Читать книгу La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi - Emma Boghen Conigliani - Страница 5

ADELAIDE ANTICI LEOPARDI.

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La marchesina Adelaide Antici aveva diciannove anni quando nel 1797 diede la sua mano al conte Monaldo Leopardi, di due anni soltanto maggiore di lei. Il matrimonio fu celebrato a Recanati, nella cappelletta degli Antici: la sposa, che apparteneva ad una delle più nobili e ragguardevoli famiglie di quella città ed entrava in una famiglia altrettanto nobile e ragguardevole, era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendidi e intelligenti, benchè velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; ed il suo viso, soprattutto i suoi occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto.

Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo: nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita.[1]

Alla festa di San Vito, protettore di Recanati, il conte Monaldo fissò per la prima volta gli occhi su la marchesina Antici e non seppe distorneli a lungo; la rivide a le feste del Corpus Domini e non pensò più che a lei, quantunque la sapesse promessa ad un conte Castracane di Cagli, del quale però si diceva ch'ella fosse tanto scontenta da voler riprendere la propria libertà. Monaldo andò senz'altro dal fratello della fanciulla, Carlo Antici, che era amico suo, e saputo con certezza ch'ella s'era già sciolta da la prima promessa, lo pregò di chiederle se avrebbe accettato lui per marito. Adelaide gli fece rispondere francamente ch'era stata domandata dal conte Borgogelli di Fano, il quale attendeva solo l'assenso e la donazione di una zia per combinare in modo definitivo il matrimonio, ella frattanto non poteva prendere alcuna decisione. Monaldo, innamorato, rispose: Aspetterò; e non aspettò molto, chè, malgrado un astio antico tra le due famiglie per ragione d'interessi, gli fu data la preferenza; di che i vecchi Leopardi non rimasero punto soddisfatti, ed ecco perchè. Quel tal conte Castracane era andato la prima volta a Recanati per conoscere Amalia, sorella maggiore di Adelaide, ma, veduta questa, s'era innamorato di lei e non aveva voluto più saperne della prima; la madre e gli zii di Monaldo avevano proposto a costui di sposare egli Amalia e, quantunque questa fosse, com'egli medesimo assicura, una carissima e amabilissima giovane, egli aveva rifiutato. Sentendo più tardi aver il conte chiesta la mano di Adelaide, si mostravano avversi a tale unione, ma nè il loro rifiuto ostinato e minaccioso, nè i gravi dispiaceri che gliene vennero, nè la tenuità della dote che il suocero gli fissò, mentre già gliene aveva offerta una maggiore per Amalia, lo smossero dalla sua decisione. La madre un giorno lo pregò con tanto calore di non sposare la marchesina Antici, da giungere ad inginocchiarsi dinanzi a lui per supplicarlo di cedere, ma egli rialzatala e postosi egli medesimo in ginocchio, le baciò la mano, confessandole che restava fermo nel suo proponimento.

Fissò di condurre la sposa a Pesaro, perchè ella non soffrisse amarezze e mortificazioni, entrando in una casa dove tanti non la volevano: ma compiute le nozze, mentre la carrozza attendeva già pronta, egli s'avvicinò ad Adelaide e le disse: — Andiamo a baciar la mano a mia madre. — La buona contessa, scordando ogni risentimento, abbracciò e benedisse la nuora, pregandola di ritornar presto, molto presto da Pesaro: e i due giovani, lieti di questa riconciliazione, passarono ne l'appartamento dello zio Ettore, il quale si fece loro incontro così frettoloso ed agitato, che essi, sapendolo vivacissimo, temettero chi sa che cosa.

— Dove andate?

— Veniamo ad usarvi un atto di rispetto e a baciarvi la mano.

— Dove andate partendo di qui?

— Partiamo per Pesaro.

— Oibò — replicò egli rivolgendosi a Monaldo — non sarà così: la vostra sposa appartiene ora alla nostra famiglia e voi non ce la toglierete. Andiamo dal decano, il quale sarà di un sentimento uguale. — (Così narra Monaldo stesso nel c. XXXIX dell'Autobiografia.)

Scesero con lui nelle stanze del decano, zio Pietro, che li abbracciò, piangendo di tenerezza e, ricordando l'opposizione sua al matrimonio:

— Il Diavolo — disse — mi aveva preso per i capelli, anzi per la perrucca, chè di capelli non ne ho più, — ed egli pure li pregò di restare.

