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V.

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L'incontro.

—Quando si va dunque a far visita a Villa Serena?—chiese per la terza volta il Cresti a Massimo Bagliani.

—Che vuoi? ho sempre un po' di paura.

—Paura di che? dei morti?

—No.

—Dei vivi?

—Nemmeno. Ho paura di me stesso.

—Tu sei un gran ragazzo. Ezio non sa capire perchè io non abbia ancora condotto il suo bravo zio d'America: e più aspetti, più dai a questa tua paura un significato che non ha,

—Allora andiamoci domani—disse finalmente Massimo dopo una lunga riflessione.

* * * * *

Massimo, fratello di Don Camillo Bagliani, più giovane di lui un certo numero di anni, poco prima della guerra del sessantasei aveva conosciuto in casa del Colonello Polony la bella Vincenzina Stellini, sorella di Matilde e se n'era perdutamente innamorato. Ma allora non era che un ufficiale in principio di carriera, sprovvisto affatto di fortuna, non in grado di pigliar moglie.

Matilde e Vincenzina Stellini, figlie di un umile cassiere della Tesoreria provinciale, eran cresciute in una casa molto modesta: e se proprio non avevan veduto la povertà, avevan vissuto in quelle piccole angustie che come un paio di scarpe strette fan più male che l'andare a piedi nudi. Ma belle e piacenti, trascinate dal padre, vecchio gaudente, alle feste di tutti i carnevali torinesi, trovarono per via la loro fortuna. Matilde sposò il conte Polony, uomo non più giovane ma di una grande amabilità, soldato valoroso, già in bella posizione e in via di andar più in su. Vincenzina, dopo alcuni anni, s'imbattè in Massimo Bagliani, che non potè sposarla subito, per mancanza di quel deposito che il regolamento chiede ai militari: ma promise di farlo appena le circostanze lo avessero permesso.

Massimo sperò nell'aiuto di suo fratello Camillo, che occupava già un grado autorevole nella magistratura. Pare che dell'asse paterno non ancora diviso una parte gli spettasse di diritto: ma c'eran contestazioni e liti da parte degli interessati per modo che non si potè far conto di questo denaro.

Forse Camillo non volle o non potè rendere allora dei conti, che non furono resi mai, nemmeno più tardi: forse Massimo non ebbe abbastanza forza d'insistere nel far valere il suo diritto: forse il suo fratello maggiore, coll'autorità che avea sempre esercitata nell'animo timido del giovane, gli dimostrò che alla sua età non gli conveniva intralciare una carriera sul principio, molto più che i tempi eran pieni di minaccie e che la guerra poteva scoppiar da un giorno all'altro… come infatti scoppiò.

Massimo dovette partire per il Veneto, e partì, lasciando nelle mani della bella Vincenzina il suo cuore. Se una palla austriaca non la faceva finita, egli sperava di tornare almeno capitano. La sua sposa l'avrebbe conquistata sul campo di battaglia. Fu una separazione dolorosa e lacrimosa di cui Vincenzina conservò un troppo debole ricordo; o almeno così dovette giudicare la gente, quando s'intese dire tutto ad un tratto che essa andava sposa ad un altro.

Che era accaduto? la storia era ancora per Massimo piena di ombre e di mistero. Sul campo di battaglia il nostro ufficialetto si era comportato assai bene, Il Conte Polony era spirato nelle sue braccia e gli aveva raccomandato, morendo, Matilde e Flora; ma gli avvenimenti precipitosi che seguirono al disastro di Custoza sconvolsero tutti i suoi progetti. Scoppiata la rivoluzione in Sicilia, il suo reggimento fu mandato laggiù in un'ingrata guerra civile: poi per nove o dieci mesi si trovò confinato nel distretto di Caltanisetta, lontano da ogni comunicazione col mondo, in continue scaramuccie coi briganti.

