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CAPITOLO QUATTRO
ОглавлениеMaria Johansson fece scorrere la sua tessera magnetica in una fessura verticale nel muro di un corridoio bianco, nei sotterranei del quartier generale della CIA a Langley. Si sentì un forte ronzio, lo scivolare di un pesante dispositivo elettronico e la porta d'acciaio si aprì con grande fragore.
Questo era solo uno dei quattro piani sotterranei del George Bush Center for Intelligence: quattro di cui lei era a conoscenza e probabilmente ce n'erano altri di cui era all'oscuro. Anche in qualità di ex vicedirettore, non era a conoscenza di tutti i segreti dell'agenzia e non era abbastanza stupida da credere che avrebbe mai avuto accesso a tutti i segreti di quell’edificio.
Tuttavia, era stupefacente che la sua chiave magnetica funzionasse ancora. A novembre, dopo aver fermato il gruppo di ribelli cinesi e la loro arma ad ultrasuoni, si era dimessa dal suo incarico e aveva ripreso la sua attività di agente speciale. Eppure non le avevano ancora revocato le autorizzazioni di cui godeva grazie alla sua posizione precedente.
Ed era piuttosto sicura di sapere il perché.
Maria chiuse la porta dietro di sé e fece un cenno all'unica guardia di sicurezza vestita di grigio che sedeva dietro una scrivania beige. L’uomo stava leggendo una copia della rivista Sports Illustrated. "Buongiorno, Ben".
"Signora Johansson". L'agente in pensione non aveva intenzione di muoversi, tanto meno di controllare il suo ID o scansionare la sua chiave magnetica.
"Devo firmare …?" chiese dopo un momento di imbarazzante silenzio.
Ben sorrise. "Credo di ricordare ancora chi è lei, l'ho vista pochi giorni fa". Ciondolò con la testa lungo il corridoio. "Vada pure".
"Grazie".
I tacchi dei suoi stivali fecero rumore sul pavimento piastrellato ed echeggiarono tra le celle vuote mentre si dirigeva verso l'ultima stanza sul lato sinistro del corridoio. Non c'erano altri prigionieri in questo piano seminterrato; si trattava di un’area di detenzione temporanea, solitamente riservata a terroristi locali, criminali di guerra, militari furfanti e occasionali agenti traditori. Era una stazione di passaggio lungo il percorso verso luoghi molto peggiori, come Hell Six in Marocco, o un semplice buco scavato nella terra.
Odiava mentire a Zero. È così che pensava a lui in questi giorni, come a Zero. Le aveva chiesto di smettere di chiamarlo Kent il mese precedente. Nessuno ormai lo chiamava più con il suo ex alias della CIA; ormai non era più Kent Steele. E quasi nessuno tra tutti quelli che si relazionavamo con lui lo chiamavano con il suo vero nome, Reid Lawson. Era semplicemente l'Agente Zero. Accidenti, anche il Presidente lo chiamava Zero. E anche Maria.
Anche se "burocrazia", tecnicamente, non poteva essere considerata una bugia, ricordò a sé stessa. Era la loro parola in codice per dire "è un segreto e preferirei che non me lo chiedessi". In effetti, proprio la settimana precedente, quando aveva detto alle ragazze che sarebbe andato in California, le aveva detto che doveva prendersi cura di alcune "scartoffie burocratiche".
Quindi lei non gli chiese nulla. Beh ci aveva scherzato su molto con lui quella mattina, ma non seriamente. Inoltre, cosa avrebbe dovuto dirgli? Negli ultimi due mesi sono andata a trovare un'assassina, una prigioniera della CIA e mi imbarazza ammetterlo?
Certo che no. Suonava davvero terribile.
La cella era angusta, con un pavimento e un soffitto di cemento e pareti fatte non di sbarre ma di vetro rinforzato. Una griglia di fori sul lato rivolto verso il corridoio rendeva possibile la comunicazione con la prigioniera che si trovava all'interno. Non c'erano finestre, ma quel che è peggio è che non si riusciva a scorgere nemmeno una porta. Maria non era nemmeno sicura di come fosse accessibile la cella; un pannello nascosto in una delle facciate di vetro, molto probabilmente, ma non era minimamente evidente. Era una manovra psicologica intesa a dimostrare alla prigioniera che non c'era assolutamente via d'uscita.