Adelaide stringeva forte il braccio di Monaldo per indurlo ad acconsentire, egli interpretava invece quella timida preghiera come incitamento a non cedere e insisteva per partire; per troncare gl'indugi, lo zio Ettore senz'altro se ne andò da gli Antici ad annunziare che la pace era fatta, e ordinò di riporre i cavalli nelle stalle e la carrozza nella rimessa. Intanto Monaldo aveva avuto agio di conoscere il desiderio della sposa ed egli pure di buon grado, saputo di non far dispiacere a lei, acconsentì a rinunziare al viaggio. La riconciliazione fu sincera e la nuova contessa Leopardi visse poi sempre in perfetta armonia coi congiunti, amandoli ed essendone ricambiata d'affetto vero.

Educata severamente, Adelaide, prima del suo matrimonio, aveva passato la vita fra la casa e la chiesa, e quantunque il suo spirito, naturalmente vigoroso, fosse nato piuttosto per comandare che per obbedire, per forza di virtù e di consuetudine ella si era fatta mite, obbediente, modesta. Religiosissima, poneva innanzi a tutti gli altri i suoi doveri di donna cattolica, ma la sua non era la fede che riscalda il cuore e lo apre ai più divini affetti de l'indulgenza e de la carità, la fede che mantiene nell'anima un'alta serenità ed insegna ad amare; la sua era una fede rigida, tirannica e benchè, con la potenza della religione sincera, le desse forza e conforto nei più dolorosi momenti della sua vita, diveniva non di rado un tormento per lei e per chi le stava dintorno. Questa donna ultrarigorista, vero eccesso di perfezione cristiana,[2] per quel poco che si permetteva di pensare con la sua mente, ch'era tuttavia una mente aperta, ferma, acuta, andava in tutto d'accordo nelle idee col conte suo marito; anch'ella, come lui, era ciecamente ligia al passato; anche in lei i racconti dei profughi francesi capitati nelle Marche avevano inspirato il terrore, anzi l'orrore della rivoluzione. Ella e Monaldo del pari avevano accolte le convinzioni della famiglia, degli amici, della società aristocratica e clericalissima in cui vivevano; tutt'e due avevano alto concetto della propria casa; solo Monaldo pensava che a sostenerne il decoro occorresse lo sfarzo di una vita opulenta; ella avrebbe preferito un solido patrimonio, come quello della sua casa paterna. Rimasto orfano di padre, da bambino, Monaldo aveva ottenuto a diciott'anni dal governo pontificio l'amministrazione del suo patrimonio, e, quando s'ammogliò, aveva già sperperato somme non lievi, credendo di seguir così degnamente le tradizioni di famiglia e l'esempio dello zio marchese Mosca, principescamente generoso. Nel 1796 aveva speso mille scudi nell'armare, stipendiare e fornir di cavalli un milite per aderir all'appello di Pio VI ai sudditi contro i Francesi; nello stesso anno un trattato di matrimonio con la nobile Diana Zambeccari di Bologna, trattato ch'egli prima accettò e poi non volle più conchiudere in nessun modo, gli costò tanto, che i danni derivatine furono calcolati da lui ventimila scudi. Nel 1801 fece risorgere l'Accademia dei Disuguali, l'accolse in casa sua e ne sostenne le spese; nel 1802 si obbligò per cinquecento scudi in favore di un suo nemico.

Nel 1797 anche nelle Marche si accese la rivoluzione e in Recanati fu instituita una repubblica affatto democratica, che abolì la nobiltà e i suoi titoli e privilegi, e di questo e delle ruberie dei Francesi il conte Monaldo mostrò così vivamente e apertamente lo sdegno, che dal comandante della colonna francese, un tal Contavice, fu condannato a morte. Denari e amicizie autorevoli riuscirono a salvarlo, e questo suo pericolo fu potuto nascondere a la contessa incinta, che però poco di poi vide il marito arrestato e dovette passare giorni di orribile agitazione e di pianto. Dopo questo periodo di pene e di tristezze le sale del palazzo Leopardi, che già erano state liete nello splendore della vita fastosamente signorile, amata dal giovane Monaldo, e nelle gioviali compagnie raccolte intorno a la sposa, ritornarono lietissime, chè gaie voci infantili vennero a ridestarne gli echi.

Nel 1798 nasceva il primogenito, cui, come era di prammatica da secoli nella famiglia, venne posto il nome di Giacomo. Le inquietudini provate dalla sposa influirono dannosamente su la salute del bambino, che nacque delicato e gracile, benchè apparentemente sano e senza alcun difetto; un anno dopo veniva al mondo Carlo e un altr'anno di poi Paolina.

Par che la voce del suo primo nato risvegli in ogni donna un'anima nuova, l'anima della madre, un ignoto tesoro di amore, d'indulgenza, di sacrificio, un'anima pura ed elevata anche nelle donne che meno sono tali, un'anima che vive tutta nell'intensità del più caldo affetto umano. Ma quest'anima non si destò nella contessa Adelaide, che non conobbe le carezze infantili, la divina poesia per cui la madre sente il figlio vivere ancora della sua vita; forse un amore troppo ardente ed espansivo non poteva accordarsi col rigore della sua fede; ella rimase la stessa, irriprovevole nelle premure solerti per i suoi piccini, ma senza calore, senza spontaneità di tenerezza, come se di tutti i suoi atti la ragione soltanto fosse il movente e il dovere la guida. Questa l'apparenza; ma chi può indovinare il secreto dei cuori, chi può dirci se quella sua fredda ritenutezza fosse un dovere ch'ella imponesse a sè medesima, o una naturale disposizione dell'anima?