Qui lo raggiunsero le prime lettere di Matilde, che furono per il suo cuore il segnale di un nuovo disastro morale. Morto il colonello Polony, essa e la piccina avevano dovuto ritornare in casa del padre, il quale non poteva più provvedere a tutti. Il povero uomo in seguito a un errore commesso (che Massimo non potè mai conoscer bene) era stato costretto a chiedere il suo riposo, mentre si faceva sempre più vecchio e più esigente. Se Massimo non poteva mantenere la sua promessa, toglieva alla povera Vincenzina ogni altra occasione di ben collocarsi e di venir eventualmente in soccorso delle due famiglie. Già molte onorevoli richieste si erano presentate e altre se ne presentavano, a cui sarebbe stato imprevidenza nelle condizioni loro chiudere gli orecchi: ma Vincenzina si sentiva obbligata dalla sua parola. Il babbo Scellini reso querulo dalla sventura non cessava dal dire che le sue figliuole non avevan cuore per lui, che volevano lasciarlo morire di fame. Nel suo egoismo d'uomo gaudente e avido scriveva anche lui lettere indelicato al povero Massimo per voler sapere che conti si potevan fare sull'avvenire… Finchè Massimo, già coll'animo scoraggiato e affranto per le cose pubbliche, in un momento quasi di dispetto e di avvilimento, scrisse che egli lasciava libera Vincenzina di disporre della sua mano. Tre mesi dopo, mentre si trovava gravemente ammalato di scorbuto all'ospedale militare, suo fratello Camillo gli scriveva da Torino che intendeva dare una seconda madre al piccolo Ezio: e senza troppe parole annunziavagli il suo matrimonio con Vincenzina Stellini.

Fu un colpo che per poco non lo trasse alla morte. La condotta di Vincenzina e de' parenti suoi gli parve un basso tradimento: quella di suo fratello iniqua. Come avesse potuto avvenir ciò egli non sapeva immaginare, ma confusamente sentiva che Vincenzina, presa tra due feroci egoismi, non aveva avuta la forza di resistere. A lei forse avrebbe potuto perdonare: ma Camillo, che conosceva i suoi bisogni e il suo cuore, quest'uomo che nell'alta sua posizione sociale poteva scegliere fra cento donne della più eletta aristocrazia, questo fratello che approfittava della debolezza di un fratello minore per sopraffarlo, ah no, questo Caino non era degno di perdono.

Massimo non morì di quell'oltraggio, ma non volle che nessuno lo vedesse soffrire. Scrisse a Camillo quel che credeva necessario di scrivergli in forma alta e superba: non gli chiese nemmeno quel piccolo rendiconto dell'eredità paterna a cui aveva pur diritto: lo giudicò secondo i suoi meriti: e date le dimissioni, s'imbarcò sopra una nave inglese per la via dell'America. E non era più tornato da quel dì. Laggiù fece qualche fortuna in piccole imprese minerarie e il governo ebbe a servirsi di lui prima come console, poi gli conferì il grado di ambasciatore presso i piccoli Stati della Bolivia e della Venezuela. Unico filo che lo tenne legato al vecchio mondo fu l'amicizia di Cresti, col quale non cessò mai di corrispondere e che lo teneva periodicamente informato delle vicende grandi e piccole del suo emisfero. Quando Camillo Bagliani venne a morire, il Cresti fu il primo ad aprir trattative per una conciliazione.

Morto l'uomo che era stato causa de' suoi mali, non ci era più motivo perchè egli si condannasse a un eterno esilio.

Gli altri erano stati anch'essi vittima innocente delle circostanze. Il tempo seppellisce coi morti anche molti rancori vivi, mentre i vivi hanno bisogno di pace, di perdono, di soccorso.

