Читать книгу Dal primo piano alla soffitta - Enrico Castelnuovo - Страница 8
III.
ОглавлениеIl deliquio del vecchio conte non durò che pochi minuti, ma i medici, considerando l’età avanzata e il fisico indebolito di Sua Eccellenza, lo giudicarono un sintomo gravissimo e non tacquero le loro inquietudini alla famiglia. Nè s’apponevano a torto; chè di lì a qualche giorno apparve evidente che il nobil’uomo Leonardo Bollati, patrizio veneto e comandante di galera sotto la Serenissima, si spegneva a oncia a oncia, come lampada a cui manchi l’olio. Egli conservò per altro sino all’ultimo la lucidezza della mente, e quando s’accorse d’essere ormai bell’e spacciato, chiamò al suo letto il figliuolo e gli tenne all’incirca questo discorso:
—Lasciamo i preamboli, perchè non ho tempo da perdere. Presto sarete voi il capo della famiglia di nome e di fatto. È dunque bene che sappiate, se non ve ne foste ancora accorto, che, da un secolo a questa parte, c’è in casa nostra tutta la disposizione ad andare in malora. La mia colpa ce l’avrò anch’io, ma si è cominciato molto prima di me a spendere più di quello che si poteva. Se cercherete su nell’archivio le lettere del vostro prozio Almorò, ambasciatore a Parigi, vedrete ch’egli domandava 120 mila franchi all’anno per lui solo e l’agente aveva un bel da fare a trovarglieli. E vedrete anche la polizza delle spese occorse per le feste date in occasione della nomina a Procuratore di San Marco di vostro nonno e mio padre Zaccaria. Oh bazzecole! venti mila ducati! Notate che in quei tempi c’era ogni tanto la sua brava eredità che capitava in buon punto a colmare i vuoti. Ma adesso i pochi parenti che ci restano son tutti spiantati, e non so quali eredità si possono sperare.... Se non fosse da parte dei Rialti....
Questa supposizione parve sì comica al conte Leonardo ch’egli si mise a ridere, e, poichè il riso gli fece venire la tosse, dovette interrompere la sua arringa.
—Sì, sì—egli riprese di lì a un paio di minuti—tutti ebbero le mani bucate nella nostra famiglia. Non è da eccettuarsi che una bisavola, la quale aveva invece la manìa dell’avarizia, e, fra l’altre cose, lasciò alla sua morte una cinquantina di pacchi di curadenti con scrittovi sopra: usati, ma servibili. Insomma quello che volevo dirvi si è ch’è necessario metter giudizio; se no vi assicuro io che, nonostante i due dogi, i tre procuratori e gli altri illustrissimi personaggi che vantiamo per antenati, di tutte le nostre ricchezze non ci resterà fra poco il becco d’un quattrino. E queste cose ditele alla mia degnissima nuora, che non si sa proprio come spenda il danaro, perchè le nostre vecchie si divertivano, e quella lì consuma una sostanza in caffè, cioccolata, baicoli e paste sfogliate. Badate poi al vostro figliuolo Leonardo, che giurerei destinato a restare un somaro e a diventare un cattivo soggetto. Finalmente credo utile avvertirvi che tutti i nostri dipendenti ci succhiano il sangue come tanti vampiri, cominciando dall’agente generale sior Bortolo e terminando coll’ultimo fattore di campagna. Già saprete il proverbio: Fame fator un ano, e se moro de fame xe mio dano. Non vi suggerisco di cambiarli, perchè ne prendereste di quelli che vi ruberebbero ancora di più; solamente tenete gli occhi aperti e procurate di far meglio di quello che ho fatto io. Io me ne lavo le mani. È il meno che si possa fare quando si va all’altro mondo.
In complesso il sermone del conte Leonardo era pieno d’idee giudiziose, ciò che prova come tutti gli uomini in punto di morte abbiano l’attitudine a dar buoni consigli, perchè sanno di non doverli più avvalorar con l’esempio, e perchè non temono più le conseguenze dei sacrifizi che suggeriscono agli altri.
E invero quando, dopo pochi giorni, Sua Eccellenza morì con tutti i conforti della religione, il suo testamento parve fatto apposta per ismentire le savie massime ch’egli aveva predicato, tanti e di tante specie erano i legati che imponeva all’erede. Ce n’era sotto forma di elargizioni a opere pie, di somme da pagarsi in una sol volta a parenti ed a amici, di elemosine ai poveri, di pensione alla servitù, ecc., ecc. Nè mancavano istruzioni precise, minute, circa ai funerali che dovevano essere tra i più splendidi che si fossero visti.