Vi hanno caratteri che, pur possedendo poche virtù, sono apprezzati, anzi ammirati, perchè quelle loro virtù sono appariscenti ed amabili, e d'ordinario gli uomini si accontentano di ciò che piace, senza indagare oltre; come questi caratteri vengon d'ordinario giudicati migliori di quel che sono in realtà, così altri ve n'hanno che son creduti peggiori che non siano per l'opposta ragione: le loro virtù son nascoste, i difetti palesi, e questi e quelle, inamabili, allontanano i cuori piuttosto che attirarli. Tale era Adelaide. Certo la prodigalità di Monaldo era un difetto, l'economia di lei, in tesi generale almeno, una virtù; ma gli è facile comprendere come, a quasi tutti, quella virtù dovesse riuscir incresciosa, quanto simpatico questo difetto. Così la sua ritenutezza la fece credere forse assai meno sensitiva che non fosse in realtà.

La sventura temprò ben presto il vigoroso carattere di lei, come il fuoco tempra una buona lama: riusciva ormai impossibile chiuder gli occhi a la rovina imminente del patrimonio, già carico di debiti, pei quali certi creditori usurai giungevano a pretendere il ventiquattro per cento d'interesse. La contessa, rimasta da prima estranea a l'amministrazione, non tardò a convincersi che una mano di ferro doveva sostituirsi a la debole mano di Monaldo nel governo de la famiglia per salvar questa, e decise che quella mano di ferro sarebbe la sua, bianca mano di donna, ma rigida e ferma quant'altra mai. A questo compito ella s'accinse con una saldezza di propositi, uno spirito di sacrificio ed un'energia, quali ben difficilmente si troverebbero in una giovane e bella dama. La vita della famiglia cambiò interamente, benchè nulla fosse tolto agli agi consueti: tavola abbondante, carrozza, cavalli; ma dov'era possibile senza disagio, al lusso fu sostituita la più stretta economia, la quale divenne legge inesorabile per tutti della casa e prima di tutti la stessa Adelaide. Ella vendette subito una parte de' suoi gioielli e più tardi i rimanenti; conservò solo, ricordo d'un tempo lieto, un anello di brillanti, che rimase come un oggetto sacro nella famiglia, così che Carlo volle metterlo nel dito della sua seconda moglie, Teresa Teja, il giorno delle nozze.

D'allora in poi la contessa non portò che ornamenti d'un valore insignificante, fra i quali un finimento di coralli; vestì modestamente, seguendo la moda della rivoluzione francese; ma, invece delle basse scollature del vestire a la ghigliottina, portò sempre una larga cravatta, che le fasciava a più giri il collo fin sotto il mento. Le rade volte in cui usciva di casa, se d'inverno, si avvolgeva in un'ampia pelliccia di martora, che, nella sua immutabile ricchezza, conciliava con l'economia quel decoro de l'abito, cui Monaldo teneva tanto; se d'estate, portava in testa «un cappello colossale di paglia» che, mentr'ella stava in carrozza, «salutava per lei.»[3] Il compito ch'ella si era fissato non consisteva soltanto nella salvezza del patrimonio, nella ricchezza futura di casa Leopardi, ma anzitutto nel mantenere l'avita intatta fama di probità, l'onore del nome; e perciò a punto ella intese subito a far un concordato coi creditori, concordato reso men difficile dal papa, che impose certi limiti a gli usurai, detraendo quella parte che rappresentava il frutto d'un'ingorda usura da la somma del debito, il quale in quarant'anni doveva essere gradualmente estinto. Interdetto Monaldo, la casa dipese da l'autorità assoluta di Adelaide, autorità, che apparve talora inflessibilmente tirannica, tanto più che le ristrettezze economiche eran tenute con ogni cura nascoste. Senza dubbio, più generosa, ella avrebbe reso più felici o meno infelici i suoi e sarebbe riuscita più cara a loro e più simpatica ai posteri; è giustizia però il notare che la sua non fu, o non sempre, gretta avarizia, e ch'ella, come già disse l'Avoli, non mostrò mai d'amare il danaro pel danaro, nè la roba per la roba: per migliorare le sue terre, per conservare in buono stato il palazzo, non le spiacque spendere e, benchè meno volontieri, acconsentì che il marito e i figli comperassero gran numero di libri. Di buon grado faceva elemosine e senza menarne alcun vanto, donava cibi o legna, e dalle finestre gettava spesso ai mendicanti qualche moneta; anzi perchè queste non le mancassero mai, ne teneva sempre pronte a quel pio scopo in una ciotola di legno nella sua camera. Anche non di rado assisteva ella medesima qualche ammalato povero, pel quale ordinava al cuoco di serbarle il miglior brodo. La sua rettitudine era scrupolosa; e si narra che, morto Monaldo, facesse pagare, senza rivelar il proprio nome, due mila e trecento scudi ad un conte maceratese verso il quale il marito le aveva confessato uno scrupolo di trovarsi in debito.