Il cuore di Maria si spezzava un po' ogni volta che vedeva quel vetro. Anche se non c'era nessun altro lì, oltre a Ben, la guardia, non c'era alcuna privacy. All'interno c'era una piccola branda con coperta e cuscino, una minuscola zona bagno che consisteva in un lavandino, una toilette e una doccia, tutti aperti, tutti esposti, ed un'unica sedia d'acciaio, fissata al pavimento.
Ma oggi l'abitante della cella era seduta a gambe incrociate sul pavimento di cemento esattamente al centro della cella, la parte più aperta di quel piccolo ambiente. Probabilmente, suppose Maria, questo le dava l'illusione di avere un po' di spazio.
"Buongiorno", disse Maria. Doveva parlare a voce un po’ più alta del normale in modo che la ragazza potesse sentirla attraverso i fori praticati nel vetro.
“Ciao”. Mischa non si voltò subito a guardarla. Ma faceva così da quando Maria aveva iniziato ad andarla a trovare. Se ne stava un poco in disparte, quasi per abituarsi alla presenza di Maria.
La ragazza aveva dodici anni, i capelli biondi e gli occhi verdi. Maria poteva definirla carina nonostante il volto inespressivo che generalmente le appiattiva i lineamenti. Indossava semplici pantaloni blu di poliestere o cotone, come un'infermiera in un pronto soccorso, senza tasche o cerniere o alcunché di metallo. Era a piedi nudi. Di solito era imbronciata, parlava poco e sapeva uccidere un uomo tre volte più grossi di lei, senza il minimo sforzo. L'ultima volta che Maria l'aveva vista senza un vetro che le separasse aveva davvero cercato di uccidere lei e Zero.
"Ti ho portato una cosa", disse Maria in russo. Non era sicura della nazionalità della ragazza, ma il suo inglese era perfetto e senza accenti. Durante le molte visite Maria aveva scoperto che parlava altrettanto bene il russo, l'ucraino e il cinese.
All'altezza del gomito di Maria c'era un piccolo portello rettangolare nel vetro con una maniglia ad anello. Lo aprì e depositò il croissant che aveva preso nell'appartamento di Zero. La portella dalla parte di Mischa, era modificata in modo da non poter essere aperta contemporaneamente a quella esterna, non che avesse importanza. La ragazza non mangiava mai il cibo che Maria le portava prima che se ne fosse andata.
"Dovrebbe essere ancora caldo", aggiunse.
"Spasiba", disse Mischa, quasi troppo a bassa voce per essere sentita. Grazie.
"Ti danno da mangiare abbastanza?"
La ragazza si limitò a scrollare le spalle.
Maria chiuse gli occhi per un momento per reprimere le lacrime che improvvisamente le stavano salendo. Non sapeva perché si emozionasse così tutte le volte che veniva a trovarla, ma almeno una volta per ogni visita veniva colpita da un'onda di dolore nel vedere una ragazza così giovane rinchiusa in una cella sotterranea.
Mischa faceva parte del gruppo cinese che era in possesso dell'arma ad ultrasuoni. Il suo capo era una russa dai capelli rossi, una ex spia di nome Samara che si era unita ai cinesi in un complotto terroristico sul suolo americano progettato per apparire come un attacco di matrice russa. Samara e tutti i suoi compagni erano ormai morti. Solo Mischa era sopravvissuta. Eppure nessun paese la reclamava, era stata rinnegata dal mondo intero.
La ragione principale per cui era rimasta nel sotterraneo di Langley non era certamente perché la CIA avesse intenzione di mandarla nel sito nero marocchino. No, era perché l'agenzia non poteva effettivamente dimostrare che avesse commesso dei crimini. Nessuno della squadra, né Zero, né Strickland, e certamente nemmeno Maria, aveva fatto dichiarazioni contro di lei o raccontato in dettaglio le sue azioni.
Semplicemente non sapevano cosa farsene di una bambina potenzialmente pericolosa, a cui probabilmente avevano lavato il cervello, molto ben addestrata e decisamente letale. E così rimase lì.