Questi funerali i vecchi parrocchiani se li ricordano ancora. Essi si ricordano perfettamente quanti minuti impiegasse il corteo per giungere dal palazzo alla chiesa, quanti preti, quante confraternite, quante rappresentanze civili e militari, quanti servi di casa, quanti gondolieri di famiglie patrizie vi prendessero parte, e che folla di curiosi venisse in coda, donne, ragazzi, pezzenti d’ogni età e d’ogni sesso, che, trattenuti a fatica dai fanti del Municipio, si accalcavano gli uni sugli altri, mormorando per non aver potuto avere il torcetto. In chiesa poi era uno spettacolo imponente. Le pareti e i pilastri erano rivestiti di drappo nero con galloni d’argento, un gran catafalco con iscrizioni ai quattro lati s’ergeva nel mezzo, le fiamme oscillanti dei ceri abbarbagliavano gli occhi e gettavano in faccia dei buffi d’aria infocata. Dopo che il feretro fu issato sul catafalco, intorno al quale stavano ritti ed immobili quattro pompieri con le spade nude e quattro servitori con le torce accese, principiò la cerimonia religiosa, una cerimonia che non voleva finir mai. Le onde sonore che partivano dalla cantoria accrescevano, s’era possibile, il caldo affannoso, la gente, stipata come le sardelle in barile, si rasciugava i sudori con la manica del vestito (seppur le riusciva di alzare il braccio), e di tratto in tratto, non potendone proprio più, metteva dei muggiti simili a quelli del mare in burrasca. Insomma, quando piacque a Dio, il parroco pronunziò l’assoluzione e il funerale si mosse. Ci fu di nuovo un serra serra, qualche bimbo rischiò di restar schiacciato, qualche donna cadde in deliquio, ma non s’ebbero a deplorare disgrazie maggiori. Nel campo davanti alla chiesa un picchetto di soldati di marina rese alla bara gli onori militari; poi, non usandosi in quei tempi i discorsi, la bara fu accompagnata sino al canale, e venne deposta in una peota riccamente addobbata, nella quale salirono i famigli del defunto, alcuni pompieri e fanti del Municipio. La peota preceduta da una barca con la musica e seguita da uno stuolo di gondole si diresse verso il cimitero di San Michele di Murano.
La folla si disperse da varie parti. Solo un centinaio di poveri (donne in gran parte) s’avviarono al palazzo per buscarsi qualche soldo d’elemosina.
Sior Bortolo, il quale, soffrendo un po’ d’asma non era andato in chiesa, ebbe un bel da fare a liberarsi da quest’arpie ch’eran riuscite a penetrar nel mezzà e lo assordavano delle loro querimonie.
—A mio marito non hanno dato nemmeno una candela.
—Ho quattro creature, io....
—Son due giorni che non si accende fuoco in casa....
—Sono un povero vecchio impotente....
—Ho il figliuolo coscritto.
—Andate in pace—diceva sior Bortolo—chè già nel testamento di S. E. Leonardo c’è un legato pei poveri della parrocchia.
—Oh paron benedeto!—stillavano alcune di quelle megere—di quei soldi lì noi altri non ne vediamo.... Se li mangia il pievano.
—Eh, vergogna. Che discorsi!
—Pur troppo, sior Bortolo.... Pur troppo la è sempre così.
—Se anche non li mangia tutti—soggiungeva una femmina d’opinioni moderate—li distribuisce a suo modo, a chi non li merita, a chi non ha bisogno.... Sia buono, sior Bortolo, ci dia qualche cosa.
Sior Bortolo si lasciava commuovere e cacciava le mani dentro un cassetto.—Uno alla volta.... Marco.
Marco era un fattorino addetto all’agenzia.
Sior Bortolo gli diede una manata di soldi con l’incarico di licenziare tutta quella gente, e Marco ricorrendo a sior Bortolo ogni volta che la provvista era esaurita, persuase i postulanti ad andarsene. In questa delicata operazione egli seppe far in modo che qualche mezza svanzica si smarrisse nelle tasche della sua giacchetta. Sior Bortolo, dal canto suo, nel registrare la sera tutte le spese innumerevoli della giornata, stimò opportuno di arrotondare la cifra, sembrandogli forse che il decoro della nobile famiglia Bollati esigesse di far comparire nei libri una somma maggiore del vero.
Sua Eccellenza il conte Leonardo Bollati, che scendeva sotterra in quel giorno d’ottobre 1838, non era un grand’uomo, come volevano far credere i suoi panegiristi. Egli aveva avuto la fortuna di conquistare in gioventù una certa riputazione di valore combattendo sotto gli ordini dell’ammiraglio Emo nell’impresa di Tunisi, e aveva avuto l’abilità di conservar quella riputazione, non mettendola mai alla prova. Così più d’uno aveva creduto (e abbiamo visto che tale era anche l’opinione del vecchio barbiere) che se, nel 1797, egli fosse stato alla testa della flotta, le cose sarebbero andate diversamente.