Vi ha in questo rigido carattere di donna qualche cosa che merita ancor più che rispetto, ammirazione, ed è la sua lealtà, cui ella aggiungeva altri non comuni pregi, quale, ad esempio, una dote che non può accordarsi con un cuore non buono, tanto meno quando lo spirito è altero e abituato al comando: la facilità di perdonare; respinta con tanta ostinazione dai parenti dello sposo, è la prima a fare un umile passo verso di loro e diviene per essi una figlia sommessa a pena le aprono le braccia. Taccio le tristezze che le vennero dal marito e da' figliuoli e ricordo una lettera ad una sorella, che probabilmente è la Eleonora, sposatasi poi nel 1806 al marchese Baviera di Sinigaglia. Adelaide loda la giovine d'essersi pentita d'un'offesa recata a la madre in un impeto di collera; le rammenta che ella dovrà fare la felicità di uno sposo e che tali impeti turberebbero la pace della futura famiglia; che tutti abbiamo dei difetti, ma che tutti dobbiamo posseder la forza di reprimere le nostre passioni e chiude con un tratto di delicato perdono: «Vi protestaste ieri che non fate alcun caso della mia stima. Ad onta di questo, siate persuasa che nessuno vi stima e vi ama quanto la vostra affezionatissima sorella.»[4]

Nella lunga e difficile impresa cui si accinse, la contessa fu sostenuta da un vivo affetto per la casa, dalla pietà religiosa e dalla naturale vigoria di uno spirito, che non conosceva la debolezza femminile, la vanità, l'amore al lusso; ma s'ella salvò il patrimonio ai figliuoli, non offerse mai loro il conforto d'un cuore carezzevolmente, teneramente materno: l'espansione, la confidenza, che attirano confidenza, espansione ed affetto, le furono ignoti. Curava i bimbi con molta premura, li teneva a dormire in camere attigue alla sua, medicava ella stessa persino i loro geloni, amava di seguire i fanciulli con lo sguardo, anche nei loro rumorosi giuochi, nel chiasso, cui si abbandonavano gaiamente nei due giardini di casa, ma in quello sguardo non c'era mai una carezza. «Tutto era compassato in lei: anche i battiti del cuore. Si sarebbe quasi indotti a credere che la rigida marchesa volesse fare anzi tempo de' suoi figliuoletti uomini maturi, che le loro risa argentine turbassero la sua serenità di amministratrice e custoditrice suprema della casa»; così parla di lei il Traversi, uno dei più indulgenti verso i genitori di Giacomo fra tutti i cultori degli studi leopardiani. Monaldo, con le sue idee e il suo sistema di autorità senza confini e senza discussione, sarebbe stato il più duro dei padri, se a gli errori del giudizio non avesse largamente rimediato la bontà de l'anima; egli sapeva qualche volta ridiventar fanciullo co' suoi figli, che se trovarono talora la tenerezza in famiglia, fuori de la loro cerchia fraterna, la trovarono in lui; e più espansivo e più tenero sarebbe stato, se l'affetto di cui aveva pieno il cuore non fosse stato compresso dal dubbio di affievolire la propria dignità, di derogare a l'autorità paterna. Adelaide era un tipo affatto diverso, parlava poco e con calma e gravità; d'ordinario chiusa in sè stessa, non amava che altri le leggesse ne l'animo, e se un improvviso dolore la colpiva, scoppiava in pianto, ma andava subito a chiudersi nelle suo camere, da cui non usciva finchè non si era calmata. Nessun impeto visibile in lei: ella concedeva a pena la sua mano al bacio de' bambini e sospirava nel vederli vivacissimi e gai, mentre ne godeva la buona suocera sua, Virginia Mosca, che, rimasta vedova giovanissima, s'era dedicata tutta a' figliuoli. La sera nel suo mezzanino, dov'ella sedeva sopra un sofà, conversando col suo vecchio cavalier servente Volunnio Gentilucci, irrompevano i nipoti, che precipitandosi a gara per abbracciarla rovesciavano spesso il tavolino e la lucerna; e non di rado scherzavano alle spalle del cavaliere, il quale non poteva nè pur sfogarsi a sgridarli, perchè, se ci si provava, l'affettuosa vecchia era sempre pronta a dar ragione a loro e ad impermalirsi con lui. Graziosa scena questa de' due vecchietti eleganti e compiti, che stentano a tenersi il broncio, davanti alla contagiosa allegria d'una brigata di birichini!