Ma Maria non vedeva nulla di tutto ciò. Vedeva semplicemente una ragazza che, nel corso di un paio di mesi, aveva mostrato una grande vulnerabilità, aveva dimostrato di avere ancora un lato umano.
"Che c'è?" Chiese Mischa.
Maria si rese conto di avere ancora gli occhi chiusi. Li aprì e sorrise quando vide la ragazza che la guardava interrogativa. "Sai… per essere sincera, sono triste".
“Perché?" Lo chiese con indifferenza, come se fosse una domanda retorica.
"Sono triste per te", disse Maria. "Che devi stare qui".
"Sono stata in posti peggiori", disse semplicemente la ragazza.
"Dico sul serio", le disse Maria con fermezza. "Meriti qualcosa di meglio. Non sei un animale. Forse…” Si fermò. Forse potrei negoziare per procurarti una cella con una finestra, fu sul punto di dire.
Ma sarebbe stata comunque una cella.
Maria aveva cominciato a far visita alla ragazza solo due giorni dopo la sua incarcerazione, e da allora veniva due volte la settimana. Durante le visite Mischa non la guardava neppure, né le diceva mai una parola. Le visite successive servirono per convincere la ragazza che Maria non andava a trovarla per ferirla o torturarla. Maria non cercava informazioni. In realtà, non voleva che la ragazza parlasse della sua vita passata, e quella era la verità assoluta; la cella era monitorata sia da video che da registrazioni audio e qualsiasi discussione sul passato di Mischa avrebbe potuto svelare indiscrezioni che le avrebbero procurato un biglietto di sola andata verso un luogo ben peggiore.
Maria aveva impiegato sette settimane per capire che il colore preferito della ragazza era il viola e che le piacevano i Tootsie Rolls, anche se era chiaro che probabilmente Mischa non aveva mai assaggiato altri tipi di caramelle. Così Maria gliene portò un po'. Dopodiché divenne un rito per lei portarle un po' di cibo e, con il permesso di Ben, la guardia, lo faceva scivolare attraverso la piccola porta rettangolare nella cella.
Maria sapeva di essere osservata, ma non le importava. In effetti, era abbastanza certa che il motivo per cui aveva ancora le autorizzazioni da vicedirettore fosse perché andava a trovare la ragazza. Finché lo faceva nel suo tempo libero, nessuno doveva fare altro che guardare, ascoltare e sperare che arrivassero delle informazioni.
Maria si abbassò sul pavimento e si sedette a gambe incrociate appena oltre il vetro, le sue ginocchia quasi toccavano la superficie della cella. "Ti piacerebbe giocare?"
Mischa la guardò con la coda dell'occhio per un attimo. "Che tipo di gioco?"
"Si chiama Never Have I Ever". Ne hai mai sentito parlare?
La ragazza scosse la testa.
"È molto semplice. Alza tre dita, in questo modo". Maria sapeva che la ragazza non avrebbe parlato apertamente, ma sperava che nascondere qualche domanda in un gioco l'avrebbe convinta ad aprirsi di più. “Inizierò dicendo qualcosa che non ho mai fatto, ma che mi piacerebbe fare. Se tu hai già fatto quella cosa, abbassa un dito. Poi dì qualcosa che non hai mai fatto tu. Se tutte le tue dita sono abbassate, hai perso".
Mischa rimase a fissare il pavimento per alcuni secondi, abbastanza a lungo perché Maria potesse pensare che il suo stratagemma non fosse intelligente come aveva inizialmente pensato.
Poi la ragazza sollevò lentamente un braccio e sollevò tre dita.
"Bene. Comincio io. Vediamo… non sono mai stata alle Bahamas".
Le tre dita della ragazza rimasero alzate.
"Bene" disse Maria, "ora tocca a te".
"Non ho mai…" mormorò la ragazza. "Giocato a calcio".
Maria piegò lentamente un dito verso il basso. "Ma ti piacerebbe?"
Mischa annuì.
"Hai visto altri bambini giocarci? o alla TV?"
“In televisione. Sembrava…" Si interruppe per un momento, come se stesse cercando la parola giusta. "divertente".
