Читать книгу Un’esca per Zero - Джек Марс - Страница 12
CAPITOLO SETTE
ОглавлениеIl Presidente Jonathan Rutledge si stava rilassando su un divano a strisce nello Studio Ovale. Si tolse i mocassini e appoggiò i talloni sul tavolino lucido che si trovava davanti a lui. Era abbastanza certo che il divano, uno dei due disposti in posizione perpendicolare alla scrivania, non fosse in quel posto il giorno prima, ma non poteva esserne sicuro. Di solito quella stanza era piena di attività, consiglieri, capi e amministratori che correvano qua e là, e i mobili erano per lo più uno sfondo, non arredamento. A ciò si aggiungeva sua moglie, Deidre, che si era incaricata di "aiutare" il team di progettazione della Casa Bianca a ridipingere ogni stanza una volta alla settimana, o almeno così gli sembrava.
Era un bel divano. Sperò di poter stare ancora un poco in ufficio.
Lo scorso novembre Rutledge aveva fatto quasi la fine dei mobili. Solo pochi mesi prima aveva preso seriamente in considerazione di dimettersi dall'ufficio di presidenza, ritenendosi inadatto al compito. Era stato promosso da Presidente della Camera alla carica più alta grazie all'immenso scandalo dei suoi predecessori che coinvolgeva la Russia, e gli ci era voluto del tempo per abituarsi alla posizione, ai poteri che gli erano stati concessi e alla responsabilità richiesta.
Ma ormai era acqua passata. Aveva preso la decisione di rimanere in carica, e poi aveva nominato vicepresidente la senatrice della California Joanna Barkley. Fino a quel momento stava facendo un lavoro stellare. Il loro indice di gradimento era alle stelle; Rutledge nei sondaggi stava conquistando persino i conservatori. C'era stata solo una piccola battuta d'arresto per un paio di giorni a metà dicembre quando aveva commesso il grave errore di tingersi i capelli di un color nocciola. L'aveva fatto solo perché i capelli grigi lo infastidivano, non per vanità o per sembrare giovane, ma per preservare la propria autostima. Eppure per ben due giorni e mezzo gli esperti dei media non poterono fare a meno di lamentarsi di ciò che Rutledge stava cercando di dimostrare. Apparentemente tingersi i capelli non era previsto nel grande libro non scritto delle regole presidenziali. Ci si aspettava, com'era successo ai suoi predecessori, che invecchiasse con dignità, oppure anche in maniera terribile.
Questo era uno di quei momenti molto rari in cui era solo, e si stava proprio godendo quell’attimo, la giacca appesa al muro e i calzini neri sul tavolo. Ovviamente non era mai davvero solo; c'erano telecamere dappertutto e almeno due membri dei servizi segreti erano appostati appena fuori dalle porte dell'ufficio. Ma era abbastanza, e si sarebbe regalato quei piccoli momenti appena possibile, perché erano rari e lontani tra loro, momenti che a malapena riempivano gli spazi esigui come le fessure tra i mattoni.
I rapporti degli Stati Uniti con la Russia erano in crisi da un paio d'anni ormai, anche prima che Rutledge diventasse Presidente della Camera. E ora anche la Cina era passata dalla parte del nemico. La guerra commerciale era finita e il governo cinese se la stava giocando bene, ma solo perché Rutledge stesso aveva minacciato di far trapelare l'intero calvario dell'arma ad ultrasuoni e le identità dei commandos che la gestivano. Al momento c'era una tregua, ma fragile come il vetro e che poteva frantumarsi non appena i cinesi ne avessero intravisto l'opportunità.
Eppure qualcosa doveva dare. Rutledge lo sapeva e aveva anche un'idea, ma fu la Barkley a fargli credere che si potesse fare. Aveva un modo tutto suo di affrontare problemi enormi, apparentemente impossibili e trasformarli in soluzioni attraverso percorsi razionali. Sarebbe stata una grande matematica, pensò; per lei ogni problema si risolveva nei componenti più semplici.
L'obiettivo, in poche parole, era la pace in Medio Oriente. E non solo tra gli Stati Uniti e ogni paese membro, ma anche tra tutti gli altri paesi. Certo, era inverosimile, ma l'importante sarebbe stato muoversi nella giusta direzione.
E dopo due mesi di incontri, di pianificazione, di speranza e di ascolto degli oppositori, di strategie e corteggiamenti, di scrittura di discorsi e di notti agitate, stava accadendo.
"Domani, l'Ayatollah dell'Iran verrà a Washington".
