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VI.

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Una visita.

Flora da quel giorno famoso in cui Ezio l'ebbe tre volte baciata sui capelli, cominciò a discorrere con la mamma e colla Regina del suo dovere di regalare un nuovo manto alla Madonna del Soccorso per ringraziare la Benedetta d'averla salvata dal fulmine.

La saetta era caduta poco fuori del giardino e aveva scavezzato un antico olivo vecchio forse di duecento anni: ma questo era nulla al paragone di quei tre fulmini che erano discesi nel suo cuore.

Ezio l'amava, Ezio l'amava, Ezio l'amava!

La Madonna meritava non un manto solamente, ma una corona d'oro tempestata di diamanti. Qualche cosa bisognava ch'ella facesse dal momento che il restar rinchiusa in casa era diventato per lei quasi un supplizio.

Quel troppo di assoluto e quasi di asciutto, che era nell'espressione del suo volto fatto di linee sottili e lunghe, dalle labbra tumidette, dagli occhi pungenti, si spianò, si allargò, per così dire, in una grazia di pensieri soddisfatti e fioriti, di benevolenza tenera, di bontà amorosa, piena d'indulgenza e di carezze. E non il volto soltanto, ma tutta la persona, si abbellì d'una mollezza più femminile, che faceva comparir meglio i vestiti e toglieva al suo portamento quel non so che di rigido e di soldatesco, che ricordava troppo la figlia del colonnello.

Ora che tra lor due s'era fatta una luce solare temeva ch'egli avesse a veder meglio le macchie della sua povertà morale. Non si sentiva più così forte come prima. Una gran scossa interna aveva spezzato il macigno della sua vita arida, senza verde e senza fiori e dal fondo scaturivano in lei ruscelli da tutte le parti.

Anche le cose di fuori avevano tutt'altri colori. Il lago pareva diventato più azzurro, più d'accordo con lei, le montagne più trasparenti: le campane dicevano cose nuove e commoventi: i gridi dei bambini sulla piazzuola, così noiosi prima, facevano eco adesso ai cento fanciulli allegri che giocavano in lei. Perfino il trombone del sarto, quel terribile trombone che urtava continuamente colle sue note lacerate le case del piccolo golfo, era diventato anch'esso più sopportabile dacchè vi sentiva il soffio d'un uomo felice. Solamente i conigli del povero Cresti non ebbero grazia.

Per vedere la Regina usciva spesso a piedi o in barca e andava a cercarla alla Villa Carlotta. Una volta trovò il vecchio Bortolo che stava rattoppando una rete all'ombra dei grandi platani.

—È in casa Regina?—disse Flora al giardiniere.

—Credo che sia al ponticello.

—E quando si faranno queste nozze?

—Sento parlar della Madonna di settembre: ma i padroni son loro. Amedeo vorrebbe prima lasciar passare le Regate e cercar di vincere qualche premio. Quest'anno quei di Tremezzo voglion vincere.

—È un bravo figliuolo, siete fortunati.

—È un ragazzo a cui non pesa il remo.

—E per la casa avete potuto combinare?

—La mamma di Amedeo andrà a stare con sua sorella a Mezzegra e cederà la sua casetta al torrente. Così Regina potrà avere la scuola dell'Asilo in casa.

—È stato ben pensato. E voi Bortolo?

—Ci faremo compagnia io e la mia vecchia—disse Bortolo rassegnato—e poi non vorranno tardar molto quegli altri.

—Certo: e saranno il balocco del nonno.

—La natura è un giro—finì col conchiudere il giardiniere che amava entrare nello spirito delle cose.

—E lei, contessina, non pensa a trovare il suo Amedeo anche lei?

—Oh, oh…—protestò con enfasi la signorina del Castelletto—Chi volete che si occupi de' fatti miei?

—Io no, poverina—rispose Bortolo buffonchiando—la mia rete non piglia più pesci. Ma ho visto pescar delle anguille anche più furbe.