* * *

Non è difficile immaginare, da le notizie che se ne hanno, quale fosse la vita dei ragazzi Leopardi: studi severissimi e faticosissimi co' precettori, rare e patriarcali distrazioni, chiasso co' cugini o qualche tombola giuocata ne l'orto di certi frati, pratiche religiose continue e continua sorveglianza.

Tutti sanno come il primogenito, gracile per natura, perdesse interamente la salute e divenisse gibboso per le soverchie fatiche durate sui libri, e come fra lui ed i fratelli da un lato e il padre da l'altro, sorgesse, e a poco a poco si facesse profondo, il dissidio, perchè la stretta tutela in cui eran tenuti irritava i loro animi non meno fantastici che appassionati, e perchè nelle idee e negli affetti essi venivano scostandosi da Monaldo. È pure assai noto come la disperazione di Giacomo giungesse a tal segno da risolverlo a tentar la fuga dalla casa paterna, progetto fallito per caso. Che faceva, che pensava intanto la contessa? Tutt'assorta nel suo compito di amministratrice, non si accorse forse che tardi de la perduta salute e de la deformità di Giacomo; ed è doloroso il notare come questi, giovanetto, affettuosissimo per natura e di una sensitività esaltata, persuaso di dover morire ben presto, mentre seduto sul letto, di notte, al lume di una fioca lucerna, scrive, fra le lagrime, il suo Appressamento alla morte e si duole di dover perire come infante che parlato non abbia, senza che alcuno conosca il suo grande spirito, Giacomo, che teneramente si rivolge alla Vergine, non ha una parola per sua madre. Doloroso del pari è il rileggere quanto il marchese Solari scriveva a Monaldo, dichiarandogli apertamente che per lui la causa della tentata fuga di Giacomo doveva essere l'eccessiva severità della contessa.

Nei dissidi fra il padre ed i figliuoli ella teneva naturalmente dal primo, ma senza punto tentare di piegarlo a più indulgenza verso di quelli, senza punto usar loro quelle giuste larghezze che li avrebbero calmati, perchè non comprendeva quei cuori giovanili ed il loro bisogno di vita e di libertà. Ed ella avrebbe potuto tutto, ella che comandava veramente e cui tutti obbedivano. «Io a casa mia non sono padrone che delle frittate,» soleva dire Monaldo, che si sfogava a gridare contro le prepotenze delle mogli italiane, ma rimaneva sempre impigliato nelle gonne della sua e non osava, nè anche per cose lievissime, affrontare il muso di lei, come scrisse Paolina. Per quei giovani focosi, esaltati, era un vivere senza vita, senz'anima, senza corpo, che faceva desiderar loro ad ogni momento la morte. In Giacomo, infelicissimo fra tutti, e nella grandezza del suo spirito conscio di tutte le sue sventure, si spense ogni vivacità, ogni allegrezza, e venne a mancare a poco a poco persino la speranza e la fede: egli, dopo anni di dolore che gli parvero secoli, riuscito ad andarsene di casa, si ricorda assai spesso di mandare i suoi saluti alla madre, ma non le scrive quasi mai; ed ella a sua volta tarda lunghi anni a dargli un aiuto materiale, e non lo dà finchè non è richiesto; e pure ella doveva sapere quanto questa domanda dovesse riuscir incresciosa a l'animo delicatissimo ed altero del figliuolo. «Son più le volte che senza qualche soccorso di amico sarebbe stato digiuno, che non quelle in cui avrebbe mangiato,» asseriva G. B. Niccolini alla marchesa Lucrezia Niccolini-Monti, andata sposa in Recanati, cui aveva chiesto se la famiglia Leopardi navigasse in pessime acque, rimanendo stupito al sentire che no. Certo però Adelaide non supponeva le reali strettezze di Giacomo, perchè, come Monaldo ebbe a scrivere a questi, ella credeva le lettere una miniera d'oro, la quale rendesse inutile ogni altro sussidio a quel figlio che pure ella amava tenerissimamente.