Fossero questi consigli o parlasse più forte nell'animo buono di Massimo un desiderio di rivedere il sole della sua patria e col sole qualche fiore non appassito del tutto delle sue memorie, finì col lasciarsi persuadere. Anche il suo cuore che era stato malmenato in tante battaglie e che aveva palpitazioni troppo frequenti, sperava di trovar quiete e vigore nell'aria nativa. Tornò, si lasciò condurre dal vecchio Cresti fino al Pioppino; ma sul punto di scendere a Villa Serena provava ancora qualche titubanza e una specie di sgomento, quale proverebbe un attore sul punto di uscire sulla scena a recitare una parte che non sa troppo bene.

—Allora ci andremo domani—aveva detto e promesso; ma la notte prima non potò quasi dormire. Del passato non si doveva discorrere, s'intende; era bene incontrarsi come vecchie conoscenze che si fossero conosciute in illo tempore in qualche amena villeggiatura, d'accordo. Nè egli doveva ricordare i torti ricevuti, nè all'altra parte conveniva riandare parole e violenze che avevano nel tempo perduta ogni loro forza. La colpa era stata di tutti: forse di nessuno o di quel destino che non si sa che cosa sia. Ezio aveva trovato in Vincenzina una matrigna buona e indulgente, e in virtù di questo bene doveva essere più disposto a far verso lo zio un atto di tenerezza, che tenesse il luogo d'ogni altra riparazione. Egli, vecchio vagabondo, sentiva il bisogno di voler bene a qualcuno. Le miniere gli avevano procurato qualche vantaggio e non voleva buttare il suo ai cani: mentre questo figliuolo, questo Bagliani, per poco che sapesse fare col vecchio zio, avrebbe potuto cavargli il cuore.

Questo pensiero d'un appoggio per l'avvenire gli aveva fatto parer dolce e ragionevole il ritorno: e poichè Cresti aveva delicatamente così ben preparato il terreno, era una sciochezza aver tutta quella sì grande paura, quasi che il rivedere la donna che si è amato inutilmente in gioventù, fosse come aprire una tomba.

—Cresti ha ragione di dire ch'io son peggio d'un fanciullo. Che cosa posso ormai temere?

Per non agitarsi troppo su questi pensieri, che gli toglievano il sonno, lesse qualche pagina della storia del Consolato e dell'Impero del Thiers, che insieme a qualche opera del Cantù e del Balbo formavano la biblioteca del Pioppino: e si addormentò nel bel mezzo della battaglia di Austerlitz.

Il giorno dopo si fece la barba e si vestì nel miglior modo con quella compitezza tutta militare ch'era rimasta ne' suoi gusti anche in mezzo ai più crudi bisogni. E dopo colazione si lasciò condurre al convegno. La sua visita era stata annunciata da Cresti, che aveva in giuoco anche lui il suo interesse. Massimo s'era assunto di aprire le prime trattative di quell'atto, che doveva essere per l'amico il passo risolutivo di tutta la sua vita.

—Donna Vincenzina—gli aveva detto il Cresti—vuol un gran bene a Flora e Flora sta volentieri a quel che dice la zia Vincenzina. Tu le devi chiedere prima di tutto quel che pensa di me, se gli sembro un uomo ragionevole o un pazzo. Se essa ci incoraggia, nessuno meglio di lei potrà fare il resto. Dille che io metto la mia vita nelle sue mani. Al punto a cui sono arrivato non posso più vivere di dubbi e di incertezze: meglio un bel colpo sul capo tutto in una volta che non questo morire a goccia a goccia.

—Io farò del mio meglio, quantunque sia un ambasciatore in disponibilità.

Per evitare il troppo sole seguirono un pezzo la stradicciuola alta in mezzo ai campi e uscirono sulla strada di Bolvedro, dove Cresti si fermò alla botteguccia d'un pasticciere a comperare un cartoccio di bocche di dama e di schiumette per le signore. Massimo andò avanti solo e alla prima ombra che trovò si fermò ad aspettare il compagno, seduto sull'orlo di un muricciuolo. Dai giardini veniva un buon profumo di erbe aromatiche. La montagna sparsa di casolari, divisa in quadratelli coltivati, nella piena luce del sole saliva a disegnarsi colla linea grossa delle sue creste sul fondo del cielo. Il lago mandava alla riva un'onda blanda, senza spume, in cui riflettevasi senza rompersi l'immagine di tre nuvolette bianche immobili sopra il San Primo.