Flora rise alto, sentendosi paragonare a un'anguilla; e passando per la cucina della fattoria, entrò nel giardino della villa, chiamando Regina. Non sentendo rispondere, si avviò per il viale che s'inoltra in un fitto boschetto di abeti, sicura di trovarla al ponticello.

* * * * *

La Villa Carlotta, famosa in tutto il mondo per quel che ne dicono le Storie del lago e le Guide dei viaggiatori, ha intorno a sè un giardino vasto e profondo, in cui non sai dire fin dove l'arte corregga la natura e fin dove questa colla sua potenza rigogliosa nasconda i limiti dell'arte. Seguendo le sinuosità un po' erte della montagna, su cui si appoggia, il giardino è tutto una selva di piante di raro valore, antiche e folte, che nella dolcezza lusinghiera del clima, nel lento e non trascurato lavorìo degli anni continuano a mescolare i loro amplessi e i loro verdi diversi, in cui domina il bruno fisso e cupo delle conifere colossali. La mano dell'uomo non le disturba, se non in quanto vuole raddoppiarne le ombre, rimuovere gli ostacoli morti, aprire nelle macchie che sarebbero inaccessibili, qualche ombroso recesso asilo alle ninfe che ci passano, aumentarne gl'incanti con improvvise aperture sopra lo specchio luminoso del lago, con qualche grotta di tufo piangente, con scalinate rozze e muscose che menano a chioschi isolati e taciturni, in cui dorme anche il silenzio nella frescura della solitudine.

La Villa, che fu già dei Sommariva, è oggi nelle mani d'un principe tedesco che fa pagare il piacere di visitarne le gallerie, in cui trionfano Amore e Psiche del divino Canova. Le mancie che fruttano i tesori dell'arte nostra sul lembo azzurro del nostro lago, servono a ingentilire i servi del principe tedesco, che nelle lunghe assenze del padrone, inselvaticherebbero in una oziosa sonnolenza. Così l'Italia continua l'opera sua di liberale educatrice dei popoli, dietro la tenue tassa d'una lira per la villa e d'una lira per il giardino.

Flora, per l'amicizia sua colla figlia del giardiniere poteva passare senza pagar nulla alla Germania e considerare il giardino come suo. Vi andava spesso, specialmente nei giorni più caldi del luglio e dell'agosto quando l'estate arroventa le roccie e fa dormire anche le acque del lago.

Regina, natura semplice e modesta, amava la compagnia della contessina del Castelletto, da cui aveva sempre a imparare qualche cosa di bello. E Flora da parte sua, nella sua superiorità morale sempre un po' incomoda da portare, amava di riposarsi nella bontà alquanto ignorante d'una ragazza del popolo, priva di concetti e quasi senza idee, per la quale era nuova e fresca ogni impressione che non uscisse dal paiolo, dalla calza e dal libro da messa.

Flora, che aveva letto, i suoi trecento volumi tra inglesi e tedeschi e che da un mese si storpiava lo spirito coi drammi dell'Ibsen, si rifaceva una non ingrata ingenuità e una specie di curiosità nuova e primitiva nelle senzazioni infantili della figlia del giardiniere, su cui tentava spesso delle piccole esperienze morali a sua propria istruzione come un medico curioso farebbe sulla vita d'un coniglio. Nelle ore in cui rimanevano sole nel giardino le insegnava qualche ricamo sui modelli della Mode illustrée, le faceva ripetere le canzonette che poi Regina insegnava ai bambini dell'asilo, schizzava nella sabbia dei disegni geografici per darle un'idea di quel mondo che la ragazza non avrebbe mai conosciuto: e in compenso si faceva insegnare da lei oggi il modo di cucire un paio di sandali di corda, domani quello di intrecciare un punto a rete o di cuocere una torta di castagne. Eran poi compagne indivisibili in tutte le spedizioni di montagna che non aveva più segreti per loro e di cui conoscevano tutti i fiori e tutte le erbe lunghe e corte, che hanno un nome in botanica.