Lo disse ad alta voce, solo a se stesso nello Studio Ovale vuoto, come se volesse sfidare qualcuno ad entrare per contraddirlo. Ma era vero; il capo supremo dell'Iran, un uomo che una volta aveva promesso pubblicamente che non avrebbe mai capitolato agli Stati Uniti, un uomo che aveva demonizzato l'intero paese, sarebbe arrivato il giorno seguente, per far visita prima di tutto all'edificio delle Nazioni Unite a New York, dove in quel momento si stava rivedendo in fretta e furia un trattato da sottoporgli. Poi l'Ayatollah si sarebbe recato a Washington, DC, per incontrare Rutledge per firmare il trattato reciprocamente vantaggioso che avrebbe garantito non solo la pace tra i loro stati, ma anche aiuti concreti al popolo dell'Ayatollah e (possibilmente) avrebbe contribuito a mitigare la xenofobia islamica.
Rutledge era nervoso, ma cautamente ottimista. Se l'Ayatollah avesse accettato i termini del trattato, non solo avrebbe fatto la storia ma sarebbe anche diventato il motore propulsore per altre nazioni islamiche che ne avrebbero seguito l'esempio.
O la maggior parte di loro, pensò amaramente. La Barkley non aveva risparmiato alcun dettaglio durante il suo recente viaggio in Arabia Saudita per il funerale del defunto re e le conseguenti richieste del principe, o meglio, del nuovo sovrano. Le truppe statunitensi stavano già lasciando i posti di comando e si stavano ritirando nelle nazioni vicine. Le ambasciate erano state svuotate. Rutledge laggiù aveva dei contatti che cercavano di tenerlo il più possibile lontano dall'opinione pubblica americana, ma era un compito impossibile. Le voci arrivavano vorticose dall'Arabia Saudita attraverso altri canali.
Tutto questo li aveva dunque spinti ad affrontare il fragile equilibrio tra Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti. Presto o tardi ci sarebbero stati progetti e conferenze stampa.
Finalmente. Ma si doveva aspettare la visita del leader iraniano. Aveva trascorso troppo tempo a fare in modo che questa visita potesse avere luogo.
Un forte bussare alla porta non solo lo scosse dai suoi pensieri, ma lo spaventò tanto da fargli togliere i piedi dal tavolino per mettersi seduto diritto, come se sua madre l'avesse sorpreso con i piedi sul mobilio buono.
"Signor Presidente".
Si schiarì la voce. "Vieni, Tabby".
La porta sinistra delle due porte color crema si aprì quanto bastava per consentire a Tabitha Halpern di infilarvi la testa di capelli ramati lunghi fino a terra. "Mi dispiace signore, ma è necessario immediatamente…"
"Fammi indovinare". Rutledge si massaggiò la fronte. "La stanza delle decisioni".
Il capo dello staff della Casa Bianca si accigliò. "Ha chiamato qualcuno?"
"No, Tabby. Era solo un'ipotesi plausibile". Prese le scarpe. "Una settimana. Mi piacerebbe passare almeno una settimana senza affrontare una crisi. Non sarebbe già qualcosa?
*
La sala conferenze John F. Kennedy si trovava nel seminterrato dell'ala ovest, uno spazio di quindici metri quadrati comunemente denominato la stanza delle decisioni, e giustamente, poiché l'unica ragione per cui il Presidente Rutledge doveva metterci piede era per prendere delle decisioni su questioni urgenti.
E c'erano sempre decisioni da prendere a quanto pare.
Due agenti dei servizi segreti aprivano la strada, con un'altra coppia dietro, mentre Tabby Halpern cercava di velocizzare i movimenti per tenere il passo leggendo qualcosa su un foglio che le era stato consegnato solo pochi istanti prima. Si parlava di qualcosa sulla Corea del Sud e di una nave rubata; Rutledge era ancora abbastanza perso nei suoi pensieri.
Ti prego, fa che non sia una catastrofe. Non ora, alla vigilia di una visita storica.
Già attorno al tavolo lucido da conferenza c'erano i soliti sospetti e facce familiari, o almeno la maggior parte. Il segretario alla Difesa Colin Kressley era in piedi davanti alla sua sedia, accanto al direttore dell'intelligence nazionale, David Barren. Di fronte a loro c'era il direttore della CIA Edward Shaw, un uomo che si muoveva come se la sua spina dorsale fosse fatta di acciaio e la bocca esistesse solo per fare una smorfia. I due uomini ai lati di Shaw erano sconosciuti.
Il vicepresidente Barkley non era presente, osservò, sebbene il protocollo stabilisse che la sua presenza fosse facoltativa in riunioni come questa, a seconda della natura della situazione e di qualunque altra cosa avesse tra le mani in quel momento.
"Signori", salutò Rutledge mentre lui e Tabby attraversavano la stanza. "Prego, sedetevi. Non credo di dover ricordare che giorno sia domani o quanto sia importante questa visita. Qualcuno, per favore, mi dica che si tratta di un briefing sulla sicurezza o di una festa a sorpresa".