Massimo andava osservando queste cose sparse per non voler pensar troppo alla sua parte di attore pauroso: ma per quanto cercasse di uscir di sè, non poteva a meno di non rimasticare il suo monologo:—Non è lei che debba perdonare qualche cosa a me; piuttosto sono io che dovrei perdonarle di non aver avuto fiducia nelle mie forze: ma a che giova riandare quel che non può più tornare indietro? Il perdono è un vaso delicatissimo che è difficile tanto consegnare come ricevere bene. Meglio sarà non parlarne. Ma il tempo, il tempo che cosa avrà fatto di noi? Cresti dice che ella è ancora quella di prima, se non forse più bella: ma io non son più quello e stenterò a rientrare così rotondo come sono nella sottile immagine che forse ella conserva ancora di me. Dovrà ridere un poco vedendo quel che il tempo cava fuori da un brillante ufficiale di cavalleria, o, se è vero, come vuol Cresti, ch'io sia rimasto ancor vivo nel suo pensiero, dovrà piangere, vedendomi diventato l'astuccio di me stesso. Era forse meglio ch'io non risuscitassi e restassi morto giovine nella sua memoria. Ma andiamo avanti: oggi non è per me ch'io vivo: oggi devo anch'io tornar utile a chi mi vuole adoperare. Ezio mi dovrà condurre a visitare una tomba, che ha bisogno anch'essa d'un mio requiem. Lo devo dire anche per riposo dell'anima mia, perchè da troppo tempo porto chiuso nell'anima il peso morto d'un odio inumano e inutile. Chi rientra nell'amore rientra nella vita: e nulla fa tanto piacere come una buona fiammata domestica al comparire delle prime nebbie d'autunno.

Su questo filo all'incirca correvano i suoi pensieri, mentre le cicale facevano coro dagli ulivi. Finalmente il piccolo Cresti comparì nel vano d'un portichetto e si avvicinò col suo passo diritto di soldatino di piombo, tenendo l'ombrello chiuso sopra una spalla come uno schioppetto e il pacchetto delle paste nella mano.

—Senti, ho pensato che oggi ci può essere anche Flora e che è forse meglio rimandare il gran discorso a un'altra volta—disse quando fu vicino.—E forse è meglio ancora che io non ci sia.

—Ho capito: anche tu hai una grande paura….—disse Massimo ridendo.

—Tanta paura che mi tremano le gambe.

—E allora—continuò Massimo, fermandosi nel mezzo della strada—che cosa andiamo a fare a Villa Serena? a che pro tormentarci a vicenda? Torniamo indietro.

Cresti stette a sentire se l'amico diceva da senno: a che pro tormentarci? ma quando vide che Massimo rideva di lui, appuntando un dito, gli disse:—Sei giusto tu il capitano senza paura!

—Tiriamo avanti, Massimo. Se saranno botte le piglieremo.

E in questo discorso giunsero davanti a un cancelletto che metteva nel giardino della villa. Cresti lo spinse e fece suonare due forti campanelli che ne custodivano la soglia e che riempirono il cuore di Massimo di un diabolico spavento. Ma non fu solamente il suo cuore a balzare allo schiamazzo di quei due campanelli pettegoli.

Anche donna Vincenzina, che aspettava da un'ora in ansietà, dopo una notte mal dormita, trasalì, impallidì, si lasciò andare sopra una sedia.

—E ora che cosa fai? sei pazza?—esclamò la sorella Matilde, vedendola così smarrita—possibile che tu possa aver di queste paure?

—Non è paura: paura di che? ma egli non è per me il primo che capita.

Mi avrà perdonato davvero?

—Che ti deve perdonare? tu hai sempre fatto più del tuo dovere.

—Ma egli non sa tutto. Un mistero c'è tra me e lui.