Caduta la Repubblica, Sua Eccellenza non volle più servire nè sotto il Governo democratico che le succedette per pochi mesi, nè sotto alcuno dei Governi che si avvicendarono poi, e quest’atto, che forse in lui era da attribuirsi a sola pigrizia, fu interpretato quale una protesta dignitosa contro i nuovi ordinamenti politici della patria. È vero che questo suo nobile disdegno non gl’impedì d’essere tra i patrizi veneziani i quali sollecitarono dall’Austria la corona di conte.
Se Sua Eccellenza Leonardo Bollati abbandonò dopo il 1797 i pubblici uffici, non si può dire ch’egli si consacrasse con molto zelo alle sue faccende private, chè anzi, mortagli la moglie in età ancora fresca, egli non si diede alcun pensiero dell’unico figliuolo rimastogli, e continuò invece, fin che la salute glielo permise, a menar vita dissipata e galante. A ogni modo, sia pel fascino esercitato dal suo nome storico, sia pei ricordi che gettavano una luce favorevole sulla sua gioventù, sia per una certa prontezza e festività di spirito, sia per le maniere affabili sotto le quali egli dissimulava l’alterigia e l’egoismo nativo, sia pel largo patrimonio ch’è mezzo sicuro di coltivar le aderenze, il conte Bollati era un uomo assai popolare e molti riverivano in lui uno degli ultimi rappresentanti di quell’aristocrazia veneziana che diede così splendidi esempi di senno civile. E quantunque da alcuni anni egli non si facesse veder quasi da nessuno e lasciasse far tutto al figliuolo, la sua morte recò una scossa notevole al credito della famiglia, cosa di cui l’agente generale fu il primo ad accorgersi nel combinare l’operazione finanziaria indispensabile pel pagamento dei numerosi legati.
Sior Bortolo era una perla d’agente, che non seccava mai i padroni coi molesti predicozzi dei commessi troppo scrupolosi, che non lesinava mai il danaro, nè sollevava dubbi e difficoltà. A ogni straordinaria richiesta di fondi, egli atteggiava le labbra a un sorrisetto serafico e rispondeva:—Sarà fatto.—E non c’era pericolo ch’egli non mantenesse la sua parola. Ohibò! Si era sicuri di vederlo comparire il domani più sorridente ancora del consueto con la somma precisa di cui si aveva bisogno. E la soddisfazione che sior Bortolo provava nel compiacere la nobile famiglia era tale ch’egli diventava ogni giorno più lucido e grasso, tanto lucido da parer spalmato di lardo, tanto grasso da raggiunger quasi la forma sferica.
Sappiamo già che il conte Leonardo era intimamente persuaso che l’ottimo sior Bortolo rubasse a man salva. Ma egli diceva:—Non posso mica attender io stesso ai miei affari. E a qualunque altro li affidassi, sarebbe peggio.—Il conte Zaccaria poi non faceva neanche questo ragionamento; egli lasciava correre senza badare più in là.
Adesso però, sotto l’impressione delle profezie e delle ammonizioni paterne, egli stimò necessario di veder coi suoi occhi come stavano le cose, e ordinò a sior Bortolo di preparargli un prospettino da cui apparisse chiaro lo stato del patrimonio. E sior Bortolo con mirabile sollecitudine allestì un lavoro degno della sua perizia di contabile e di calligrafo. Frutto di queste lucubrazioni furono due nitidi specchi a doppia colonna, l’una per il dare, l’altra per l’avere. Nel primo figuravano a destra le somme a cui erano stimati i beni della famiglia, possidenze in città e in campagna, oggetti d’arte e oggetti preziosi, ecc. ecc.; a sinistra si leggevano i nomi dei varii creditori insieme con le cifre dei loro crediti. Qui c’era una bella differenza in più nell’avere. Nel secondo specchio erano disposte nello stesso ordine l’entrata e l’uscita: spese domestiche presunte, livelli, tasse, interessi dei mutui. E c’era una bella differenza anche qui, ma in senso contrario; il dare superava l’avere di parecchie migliaia di lire.
—Capisco, capisco—disse il conte Zaccaria dopo aver esaminato per mezz’ora i due prospetti in lungo e in largo—noi avanziamo ogni anno dai quattro ai cinquemila ducati.
—Scusi, Eccellenza—interpose l’agente—è proprio il rovescio. Si spendono quattro o cinquemila ducati in più.
Il conte Zaccaria si grattò la nuca.
—E come va questa faccenda?
—Ma!—rispose sior Bortolo, sprofondando la testa fra le spalle.—Mi pareva che S. E. Leonardo (pace all’anima sua) l’avesse avvertita....
—Sì, sì, mi disse qualche cosa.... senza parlare di cifre....
