Читать книгу Dal primo piano alla soffitta - Enrico Castelnuovo - Страница 9

IV.

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Chi, nei giorni immediatamente successivi alla morte del N. H. Leonardo, fosse penetrato in qualche caffè di Venezia avrebbe sentito un dialogo simile a questo:

—Dunque si sa precisamente quel che abbia lasciato Bollati?

—Ma no, nulla di preciso... L’azienda diretta da quel famosissimo sior Bortolo è in una confusione da non credersi.

—Oh c’è da scommettere che anche quelli lì finiscono coll’andare in rovina....

—Via, prima della rovina ci vorrà qualche annetto.

—Non tanto, non tanto; quando si comincia, si va giù a precipizio.

—Che pessimisti! Il vecchio conte, se badiamo alle sue disposizioni testamentarie, non aveva di queste paure.

—Oh se le aveva!... Le disposizioni testamentarie non significano nulla.... È positivo che prima di morire egli fece una predica al figliuolo e gli pronosticò una catastrofe se non restringeva le spese.

—Bellissima! E poi lasciò tutti quei legati?

—Boria postuma.

—Contraddizioni umane.

—È vero—chiedeva qualcheduno—che i Geisenburg sono partiti su tutte le furie il giorno dopo i funerali?

—Verissimo. È innegabile che il conte Leonardo li trattò un po’ male. Non nominò nemmeno nel suo testamento il marchese Ernesto, e alla nipote lasciò un anello di nessun valore.

—Il conte Leonardo aveva sempre veduto di mal occhio questo matrimonio.

—E aveva ragione. O che non c’erano meglio partiti a Venezia?

—Quel marchese con la sua prosopopea è insoffribile.

—È poi così ricco come si vanta di essere?

—Nemmen per sogno.... Molto fumo e poco arrosto. Già quando c’è il vizio del gioco non c’è fortuna che basti.

—Il gioco, il vino e i cavalli—soggiungeva un altro.—Tre cose che costano un occhio.

—E lei, la marchesa, sciupa una moneta in toilettes.

—Sì, con quel frutto.... Pare la bambola di Francia.

E si seguitava di questo tuono, tagliando i panni addosso al marchese Ernesto e alla marchesa Maddalena, che, per vero dire, erano antipatici a tutti. Noi, che non dobbiamo occuparci dei fatti loro, li lasceremo in balìa dei loro detrattori e vedremo che cosa pensino del testamento del conte Leonardo quei parenti dei Bollati, a cui già accennammo più volte, i Rialdi.

Anche i Rialdi erano stati delusi nella loro aspettazione. Si ripromettevano una bella sommetta e avevano avuto invece un legatino piccolo piccolo. Il conte Luca soffiava in silenzio (era il suo modo d’esprimere il malcontento), ma la contessa Zanze, quando non c’era presente la figliuola, non resisteva alla tentazione di darsi uno sfogo.

—Avete visto?—ella diceva al pacifico marito.—Valeva la pena di aver fatto la vita che s’è fatta in questi ultimi giorni, valeva la pena ch’io aiutassi il flebotomo a metter, con riverenza parlando, le sanguisughe a quell’empiastro del conte Leonardo, per esser poi trattati come parenti lontani che vanno a palazzo a ogni morte di papa o come estranei che non hanno altro merito che quello di recitar quattro versi nelle feste di famiglia?... Quattromila lire venete una volta tanto.... Una miseria!... E invece le migliaia di ducati all’Ospitale, alla Casa di Ricovero, agli Orfanotrofi, agli Asili d’infanzia, ai Catecumeni, o che so io... tutto per aver gli articoli della Gazzetta e le lapidi nei vari istituti.... Come se il morto leggesse quegli articoli e le iscrizioni di quelle lapidi!... Ma il dispetto maggiore me lo fanno quelle pensioni ad agenti e a servitori... dopo che il conte Leonardo ha detto lui stesso che tutti rubano in casa sua.... Se rubano!... Quel sior Bortolo peggio degli altri.... Sempre così mellifluo, sempre così cerimonioso... lustrissimo, lustrissima, e inchini, e baciamano, e proteste di devozione, e intanto s’empie le tasche di ben di Dio.... E i fattori di campagna?... Che cere da Patriarchi!... Bianchi e rossi da fare allegria.... Rendono i conti a loro modo, si servono dei cavalli di lusso, dotano le figliuole, allargano i loro poderi... insomma un carnovale.... Ma perfino il cuoco ha tutta l’aria d’un gran signore, e a vederlo la domenica quando conduce a spasso la moglie lo si direbbe un milord.... Gli è che oltre alla sua paga ha gli incerti e accetta ordinazioni di pranzi da questi e da quelli, e tutto vien fuori dalla cucina Bollati.... Camerieri e guatteri, non c’è bisogno di dirlo, cacciano le mani anche loro nelle casseruole e non ce n’è uno che non porti a casa il suo fagotto di roba... le donne fanno il resto e vorrei aver io tutti i capi di biancheria e di vestiario che quella stolida della Chiaretta si lascia portar via sotto agli occhi.... È inutile che facciate quelle smorfie... queste son verità sacrosante, e siete voi solo a ignorarle.... E vi dico che se foste stato un uomo di spirito, invece di perdere le giornate in quel vostro ufficio che non vi dà nemmeno da campare la vita, e di sciupar le sere al caffè alla Vittoria coi vostri eterni scacchi, avreste dovuto ottenere un posto nell’amministrazione Bollati e ingegnarvi.