Flora, non trovando Regina al ponticello, sedette sulla solita panchina ad aspettarla. Ivi il monte scende quasi a perpendicolo con una spaccatura, in cui scorre e salta dopo le piogge un piccolo torrente tra fitte boscaglie di rovi e di felci; e sulla spaccatura è buttato un ponticello di legno rustico. Era il luogo dove le due ragazze portavano i loro lavori, i libri, la merenda. Vi rimanevano le mezze giornate a parlar dei piccoli casi del paese, tacevano spesso insieme volentieri, cantavano sottovoce le canzonette delle filande, mescolavano le loro intime confidenze fin dove lo spirito umile dell'una poteva salire alle altezze alquanto vertiginose in cui si sbizzarriva spesso lo spirito dell'altra.

Regina era una pia e sottomessa figlia di Maria. La sua religione era quella del signor curato. Aveva imparato a credere dalla sua mamma, come questa alla sua volta aveva imparato dalla nonna. Di questa scienza fatta coscienza, non che dubitare, Regina non credeva nemmen possibile che si potesse aver un dubbio, come non si dubita del sole che porta il giorno.

Invece la contessina metteva forse nella sua fede troppi capelli rossi. Ribelle alle convenzioni di quaggiù, dal suo spirito indomito era spesso trascinata a rompere anche qualche convenzione di lassù. Quel benedetto eterno paradiso, per esempio, con tutte le sue sedie d'oro in fila gli faceva l'effetto d'un sito noioso.—Se ci vado—diceva per bizzarria di spirito—la prima cosa è di cambiar posto a quegli sgabelli che non si muovon più dalla creazione del mondo…

Ma a giorni di eresie succedevano facilmente moti di grande fervore, in cui la signorina del Castelletto sentiva l'anima allargarsi fino a toccare gli orli del cielo. La felicità l'avvicinava facilmente a Dio. Nella gioia profonda del suo cuore sentiva che era poca una vita, e volentieri abbandonavasi verso una santa dolcezza in cui non le sarebbe dispiaciuto di morire.

Ezio l'amava. A questo pensiero provava una gioia che le faceva quasi paura, Bea conosceva la dolcezza infinita dell'amare, ma questa soavità dell'essere amata le arrivava nuova, immensa e in gran parte ancora incomprensibile. Per quanto nobile o sublime sia l'idea che una ragazza o una donna si formi dell'amore, l'idea è un fuoco dipinto in paragone della fiamma vera o viva che penetra in tutto l'essere e morde le fibre più sottili dell'anima.

Oggi per Flora non c'era più dubbio che Ezio l'amasse. Egli stesso aveva voluto dirglielo non richiesto col più eloquente linguaggio che sia concesso alle labbra dell'uomo. Quei tre baci avevano rivelato un Ezio buono, un Ezio tenero, un Ezio rispettoso, come non era mai stato, nemmeno quando giocavano insieme nelle ombre del giardino o guardavano insieme i torrenti della montagna o vogavano insieme nella stessa barchetta.

Che cosa grande (pensava) che cosa divina la bontà di un uomo che ti ama! la donna non saprebbe mai che cosa è l'immensità e l'infinito se un uomo non la trasportasse colla sua forza al di là di questa povera riva. Era ancora sulle braccia di Ezio che essa faceva il passaggio del mistico oceano. Essa era felice. Dopo una lunga esistenza piena di piccole angoscie e di piccinerie vane dipinte sul nulla, sentivasi finalmente rapita da un fiotto di calda giovinezza in cui rigermogliavano tutti i fiori appassiti e si schiudevano le più segrete essenze della vita.

Come al calore del sole di aprile si squagliano le nevi e scendono a precipizio i bei ruscelli chiari, mentre il sole si purifica dalle nebbie, mentre le rondini fabbricano i nidi sotto le gronde e va per tutta la natura una contentezza intima che fa fremere le foglie degli alberi e delle siepi, così pareva anche a lei d'essere tutta una primavera,

Avrebbe voluto parlar alto e cantare ai tronchi la sua felicità. Fin la sua stessa ombra le era diventata cara, perchè era l'ombra d'una creatura felice.