—Oramai è storia finita.

—È storia finita: ma io, senza mia colpa, gli ho fatto un gran male.

—S'egli avesse in cuore qualche rancore, non sarebbe venuto.

—È vero. E poi, dodici anni sono una gran tomba. Va tu, va tu incontro per la prima: io vi raggiungo subito.

Donna Vincenzina, rimasta sola, raccolse tutte le sue forze, si arrestò un istante davanti allo specchio passò le mani sulle tempie, corse col piumino della cipria leggermente sulla fronte e sulle gote, si considerò, forse si confrontò con un'altra donna d'altro tempo e nel venir via disse, lanciando un'occhiata al quadro ch'era a capo del letto:—Cara Madonna, aiutatemi voi!

La zia Matilde trovò Ezio che aspettava nell'atrio e gli disse:—Dunque siamo intesi. Quel che è morto è morto.

—Diavolo, zietta! e speriamo che nasca qualche cosa di bene.

Uscirono insieme sul piazzaletto, mentre Massimo e Cresti scendevano adagio adagio per il sentiero ombreggiato. Al veder la figura di una donna, Massimo s'arrestò un momentino e, sforzando il fiato, chiese sottovoce:—Chi è?

—È Matilde—mormorò il Cresti. Di mano in mano che scendevano dall'ombra verso la luce del piazzaletto, le cose si confondevano come dentro a una nebbia per il povero Massimo, che non sentiva più nemmen la voce del suo compagno, che gli faceva l'effetto d'un moscone. Fu scosso dagli schiamazzi allegri d'un giovinotto che, allacciandolo, stringendolo, palpandolo, gli gridava:—È questo dunque il mio vecchio zio d'America? oh, bravo: lasciati abbracciare, uomo selvaggio. Come ti si deve dire? cavaliere? commendatore? ambasciatore?

—Zio, zio, zio…—potè finalmente esclamare quel pover'uomo affogato dall'emozione.

—Un bacio me lo vuoi dare?

—O caro…—proruppe con immensa effusione di affetto quel buon uomo d'uno zio d'America, posando un bacio lungo sulla testa del giovine, come se con quel bacio deponesse tutto il fardello de' suoi vecchi dispiaceri. E le lagrime uscirono molli dagli occhi a tutti e due.

—Il merito è tutto mio d'averlo schiodato dagli antipodi—soggiunse il Cresti, che preso anche lui dalla commozione, per non saper piangere, andava movendo le gambe e agitando l'ombrello.

—Mia zia Matilde—disse Ezio presentandola.

—Oh…. oh…. Matilde, vecchia conoscenza—esclamò, ingrossando la voce, Massimo Bagliani per darsi della forza.

—È sempre bello quando ci si ritrova—disse la pallida signora.

—Ho amato il colonello Polony quasi come un mio padre.. Ma dov'è, dov'è.. la piccina? voglio dire quella piccina che dev'essere diventata un donnone? Dov'è Flora? soleva specchiarsi così volentieri nei bottoni d'argento della mia montura.

—Flora non è potuta venire oggi: l'aspettavano alla villa Carlotta per non so quale complotto di matrimonio.

Presento invece mia sorella, Vincenzina….—soggiunse, tirandosi un poco in disparte.

—Oh… oh… donna Vincenzina, grazie, ho piacere… Che bel sito! una vista stupenda! brava…

—Bravo anche lei!…

I due personaggi si parlavano senza vedersi, perchè una specie di nube era improvvisamente discesa in mezzo a loro. A poco a poco Massimo potè in mezzo alla nebbia riconoscere una testa con molti capelli chiari, due grandi occhi chiari anch'essi, una figura di donna molto bella, forse ancor più bella d'una volta nella maestà matronale dei trent'ott'anni: ma vedere non è capire: tutta la forza del suo intendimento la concentrò nell'impedire a sè stesso di fare una cattiva figura.