—Del resto—ripigliò l’agente per dorar la pillola—del resto, se ci fossero due buoni raccolti di seguito, un aumento nelle entrate lo si dovrebbe vedere. Poi c’è qualche livello che sta per cessare.... In ogni modo, non lo dissimulo, un po’ d’economia sarebbe assai utile. Dal canto mio, per quanto riguarda l’agenzia, procurerò sicuramente.... ma bisognerebbe che anche in famiglia.... perdoni, Eccellenza, se mi prendo questa libertà.... ma è la mia devozione per la casa Bollati.
—Bene, bene.... vedremo.... Capisco....
—Di qui ad alcuni anni poi—soggiunse sior Bortolo—il contino Leonardo, col suo nome e con le sue belle qualità, che il Signore Iddio gli conservi, potrà trovar la dote che vuole....
—Affari lontani, caro amico, affari lontani....
—Lontani, ma sicuri.
A questo punto sior Bortolo mostrò al principale un polizzino supplementare con la nota delle tasse e dei legati che conveniva pagar subito, e disse in qual modo, salvo sempre l’approvazione di S. E., egli aveva creduto di provveder la somma occorrente. E S. E., che rispondeva sempre capisco e non capiva mai nulla, si spicciò con due parole:
—Fate voi.... Purchè non si tratti di vendere.... Vendere significa diminuire il patrimonio, e io voglio tramandarlo intatto a mio figlio.
Esposta questa savia massima amministrativa, il conte Zaccaria prese la eroica risoluzione di raccomandare alla sua illustrissima consorte una maggiore economia nelle spese di casa, e citò a sostegno della sua tesi gli avvertimenti del defunto genitore e quelli dell’agente generale.
La signora Chiaretta, donna ordinariamente molto fredda ed apatica, fu punta sul vivo dalle considerazioni del marito, e gli rispose per le rime. Ella disse prima di tutto che si maravigliava molto che si venissero a raccontare a lei queste storie; che se da più secoli gli uomini della famiglia non avevano avuto giudizio, ella non sapeva che farci, e se Sua Eccellenza Almorò, quand’era ambasciatore a Parigi, spendeva 120 mila franchi all’anno, e Sua Eccellenza Zaccaria per festeggiare la sua nomina a Procuratore aveva gettato 20 mila ducati bisognava prendersela con Sua Eccellenza Almorò e con Sua Eccellenza Zaccaria, e non con lei. Del resto, quand’ella, l’ultima degli Orseolo, era entrata in casa Bollati aveva creduto di entrare in una casa di gran signori, e non era disposta affatto a vivere di pane e di noci. A ogni modo ella sarebbe stata curiosa di sapere quali risparmi si potevano fare.—Perchè—ella continuava rispondendo da sè alla propria domanda—non pretenderete mica che si stia senza gondola.
—Sfido io.... Nemmen per sogno.
—O che si licenzi il cuoco?
—Ma chi dice questo?
—O che io mandi a spasso la cameriera?
—Ma no, ma no.
—O che rinunzi al palco alla Fenice?
—Nemmen per idea.
—O che mi vesta come una serva?
—Via, Chiaretta, nessuno pretende una roba simile.
—Che cosa si pretende adunque? Che si dia il benservito al precettore di Leonardo, e che si mandi il ragazzo alla scuola pubblica?
—Ci mancherebbe altro! Un Bollati alla scuola pubblica?... In mezzo alla marmaglia?
—Lo vedete voi stesso, è chiaro come la luce del sole che meno di quel che si spende non si può spendere.... almeno per parte mia. Se voi sprecate il danaro senza discernimento....
—Io!—interruppe scandalizzato il conte Leonardo. E allora toccò a lui di provare come due e due fan quattro che sulle sue spese particolari non c’era da risecare un centesimo, mentre non si poteva certo pretendere che un Bollati non appartenesse al Casino dei nobili, e non avesse un posto nel palcone di società in tutti i teatri, e non frequentasse il caffè, e si tirasse indietro dal giuocare una partita a tre sette per paura di perdere qualche zecchino.
La contessa Chiaretta avrebbe voluto dire che tutte le spese del marito non finivano lì, ma tacque per ispirito di conciliazione.
Dopo questo colloquio pareva che le cose dovessero restar al punto in cui erano prima; nondimeno i due coniugi, ritornando sull’argomento, ebbero uno slancio sublime, e mostrarono di quanta abnegazione fosse capace l’animo loro. Sua Eccellenza Chiaretta, che prendeva sei tazze di cioccolata al giorno, deliberò di sacrificarne una, e il conte Zaccaria, sempre fermo nell’idea di lasciare intatto il patrimonio al figliuolo, immolò sull’altare della famiglia un bicchierino di curaçao, ch’egli soleva centellare dopo colazione.