Che lo amasse ne fa fede tutto l'epistolario leopardiano. Nel 1825, quando Giacomo da Milano tornò a Bologna e scrisse a casa degli accordi con l'editore Stella e della lezione al giovane greco, Paolina, che in quel tempo non era certo tenera della madre, rispondeva al fratello: «La mamma vuole che ti saluti e ti risaluti; essa quasi piangeva dalla consolazione nel leggere la tua ultima, e si rallegra con te e spera che sarai sempre più contento.»[5]

Anche la breve letterina, una delle due che ci rimangono, scritta da Adelaide al figlio il 29 novembre 1822, quand'egli, per la prima volta lontano da casa, si trovava a Roma, ha frasi affettuose, e assai più che non dicano significano forse quelle righe: «Molto mi ha rallegrato la vostra lettera, ma molto più quella che avete scritto al babbo da Spoleto. Vedo che conoscete bene i vostri doveri a suo riguardo e ciò mi è garante della vostra buona condotta in avvenire.»

Chi rammenti i dissapori profondi tra Monaldo e Giacomo deve sentir qui il dolore che ne provava Adelaide, e un rimprovero, un consiglio dato con una delicatezza veramente femminile e veramente materna. «Sapete quanto io vi amo sinceramente e qual spina mi sia stata al cuore il vedervi sempre malcontento e di malumore.... abbiatevi moltissima cura e non trattate persone indegne.... amatemi e credete sempre all'affetto sincero della vostra affezionatissima madre, che vi abbraccia e vi benedice.»[6]

Queste semplici frasi spirano un affetto sincero e una santa premura, della quale nelle lettere dei parenti a Giacomo si trova traccia ben spesso: ora è Paolina (9 dicembre 1822, pag. 47, vol. cit.) che scrive al fratello: «Mamma non fa che lodarsi di voi e compiacersi grandemente delle vostre lettere»; ora è Adelaide stessa che dice al suo «carissimo ed amatissimo figlio, al suo figlio d'oro» d'esser tanto lieta delle sue buone notizie e di aver infinita riconoscenza pei parenti di Roma, che gli si mostrano gentili (26 gennaio 1823, pag. 82, vol. cit.); ora è Monaldo, che gli parla della grandissima consolazione provata dalla madre, sentendo che egli non si è piaciuto di Milano quanto in casa temevano: «Giacchè ci avrebbe amareggiati assai, o la vostra lunga dimora costì, o il vedervene partire con molto rammarico» (30 agosto 1825, pag. 121, vol. cit.); ora è di nuovo Paolina, che ringrazia il fratello per parte della madre e con viva riconoscenza della premura usatale di cercar d'una sua antica servente e di dargliene notizie: «Mamma vuole che ti saluti nuovamente e che ti parli del suo grande affetto per te.» (13 dicembre 1825, pag. 143-144, vol. cit.) Malgrado questo, Giacomo non aveva altro pensiero, altro desiderio che quello di starsene lontano da Recanati, ed è certo che non poco vi contribuiva il ricordo della severità che la contessa metteva in tutti i particolari della vita domestica. «Veramente ottima donna ed esemplarissima, si è fatta delle regole di austerità assolutamente impraticabili, e si è imposti dei doveri verso i figli, che non riescon loro punto comodi»; scriveva Paolina (26 maggio 1830) a Marianna Brighenti; Paolina, che già trentenne doveva farsi indirizzare le lettere dell'amica presso il suo vecchio precettore, non permettendole la madre ch'ella facesse amicizia con alcuno, perchè ciò, secondo lei, distoglieva da l'amore di Dio; e non voleva veder lettere dirette a la figlia, a la figlia trentenne, nè pure se fossero state del suo santo protettore. La povera contessina, che desiderava conoscere di persona le sue amiche Brighenti e sapeva di non poterle accogliere in casa, doveva rinunziare anche al piacere di vederle in chiesa o da la finestra (esse sarebbero andate a Recanati sol per procurarle questa gioia), perchè in chiesa andava unicamente la festa e accompagnata, e quel ch'ella poteva vedere da la finestra era sempre sorvegliato da sua madre, la quale girava per tutta la casa, si trovava da per tutto e a tutte le ore. (Vedi Lett. di Paolina ad Anna Brighenti, 4 marzo 1831). Tale severità irritava anche la mite contessina; mentre d'altra parte Adelaide, più che tutti gli altri di famiglia, si dava pensiero di cercare uno sposo a quella figliuola e voleva che si tentasse di combinare, anche quando le più gravi difficoltà eran palesi. Più duro di tutti i figli verso di lei fu Carlo, nelle lettere del quale troviamo frasi acerbe assai; una volta (Lett. a Giac., vol. cit., pag. 182-183) dubitando che Adelaide avesse aperta una sua lettera a Giacomo, consegnatale perchè la francasse, riscriveva al fratello dicendogli di questo dubbio e come la madre avesse rifiutato ostinatamente di toglierglielo, e prorompeva contro la curiosità donnesca e l'imperiosità insopportabile di lei; confessando però egli stesso d'essere in un momento di rabbia incredibile. Pare che la contessa e Monaldo aprissero infatti la corrispondenza dei figliuoli e la intercettassero talvolta, cosa che formava la disperazione specialmente del primogenito; nè la buona intenzione con cui lo facevano, basta a giustificarli. Ma nella loro severità, come ne l'inesorabile economia di Adelaide, non v'era mai punto mal animo, e la contessa doveva amar di cuore tutti i suoi cari, se mostrava tanto rincrescimento quando s'allontanavano da lei, se una volta il ritorno improvviso di Monaldo la fece quasi svenire,[7] se non seppe mai rifiutare a Giacomo i soccorsi ch'egli chiese (modestissimi è vero e domandati in modo che niuno che avesse cuore poteva negarli); ma li accordò anzi con parole tali da commuover lui, che pur diceva non esser più capace di verun sentimento; se la sua vita intiera fu consacrata a la famiglia; se quand'ella morì, nella sua camera fu trovata la seggiolina in cui eran stati seduti tutti i suoi figliuoli bambini, seggiolina che, con atto di tenerezza materna, ella aveva conservata religiosamente per fanti anni; e se infine Monaldo, pur dichiarandosi tanto discorde da lei quanto son lontani fra loro il cielo e la terra, pur credendosi castigato dal cielo nel suo matrimonio contrario al volere della madre, dichiara Adelaide buona moglie, saggia, affettuosa e pia, afferma che ventisei anni di matrimonio non smentirono un momento la condotta irreprensibile ed ammirata da tutti di quella donna forte, intenta solo ai doveri del suo stato, incurante d'ogni piacere od interesse che non fosse quello della famiglia o di Dio; confessa di averle obbligazioni innumerabili e che il suo ingresso nella famiglia Leopardi fu una vera benedizione. Monaldo stesso nel suo testamento dichiara Adelaide la sua amatissima consorte ed aggiunge: «Sono poi certo che i miei figli la rispetteranno e obbediranno come loro degna e venerata madre, rammentandosi qualmente essa, non solo è stata l'edificazione e la benedizione della famiglia con la sua costante religione e pietà; ma, con la sua saggia economia, prudenza e giudizio, ha ristaurato il patrimonio domestico dalle percosse dei tempi trascorsi; e se la casa nostra si è conservata in mezzo a tante burrascose vicende, questo è dovuto primieramente alla misericordia di Dio, e poi alle cure, diligenze e fatiche di questa savia, amorosissima donna.»[8]