—Oh, oh—interruppe il conte Luca—vorreste dire che avrei dovuto rubare come gli altri... mi spiego?

—Mi spiego, mi spiego?... Vi spiegate malissimo.... Io non ho detto rubare; avreste fatto del bene alla vostra famiglia e anche ai vostri parenti Bollati, che era meglio cascassero in mano d’un cugino che di gente mercenaria.... E oggi stesso, vedete, s’io fossi nei vostri panni, andrei difilato da Zaccaria e gli direi: Volete una persona di cuore alla testa dell’agenzia? Son qua io.

—Siete matta? In questi impicci mi mettereste? Vi paion proposte da fare?

—Oh lo so che voi non siete uomo capace di uscir dal vostro guscio.... E guai alla famiglia se non ci fossi io.... Che anche quel poco che ci rende la parentela dei Bollati lo dovete a me.

—Io non nego le vostre belle qualità;... però... sì... voglio dire... se siamo parenti dei Bollati, il merito non è mica vostro... mi spiego?

Il conte Luca non aspettò la risposta e sguizzò dalla stanza, come faceva sempre quando gli pareva di non aver mostrata sufficiente sommissione alla moglie.

Era una brava donnetta, una donnetta attiva e procacciante la contessa Zanze, ed era riuscita, poverissima, a farsi sposar dal conte Luca Rialdi, poco meno spiantato di lei, ma cugino degli illustri e ricchissimi Bollati, e in buoni termini con loro. Alla contessa Zanze però era occorsa molt’arte a vincer la diffidenza dei parenti di suo marito, i quali le rimproveravano, fra l’altre cose, la dubbia nobiltà dei natali e il modo subdolo con cui aveva tirato nella rete quel povero conte Luca. Comunque sia, ormai ella spigolava abbastanza largamente nel campo dei Bollati; vestiti smessi pei figliuoli, per sè e anche pel consorte, qualche regaluccio a tempo e luogo, e qualche prestito di danaro che non si restituiva e che l’aiutava a spingere innanzi la barca pericolante. Aggiungasi al resto un paio di mesi di villeggiatura, e un paio di pranzi alla settimana, ch’erano una vera provvidenza per la famiglia. Naturalmente di fronte a questi vantaggi la contessa Zanze doveva inghiottire molti bocconi amari. Le toccava prestarsi ad uffici umili, quasi di cameriera, le toccava ogni momento sentirsi ricordar la distanza che correva tra lei e i Bollati, e far la disinvolta mentre si andava a gara per mettere in burletta le sue acconciature, il suo abbigliamento e perfino, sacrilegio orribile! i suoi martedì. Giacchè bisogna notare che la contessa Zanze aveva anch’essa il suo giorno di ricevimento nel quale ella noleggiava un servitore a spasso, gli faceva indossare una livrea gelosamente conservata in casa, e lo piantava nell’andito ad aspettarvi le visite. Capitavano dame e pedine, ma per lei erano sempre contesse, o marchese, o lustrissime; fra lei e il suo cameriere improvvisato nobilitavano tutti. La moglie del dottor X.... non mancava mai ai martedì della Rialdi, tanto le piaceva il sentirsi dar della contessa una volta per settimana.

