uomini dei servizi segreti. Quelli erano anni di ottimismo, di discorsi entusiasmanti, di saluti e incontri con migliaia di americani speranzosi. Ormai sembrava una vita fa.

Susan sospirò. La mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato a Mount Weather, l’atrocità che l’aveva catapultata fuori dalla sua felice vita da vicepresidente nel furente tumulto degli ultimi anni.

Scosse la testa. No, grazie. Non avrebbe pensato a quel giorno.

Attraverso lo specchio, su una piccola pedana, si trovavano due uomini e una donna. I fotografi vagavano come moscerini, scattando foto a loro.

Uno degli uomini sulla pedana era basso e calvo. Indossava una lunga toga. Era Clarence Warren, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. La donna si chiamava Judy Lief. Indossava un tailleur azzurro brillante. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva una Bibbia aperta in mano. Il marito, Stephen, aveva messo la mano sinistra sulla Bibbia. La destra era sollevata. Lief veniva spesso considerato arcigno, ma persino lui sorrideva un po’.

“Io, Stephen Douglas Lief,” disse, “giuro solennemente di sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, esterni e interni.”

“Di serbarle fedeltà…” suggerì il giudice Warren.

“Di serbarle fedeltà e vero affidamento,” disse Lief. “Senza alcuna riserva mentale, e di bene e fedelmente adempiere ai doveri della carica che sto per assumere.”

“Dio mi aiuti,” disse il giudice Warren.

“Dio mi aiuti,” disse Lief.

Nella mente di Susan apparve un’immagine – un fantasma del passato recente. Marybeth Horning, l’ultima persona ad aver prestato quel giuramento. Era stata una mentore per Susan al Senato, e una specie di mentore da vicepresidente. Con la sua figura piccola e sottile e i grandi occhiali, sembrava un topolino, ma ruggiva come un leone.

Poi le avevano sparato e l’avevano uccisa per… cosa? Per la sua politica liberale, si potrebbe dire, ma non era vero. Alla gente che l’aveva uccisa le differenze politiche non interessavano – tutto ciò che interessava loro era il potere.

Susan sperava che il paese potesse superare la cosa, adesso. Osservò Stephen in tv abbracciare la sua famiglia e altri amici.

Si fidava di quell’uomo? Non lo sapeva.

Avrebbe cercato di farla uccidere?

No. Non credeva. Lui aveva più integrità. Non aveva mai sentito che fosse un subdolo, quando era senatrice. Immaginava che fosse un inizio – aveva un vicepresidente che non avrebbe cercato di ucciderla.

Si immaginò i giornalisti del New York Times e del Washington Post chiedere: “Cosa le piace dell’idea di avere Stephen Lief come suo nuovo vicepresidente?”

“Be’, non mi ucciderà. E questo mi dà una bella sensazione.”

Poi Kat Lopez fu al suo fianco.

“Uh, Susan? La microfoniamo così può congratularsi con il vicepresidente Lief e dirgli due parole di incoraggiamento.”

Susan balzò fuori dal sogno a occhi aperti. “Certo. Buona idea. Probabilmente gli faranno comodo.”

Il Nostro Sacro Onore

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