La sorveglianza instancabile di Adelaide, la sua durezza, dovevano riuscir penose a lei stessa, che soffriva per sè e soffriva forse di far soffrire; ma rimaneva inflessibile, persuasa che questo fosse il suo dovere. A ragione il Finzi crede che una delle principali cause per cui ella e Monaldo rifiutarono sempre di mantener lontano di casa Giacomo, fosse la cura de l'anima di lui, che, secondo loro, lungi da la casa paterna cedeva a malvagi amici e si perdeva.

Come il conte e la contessa non comprendevano i figli, così questi non sempre compresero loro; e Giacomo, che ne' suoi pensieri giudicava l'educazione moderna un formale tradimento ordito da la vecchiezza contro la gioventù, se, com'è probabile, pensava a l'educazione propria, si lasciava sopraffare da l'amarezza: «Non lascia d'esser notabile che tra gli educatori, i quali, se mai persona al mondo, fanno professione di cercare il bene dei prossimi, si trovino tanti che cerchino di privare i loro allievi del maggior bene della vita, che è la giovanezza. Più notabile è, che mai nè padre, nè madre, non che altro istitutore, non sentì rimordere la coscienza di dare ai figliuoli un'educazione, che muove da un principio così maligno. La qual cosa farebbe più maraviglia, se già lungamente, per altre cause, il procurare l'abolizione della gioventù, non fosse stata creduta opera meritoria.»

È notevole il giudizio che di Adelaide dà il canonico Avoli:[9] egli la crede donna più di mente che di cuore, di propositi virili, più che di tenerezze materne, pensa che non possa venir giudicata se non severamente nei nostri tempi, e che per averne criterio equo sia «necessario trasportarsi con la memoria a circa un secolo addietro.» Ricorda come appaia naturale che, malgrado la più sincera affezione, l'accordo fra Adelaide e Monaldo non fosse perfetto, poichè l'uno era splendido fino alla prodigalità, l'altra calcolatrice, economa, massaia.