Nessuno riuscì a tirare fuori un sorriso; semmai, il cipiglio del direttore Shaw si fece più intenso. Rutledge si ricordò di reprimere il suo comportamento generalmente sprezzante quando si trovava in quella stanza progettata per affrontare problemi catastrofici.
"Signor Presidente", disse burbero in tono baritonale il generale Kressley. "Due giorni fa un satellite sull'Oceano Pacifico del Nord ha rilevato un picco di energia molto breve e molto potente a poco più di trecento miglia a sud-est del Giappone".
Il Presidente corrugò la fronte. Aveva ascoltato solo per metà Tabby mentre si dirigevano verso la stanza delle decisioni, ma lei aveva parlato di una nave scomparsa.
"Il picco di energia si è poi trasformato in un potente aumento di fulmini o potenzialmente in un'esplosione proveniente da una tasca geotermica", continuò Kressley. "Ma ora abbiamo motivo di credere che si tratti decisamente di qualcos'altro…"
"Mi scusi, generale", interruppe Rutledge con una mano alzata. “Il briefing diceva che nella Corea del Sud era scomparsa un'imbarcazione. Se si scopre qualcosa sul picco di energia, possiamo arrivarci più velocemente?”
Kressley si irrigidì un momento, ma fece un cenno al direttore Shaw.
“Signore". Shaw incrociò le mani sul tavolo, una strana abitudine che Rutledge notava sempre quando l'ex direttore della CIA parlava. “Meno di trenta minuti fa, il governo sudcoreano ha condiviso un dossier interno con la Central Intelligence Agency. Se quello che stanno dicendo è vero, hanno sviluppato un'arma molto potente e l'hanno montata su una piccola nave introvabile. Durante il primo test dell'arma nell'Oceano Pacifico, l'impennata di energia che il Segretario alla Difesa, ha appena descritto, la nave è stata attaccata. Nessuno dell'equipaggio è sopravvissuto. La nave e l'arma sono state rubate".
Un sibilo sfuggì dalla gola di Rutledge, perfettamente in tema con la sensazione esplosiva che stava improvvisamente crescendo in lui. Troppe informazioni di assimilare in poco tempo.
"Quest’arma". La voce di Rutledge era bassa ma udibile in quella stanza silenziosa. "Quest'arma è stata creata in segreto?"
"Sissignore".
"Ed è stata testata in segreto".
"Esatto, signore".
"E i sudcoreani hanno aspettato due giorni interi per dirci che è stata rubata". Rutledge aveva solo bisogno di confermare che tutto ciò che aveva sentito dire dai suoi così detti alleati sulla penisola coreana fosse corretto.
"Esattamente, signor Presidente". Shaw fece una pausa per un momento prima di aggiungere: “Sembra che inizialmente fossero ottimisti sulle possibilità di recuperarla. Ma ora stanno chiedendo il nostro aiuto".
Rutledge digrignò i denti. Era peggio di quanto potesse immaginare. Non solo qualcuno aveva messo le mani su quest'arma, ma non poteva certo rompere alleanze proprio ora che stava cercando di crearne una.
"Di che arma si tratta?" Chiese.
"Riguardo a questo", disse Shaw, "lascio che glielo dica il Dottor Michael Rodrigo". Fece un gesto verso l'uomo alla sua sinistra, probabilmente il più giovane nella stanza, non più di quarant'anni. "Il nostro massimo esperto di tecnologia delle armi avanzate e responsabile per la ricerca e lo sviluppo della Marina degli Stati Uniti".
"Grazie, signor Presidente", disse in fretta il dottor Rodrigo. "È un onore per me essere qui a parlare con lei di questo argomento…"
"Di che arma si tratta?" Chiese di nuovo Rutledge.
Il dottore si aggiustò la cravatta. "Bene, signore, se il dossier della Corea del Sud è legittimo, allora hanno creato un’arma al plasma".
Rutledge sbatté le palpebre. Aveva già sentito parlare di armi al plasma, e sapeva che la Marina ne aveva un modello funzionante da qualche parte, ma sembrava ancora una cosa piuttosto fantascientifica. “Che cosa?”
"Un’arma al plasma", ripeté il dottore. “Ad essere sinceri, fino ad ora questo tipo di arma non era mai stato realizzato nella realtà. In effetti, è difficile poter credere pienamente alla sua esistenza fino a quando non verrà trovata la nave scomparsa…"
"O fino a quando l'arma non viene utilizzata", aggiunse secco Kressley.
"Beh… sì", concordò il dottore. "Basti pensare che l’arma è un'arma a proiettili con la capacità di distruggere qualsiasi bersaglio a poche centinaia di miglia di distanza".