Maria trattenne il sorriso. Quella era la più grande confessione che aveva ottenuto finora da Mischa. "Molto bene. Tocca a me. Non ho mai mangiato caramelle fino a star male".
La fronte della ragazza si corrugò. "Perché mai dovresti farlo?"
“Beh, tu non lo faresti, immagino. Ma a volte le persone tendono a esagerare".
Le tre dita di Mischa rimasero alzate. "Non ho mai avuto un'amica".
Maria si morse rapidamente il labbro per soffocare un forte sussulto che quasi le sfuggì". Non si aspettava quel candore e fu presa alla sprovvista, come da una morsa che la afferrasse all'improvviso.
"Mi dispiace", disse dolcemente abbassando il secondo dito. Forse dovremmo fermarci".
"Ma sto vincendo".
Un sorriso involontario si aprì sulle labbra di Maria. "Hai ragione. è vero. Ok. Non ho mai coltivato un giardino".
Le sue tre piccole dita rimasero sollevate e Maria trattenne il respiro nell'attesa di quello che la ragazza avrebbe potuto aggiungere.
"Non ho mai incontrato mia madre".
Maria lasciò che emettesse lentamente un sospiro. Era un'affermazione terribile, ma non così sorprendente. Immaginava che Mischa fosse probabilmente stata abbandonata, o orfana, o forse addirittura rapita dai cinesi o da Samara o da qualunque altro gruppo che potesse averla addestrata. Abbassò l'ultimo dito e si mise le mani in grembo.
"Hai vinto", disse. Il gioco si era completamente ritorto contro di lei. Oltre a voler giocare a calcio, l'unica cosa che Maria aveva appreso era che la vita della ragazza, come già aveva immaginato, era stata terribile. Se solo…
"Mischa", disse all'improvviso. “Non posso promettere che incontrerai mai tua madre Ma posso prometterti altre cose. Posso prometterti che non rimarrai qui per sempre". Parlava in fretta, come se avesse paura che le parole potessero smettere di scorrere se si fosse fermata. “Potrai giocare a calcio, avere amici e… potrai mangiare caramelle fino a star male, se lo desideri. Potrai fare tutte queste cose". Maria cercò di reprimere le lacrime, lei stessa sorpresa per le promesse che stava facendo e di cui si era già pentita. Ci poteva provare, certo, ma non avrebbe potuto garantire nulla. "Dovresti avere tutte quelle cose".
"Come faccio a crederti?" domandò la ragazza.
Maria scosse la testa, sapendo che se avesse fallito si sarebbe scavata la fossa da sola. "Iniziamo da un primo passo. Lascia che ti porti qualcosa. Non solo cibo. Dimmi qualcosa che vorresti. Qualcosa da fare. Un… un gioco, o una palla, oppure…" Non aveva idea di cosa potesse interessare la ragazza.
Mischa ci pensò un momento. "Un libro".
"Un libro?"
“Dostoevskij”.
Maria rise, un po' sorpresa. "Vuoi che ti porti Dostoevskij?"
"Memorie dal sottosuolo".
"Wow. Va bene… Sì. Te lo porterò. Promesso". Maria si alzò in piedi. "Tornerò tra un paio di giorni e ti porterò il libro".
"Grazie, Maria". Era la prima volta che la ragazza la chiamava per nome. Era bello sentirlo, ma allo stesso tempo straniante.
“E… Mischa, ti sbagliavi su una cosa. Tu hai un'amica".
Maria si allontanò per il corridoio, con gli stivali che rimbombavano e riecheggiavano sul cemento. Non si voltò per vedere, ma sentì il rumore del piccolo portello d'acciaio, dove aveva messo il croissant, e sorrise.
Non sapeva come sarebbe riuscita a convincere qualcuno a liberare Mischa, o addirittura a garantirle più spazio e una maggiore privacy, ma ci avrebbe provato in tutti i modi. La ragazza le aveva dato la prima chiara indicazione che non era del tutto indottrinata, che dopotutto era ancora solo una bambina, una che voleva amici, fare sport e avere una famiglia.
Maria avrebbe fatto in modo che potesse fare tutto questo. Non poteva rimangiarsi le promesse che aveva fatto, non aveva altra scelta che mantenerle.