Ezio e Cresti vennero opportunamente in aiuto. Entrarono in casa, fu servito il caffè nella bella veranda a vetri piena di ombre verdi e di fiori, ingombra di oggetti smaglianti, nel vago disordine dei mobili e nella mescolanza delle stoffe. La linea del lago si vedeva luccicare tra la chioma dei platani e la balconata in uno sfondo luminoso in cui passavano le vele gonfie di ritorno dal mercato. Nella buona compagnia e nella evocazione delle antiche memorie, molta gente morta e dimenticata fu chiamata fuori e rimpianta, si consultarono molti ritratti già sbiaditi nelle loro cornici, si ricordò la vita di Torino, di Novara, di Vercelli, i tempi eroici e i tempi romantici con una così buona volontà dalle due parti, che ricondusse il sentimento e la giovialità della giovinezza.

La nebbia che velava gli occhi si dissipò a poco a poco e i due antichi fidanzati si riconobbero. Essa era ancora la bella figura alta, bionda, d'una biondezza cenericcia, dalla fisionomia larga o delicata, dagli occhi quieti che parevano veder poco lontano e somigliavano alla sua voce per la soavità dell'espressione. Parlava scarso, in tono sommesso, svelando una natura sensibile fino alla paura, incapace d'imporsi e di affermarsi con una qualsiasi iniziativa, incapace ancor di più di volere e di non volere, di agire e di vivere per proprio conto. Ma appunto per tutte queste sue qualità negative Vincenzina era di quelle donne che son più di altre capaci di far la felicità di un uomo energico, che abbia bisogno di un'obbedienza assoluta come un cuscino di piume su cui riposare la forza dell'egoismo.

Camillo Bagliani era stato quest'uomo.

Dal giorno che con una violenza di passione aveva preso possesso di questa creatura, se n'era compiaciuto gelosamente come d'un bene dolce e arrendevole, che compensava gli acri umori del suo temperamento biliare e le asprezze della sua rapida decadenza fisica.

Vincenzina, donna di istinti semplici e primitivi, di nessuna resistenza sanguigna, come non aveva saputo opporsi all'egoismo di suo padre, aveva per dodici anni ceduto umilmente al suo dovere di moglie e di matrigna, portando nell'adempimento del suo dovere non sempre facile quella docile indulgenza e quella riservatezza che nega a sè stessa tutto quel che concede agli altri.

Adorata dal marito tiranno, aveva finito col conquistare anche la benevolenza e la stima di Ezio, che si avviava alla sua volta a essere un tiranno dispotico di deboli cuori.

Massimo ritrovò queste doti ancor fresche nella bellezza matura di sua cognata. Di mutato non trovò che la carnagione fatta d'una bianchezza un po' stanca che impallidiva di più sotto la massa dei suoi capelli più scoloriti. Ma gli occhi d'un grigio marino avevano ancora tutte le languidezze tenere e affettuose delle creature deboli che disarmano i forti.

Si fecero molti progetti per le vacanze e si stabilì che tutti sarebbero tornati a far colazione e a passare una giornata in compagnia.

Massimo, nel risalire il viale fino al cancelletto, si trovò un momento al fianco di lei e si meravigliò di sentirsi così tranquillo e così contento.

—Ezio è stato buono con me, povero figliuolo, e mi ha fatto provare una commozione di cui non mi sentivo capace. Il merito sarà anche della buona matrigna.

—Io ci ho poco merito…—balbettò donna Vincenzina, arrossendo.

—Allora il merito è di Cresti che mi ha persuaso a tornare. Dovrò discorrere anche di lui a lungo: ma ora che siam qui dovremo pur vederci assai spesso; non è vero, Vincenzina?

—Sicuro, Massimo…—Fu tutto quanto ella potè dirgli per ringraziarlo d'esser venuto: ma glielo disse in un modo così tenero e commovente, che il signor zio fu per vacillare un'altra volta.

Ezio andò ad accompagnarli un bel tratto fin verso Bolvedro, stando in mezzo a loro due colle braccia infilate nelle loro braccia.