Sollevando gli occhi alle cime degli alberi tra le punte verdi oscillanti sotto l'azzurro del cielo, stava a lungo colla testa appoggiata alle mani, colla bocca schiusa ad aspirare la contentezza che le faceva parere così bello il cielo e così buono il Signore che vi abita.

A questa contentezza di tutti i sensi si accompagnava un senso d'orgoglio d'aver saputo attendere con pazienza l'ora sacra e predestinata del suo trionfo. Da un pezzo essa considerava il suo Ezio come uno di quei traviati peccatori, colpevoli di spensieratezza che è un onore e insieme una delizia per una donna di condurre al bene. In questa lunga speranza aveva vegliato molte notti, e pregato a molti altari, coltivando il suo amore nel giardino chiuso della immaginazione respingendo ogni altro idolo, piangendo sopra di lui come sopra un figliuolo del suo pensiero.

Ecco, Dio aveva voluto che essa raccogliesse il premio della sua fede.—Tu sai, buon Dio, che io sarei rimasta contenta d'essere la sua umile ancella; ma tu hai voluto ch'io fossi qualche cosa di più. Grazie! che tu sia lodato per sempre! Tu hai fatto sonare nell'anima mia molte corde che sarebbero state mute per sempre: tu mi dai una più viva forza spirituale, una più piena coscienza di me? quest'amore mi viene da te, o Signore, parche non può venire che dal cielo quel che fa felice una creatura.—

Aveva ragione la sua mamma di dire che c'era molto della nonna Celina in questa sua figliuola rivoluzionaria: e che bisognava darle marito.

Tanta era la contentezza e la persuasione che Flora aveva della sua felicità che non diede nemmeno molta importanza al fatto che Ezio, dal giorno fatale della saetta, non si era più lasciato vedere al Castelletto, nemmeno sotto le spoglie di Pomponio Labeone. La dissertazione era rimasta al capitolo del «Manutengolismo» ma Pomponio Labeone non pareva già più quell'uomo diligente che aveva promesso di essere.

Che importava a Flora se da sei o sette giorni non dava più segno di essere vivo? Ezio, il suo Ezio essa l'aveva vivo e grande nel suo piccolo cuore, lo portava con sè, nè c'era bisogno ch'egli si facesse vedere. Oppure spiegava quest'assenza troppo lunga nel modo più semplice e naturale. Ezio aspettava d'essere incoraggiato. Toccava a lei forse di farsi vedere non offesa a Villa Serena e dare un segno di grazia a quel brutto impertinentello. E l'avrebbe fatto: certo, essa doveva andarci appena il suo cuore si fosse sentito pronto ad affrontare per la seconda volta la prova della mitraglia.

E l'occasione venne a tempo nell'invito a colazione che il Cresti portò al Castelletto in nome della zia Vincenzina e di Ezio per festeggiare il ritorno dello zio d'America.

* * * * *

—Ecco il gran giorno!—andava ripetendo Flora in cuor suo—Bisogna che io ci vada con tutte le armi.—Volle per quella mattina essere bella, ben vestita, raggiante di quel poco di buono che Dio le aveva dato. Mai aveva sciolto tanto amido azzurro nella catinella come questa volta per dare consistenza e splendore alla sua gonnella di mussolina. Al collo volle mettere le due fila di corallo rosso che facevano brillare il candore di cigno della sua carnagione; nei capelli bastava che ci fosse un nastro che li stringesse forte nel mezzo e li lasciasse cascare liberi alla greca.

Mentre stava nella sua stanza a dar gli ultimi punti a un paio di stivaletti scuciti, sentì nel salotto da basso risonare una voce sconosciuta, una voce di donna che parlava il falsetto, ma forse più che parlare gorgheggiava con una intonazione di testa, framettendo risate acute ed esclamazioni entusiastiche piene di oh, di ah, di stupendi, di splendidi.

Col fuoco non si scherza

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