In tutta la vita e in tutta l'opera di Giacomo Leopardi non vi è un riflesso della tenerezza materna; ma in tutta quella nobile vita e in tutto lo splendore di quell'opera risenti l'elevatezza di pensiero, cui il poeta fu educato. Il Michelet diceva che il mondo vive la vita della donna, la quale gli dà due elementi di civiltà, la grazia e la delicatezza, che è un riflesso della purità. La grazia mancò alla contessa Adelaide, alla rigida signora che, dalle fredde nebbie del suo mistico cielo, non sapeva distoglier gli occhi, se non per curarsi della prosperità materiale della famiglia, tanto che «il fine che si era proposto le fece dimenticare che l'immediata felicità dei figli poteva qualche volta anteporsi a la futura.»[10] Ma non le mancò la purezza, la più alta dignità femminile: i figli non si sentirono attratti da l'anima sua, videro però quell'anima sempre candida, quella vita sempre d'una trasparenza assoluta, come d'una gemma che nulla offusca, e ne ritrassero la morale elevazione, ammirabile in tutti e più che mai in Giacomo.

Adelaide Antici ebbe il premio che meritavano i suoi sacrifici: vide tornato pienamente in fiore il patrimonio dei Leopardi, e questo per opera sua, ma quante pene le amareggiarono questa gioia! Pianse, morti in giovane età, il suo Luigi e il suo Pier Francesco; e, quantunque la rassegnazione, ch'ella credeva dovere di donna cristiana, le facesse piegare umilmente il capo ai voleri della Provvidenza, sarebbe ingiusto negare il dolore di questa madre, che ci è dipinta inginocchiata, pregando fra le lagrime nella camera vicina a quella dove stava per spirare l'ultimo figlio rimasto a la sua casa (ultimo se si pensi che Carlo non ne faceva quasi più parte e di più non aveva prole), di questa donna che a l'annunzio de la sventura, cui non sapeva ancora credere, scoppia in violenti singhiozzi e vuol poi prestare ella stessa colle mani tremanti gli estremi uffici al suo caro perduto. Ella vide sola nel mondo la sua Paolina, perdette il marito, due nipoti; e quel Giacomo, che le aveva dato pel primo il nome di madre, fu perduto per lei più che gli altri, morto solo, lontano e senza fede.

Il prof. Filippo Zamboni nel 1847 visitava la casa Leopardi: vide i manoscritti del poeta ed entrò nella camera ove questi era nato: Adelaide, maestosa nella persona, austera, coi capelli candidissimi, era ritta in piedi dinanzi ad un gran letto. Accennando ad un ritratto di Giacomo, il professore esclamò con entusiasmo: «Benedetta colei che in te s'incinse!»

Ella, rimasta immobile, levò solo gli occhi al cielo, esclamando: Che Dio gli perdoni! «Dunque la madre di Giacomo Leopardi non lo credeva fra i beati! Non v'è giorno ch'io non ci ripensi ancora con terrore,» scrive lo Zamboni, vinto da la sua commozione. Ma in quella risposta c'è forse tutta l'anima della contessa, co' suoi cupi terrori religiosi, che le amareggiarono le più pure sorgenti de gli umani affetti, che l'agghiacciarono dinanzi a l'immagine d'un Dio di spavento, non di misericordia. «Che Iddio gli perdoni!»; io credo che in queste parole ci fosse un profondo dolore e un amore profondo, un barlume de l'intima tragedia di cui il secreto fu portato nella tomba da l'austera contessa, sdegnosa del mondo.

Ella morì il 2 agosto 1857. Carlo, passate le giovanili intemperanze, dettava per lei una pietosa epigrafe, in cui la chiama «insigne per pietà ed affetto coniugale, mirabile nel ristorare l'economia domestica: con sè avara, premurosissima per la famiglia».

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La critica leopardiana si è affaticata indefessamente a discutere e a ricercar notizie intorno ai genitori del grande Recanatese, ed avida del vero, ha raccolto ogni minuzia, conscia che talora anche le minuzie possono riuscir utili o gradite: tutto quel che ha potuto ha raccolto e narrato: da le piccole malizie cui, per aver danaro ad insaputa della moglie, ricorreva Monaldo, come il vender di nascosto grano o vino d'accordo coi castaldi, il far creder alla contessa d'aver comperato e di dover quindi pagare libri che prendeva invece dalla propria biblioteca per mostrarglieli; a le rampogne di lei per la minima spesa, fosse pur quella d'una maglia di lana, cui ella non avesse prima consentito, ai mantelli dei ragazzi divenuti troppo corti e allungati con due palmi di pelone. E pure molto e molto si desidererebbe di conoscere ancora intorno a lei; quanto si sa è forse il peggio, non il buono de l'anima sua, le esteriorità meschine de l'esistenza, piuttosto che l'intima vita. Giacomo, il quale non ignorava affatto come la vera padrona e quindi l'arbitra della sorte dei figli fosse lei, Giacomo, che nella piena del suo dolore si lasciò spesso sfuggire pungentissime parole contro il padre, tacque di Adelaide, in cui non aveva trovato una madre secondo il suo cuore, ma sentiva un'anima vigorosa; sentiva forse nella grandezza del proprio spirito anche qualche cosa che gli veniva da lei.

La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi

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