Vincenzina ritornò colla sorella pel viale del giardino; ma quando fu presso il casino svizzero si fermò improvvisamente e ruppe in un gran pianto.

—Che cos'hai?—chiese Matilde.

—Niente.

—Perchè piangi?

—Non so.

—Voi vi siete portati bene. Ezio fu un tesoro. Non è bene forse ch'egli sia tornato e che abbia perdonato?

—Sì, sì, Tilde: non piango per questo.

—E allora?

—Non ti pare ch'egli abbia sofferto?

—Tutti abbiamo sofferto: ma è sempre bene quel che non finisce peggio. Ora tutt'insieme mi dovete aiutare a maritare quella mia figliuola. Cresti farà presto una domanda, a cui sarebbe peccato non rispondere bene. Flora ha delle idee romantiche per la testa: ma colle idee romantiche non si vive e non si paga la pigione. Cresti è un gentiluomo, è ricco, è un cuore delicato, ama la bambina e Flora stima lui per tutti i suoi meriti. Un matrimonio oggi è diventato necessario, perchè nè si vuole tenere un vecchio amico sulla corda, nè si vuole lasciar Flora al pericolo d'una fantasia sbrigliata. Da qualche giorno mi pare che la sua testa non sia molto a posto: parla, canta, salta per la casa, esce e torna cento volte, si è data alla devozione e parla di regalare un manto nuovo alla Madonna del Soccorso. Suo padre era anche lui un poco così, una testa polacca: la nonna Celina ne ha fatte di peggio. No, così non si deve più andare avanti. Io ho bisogno di tranquillità pei miei dolori e non di avere la tarantella in casa. Tu le devi parlare, tu la devi persuadere: Cresti non aspetta che un nostro segnale per farsi avanti.

Le due sorelle s'intesero sui modi di pigliar la figliuola in un momento di buone disposizioni. E intanto i due vecchi amici, lasciato Ezio risalivano lentamente la strada del Pioppino. Massimo camminava avanti raccolto ne' suoi vaghi pensieri; Cresti, che gli veniva appresso, chinavasi spesso a raccogliere una foglia di menta, un rametto di timo, o a contemplare una piccola lumaca annicchiata in qualche corteccia: ma avvolgevasi anche lui nel filo di quei teneri pensieri che da un anno andava tessendo alla trama della sua vita. Massimo guardava più al passato, Cresti all'avvenire, e camminando così fuor della loro strada, non sentivano nè il sole infocato che faceva arrabbiare le cicale, nè i ciottoli che ingombravano il sentiero.

Quando per una viottola in mezzo alle vigne sbucarono all'ombra della Cappelletta della povera mamma, Massimo Bagliani arso e trafelato si fermò, si asciugò la testa e il collo grondanti, e ruppe improvvisamente in una risata sonora, che fece tremare il volume della sua mole diplomatica.

—Che c'è da ridere?—chiese l'amico.

—Lasciami ridere, caro: è una facezia.

—Che cosa?

—Questa vita.

—Ehm! Sei forse pentito d'esser disceso a Villa Serena?

—Son felice, Cresti: tu sei un tesoro.

—T'avevo detto che l'avresti trovata più bella! queste donne senza nervi migliorano stagionando.

—Tu sei cattivo con lei, Cresti…

—Dodici anni di schiavitù non le hanno fatto male. Va a credere alle donne.

—E perchè mi tormenti allora colla Flora?—soggiunge Massimo, ripigliando quel suo ridere convulso che finì col strizzargli le lagrimette.—Sai perchè rido, Cresti?

—Che devo saper io?

—Penso che Vincenzina avrà trovato che io son diventato l'astuccio di me stesso: che…? che?.., altro che astuccio: il cofano, la cassa della mummia. Meno male che la vita è una facezia…

E su questa sentenza i due amici camminarono in silenzio verso al

Pioppino.

Col fuoco non si scherza

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