Il martedì si desinava in casa Bollati, e guai se non fosse stato così, perchè quel giorno non si accendeva il fuoco in cucina per non aver l’odor di bruciaticcio nel salotto attiguo, e anche perchè la padrona di casa non aveva agio da attendere alle faccende domestiche. Di tratto in tratto accadeva però che i Bollati avessero appunto il martedì qualche commensale di riguardo e allora essi mandavano a dire ai cugini: Venite domani. In questi casi, il conte Luca doveva limitarsi a mangiar pane e salame, e i bimbi sfamati alla meglio si mettevano a letto più presto del solito in ossequio al proverbio: Qui dort dîne. In quanto alla contessa Zanze, ella non prendeva che una limonata senza zucchero, tant’era la bile che le suscitava il procedere de’ suoi boriosi parenti, i quali mostravano di tener in così poco conto lei e suo marito. Ah se non ci fossero stati di mezzo i figliuoli! Ma i figliuoli c’erano e non conveniva sacrificarli a un malinteso amor proprio. Perciò la contessa Zanze reprimeva presto i suoi moti di collera e procurava d’inculcare a Gasparo e a Fortunata la maggior riverenza verso i Bollati. Senonchè, l’indole de’ suoi ragazzi era così dissimile che i germi gettati nel cuore dell’uno e dell’altra non potevano dare ugual frutto. Fratello e sorella avevano comune un gran fondo di rettitudine, ma nella sorella questa rettitudine s’univa a un’indole docile e mansueta; nel fratello invece essa si accompagnava a uno spirito altero, insofferente di freno. A ogni suggerimento, a ogni ordine, il primo impulso di Gasparo era quello di ribellarsi, il primo impulso di Fortunata era quello di ubbidire, cosicchè un psicologo chiamato a far pronostici sui due piccoli Rialdi avrebbe detto che Gasparo era un ragazzo indisciplinato e molesto, il quale sarebbe divenuto un uomo efficacemente e operosamente buono; Fortunata era una bimba angelica, serbata probabilmente a esser vittima d’ogni prepotenza e d’ogni ingiustizia, e la cui bontà passiva avrebbe finito piuttosto col nuocere a lei che col giovare agli altri.

Premesso ciò, sarà facile intendere come non ci fosse voluto molto a imprimer nell’animo di Fortunata l’idea della grandezza dei Bollati e a persuaderla della necessità di mostrar loro ogni deferenza, e come d’altro canto la fierezza naturale di Gasparo gli avesse impedito d’acconciarsi a questa subordinazione. Non c’era mai stato caso di persuaderlo a baciar senza tante smorfie la mano del vecchio conte Leonardo, nè quella del conte Zaccaria o della contessa Chiaretta; non era stato possibile di far sì ch’egli giocasse col contino senz’attaccar lite. Anzi un giorno, punto da non so quali parole, egli picchiò di santa ragione il cuginetto, cosa che indusse la contessa Chiaretta a far terribili vaticini sulla sorte dell’umanità, giacchè, quando i parenti spiantati picchiano i parenti ricchi, dev’esser vicina la fine del mondo.

Forse questo fatto memorabile ebbe una certa influenza nella risoluzione dei Rialdi di mettere il figliuolo nel collegio di marina a Sant’Anna di Castello.

Così la contessa Zanze poteva catechizzar Fortunata senza contraddizione.—Sii rispettosa, servizievole coi parenti Bollati, e procura di farti voler bene dal cugino Leonardo.

La bimba, ufficiosa per sua natura e facilissima ad affezionarsi, non durava fatica a secondare i desiderii materni, ed era lietissima se poteva rendersi utile in qualche maniera alla zia Chiaretta, com’ella chiamava la illustrissima contessa. E costei, ch’era un tipo perfetto d’egoista, vedeva di buon occhio questa fanciullina punto chiassona, punto romorosa, dispostissima a far le parti d’una piccola cameriera. Lo stesso conte Zaccaria si degnava talvolta di occuparsi di lei, e allorchè voleva darle un segno della sua speciale benevolenza, se la prendeva sulle ginocchia, le ordinava di chiuder gli occhi e le cacciava su pel naso un pizzico di tabacco, scherzo fino e saporito che l’illustre gentiluomo riteneva il non plus ultra dello spirito. Fortunata starnutiva replicatamente, ma non si lagnava mai; anzi, quand’aveva finito di starnutare, sorrideva di quel suo sorriso carezzevole ch’era la sua maggiore attrattiva fisica.

E il contino Leonardo preferiva Fortunata a tutti gli altri compagni di gioco, forse perchè Fortunata sopportava con più longanimità i suoi capricci. Sprezzante per indole, egli era piuttosto cortese con lei, e le serbava delle chicche, o le regalava dei trastulli rotti: cavalli a cui s’era spezzata una gamba, bambocci che avevano perduto la testa, trombette che avevano dimesso l’abitudine di suonare. Fortunata andava in estasi. Ci voleva così poco a riempirle l’animo di gratitudine!

La contessa Zanze provava un grande compiacimento a veder la buona intelligenza tra i due cugini, e si cullava in una speranza ambiziosa balenatale alla mente, si può dire, fin dalla nascita della figliuola. Ah se Leonardo s’innamorasse di Fortunata!

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