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I.

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Il dottor Romualdo Grolli, assistente alla cattedra di matematica in una Università del regno, e dilettante di chimica nel suo privato laboratorio, sedeva una mattina del maggio 1861 davanti alla sua scrivania, intento a copiare una Memoria da leggersi nell'Accademia scientifica e letteraria della città. Il tema, enunciato in un breve preambolo, era il seguente: Determinare il volume della porzione di cono circolare retto che resta compreso tra un segmento circolare, un segmento iperbolico avente comune col circolare la corda e la parte del manto conico che la chiude. Svolgendo il simpatico argomento, il dottor Romualdo era giunto a questo punto interessantissimo del suo lavoro:

dal triangolo A H G avremo H G = x sen ysen α

e si compiaceva assai dell'evidenza di questa dimostrazione, quando intese bussar leggermente all'uscio.

— Chi è? — egli gridò infastidito, tenendo sospesa in aria la penna.

— La posta — rispose una voce femminile alquanto fessa; e in pari tempo la signora Salsiccini, vedova di un impiegato alle ipoteche e padrona di casa del professore, entrò nella stanza e consegnò al suo pigionale una lettera appena giunta. Il dottore prese quella lettera distrattamente fra le dita e la posò sul tavolino, poi scrisse in continuazione della sua Memoria: Ne viene che l'area del segmento parabolico che si projetta in G H sarà 23 2 y x sen ysen α. Posto qui un punto fermo, egli si degnò di slanciare uno sguardo sull'epistola recatagli dalla sua padrona.

Intanto la signora Dorotea Salsiccini, che era una donnetta matura, corta, asciutta e linda della persona, era uscita senza far rumore, dopo aver abbassato le tendine di una finestra e aver spolverato la spalliera di una seggiola col rovescio del grembiale.

— Chi può scrivermi da Genova? — disse il professore (lo chiameremo spesso con questo titolo) quand'ebbe esaminato per dritto e per rovescio la sopraccarta. È inutile soggiungere che egli non manteneva una corrispondenza molto attiva. Ma la meraviglia e il turbamento dell'egregio uomo furono assai maggiori allorchè gli fu noto il contenuto del foglio. Eccolo:

«Genova, 12 maggio 1861.

«Stimatissimo Signore,

«Quantunque io non abbia l'onore di conoscerla, nè di essere da Lei conosciuto, La prego di voler recarsi immediatamente a Genova per ragioni di estrema importanza. Sarei venuto io stesso costì se mi fosse stato possibile di assentarmi per un paio di giorni, ma mi è forza attendere allo scarico del mio bastimento. D'altra parte, non credo opportuno di affidare alla posta le comunicazioni che debbo farle e le cose che debbo consegnarle. Io mi tratterrò in Genova per tutta la settimana; poi salperò per le Indie. A sua maggior guarentigia faccio autenticare la mia firma da questo Capitanato del porto.

«Appena giunto a Genova voglia cercar di me presso i signori Radice e Lupini, sensali di noleggio in piazza Banchi.

«Le ripeto che la faccenda per la quale Le dirigo questa lettera è tale da interessarla grandemente e da non poter essere confidata a terze persone.

«Mi creda

«Suo obbl. «Antonio Rodomiti

«Capitano di lungo corso, comandante la nave italiana a tre alberi, Lisa.»

Seguiva l'autenticazione indicata.

Il dottor Romualdo rimase di sasso. Chi era il capitano Rodomiti? Che poteva voler da lui? Un pensiero gli balenò alla mente, ma non vi si fermò più che tanto. Nondimeno tornò ad esaminare la lettera per vedere se vi fosse una parola che accennasse al luogo donde veniva la Lisa; ma non c'era nulla. Il capitano aveva stimato superfluo il dirlo o lo aveva taciuto ad arte. Telegrafare o scrivere per domandare schiarimenti era inutile. Su questo punto non c'era oscurità. Il signor Rodomiti diceva schietto che non avrebbe fatto le comunicazioni, nè consegnato le cose affidategli se non personalmente al professor Grolli. C'era un altro partito. Non darsi nemmeno per inteso del foglio ricevuto e continuare a svolgere l'elegante formula x sen ysen α.

No, no, quest'era impossibile. Il professor Grolli, quantunque avesse testa di matematico e abitudini di misantropo, non era poi un pezzo di marmo; egli sentiva che il capitano non gli aveva scritto senza una grave ragione, e che non era lecito di considerare la sua lettera come il capriccio del primo venuto. Che fare adunque? Prender la ferrovia, e quanto più presto tanto meglio. Il professore aperse un orario ch'egli aveva sul suo tavolino, e vide che a voler partire in giornata per Genova non ci era tempo da perdere. Pose sospirando un calcafogli sopra il manoscritto, buttò giù in fretta due righe pel rettore dell'Università, diede a traverso lo spiraglio dell'uscio un'occhiata al suo piccolo laboratorio per vedere se i fornelli erano spenti, poi aperse un tiretto del suo cassettone, ne tolse una camicia da notte che collocò in una sacchetta da viaggio, infilò un soprabito color pepe e sale, calcò sulla testa un berretto di panno nero con visiera di cuoio, prese sotto il braccio l'ombrello, e in questo elegantissimo arnese si presentò all'attonita signora Dorotea.

— Parte, professore? — disse la buona donna, ch'era occupata a lavorar di calze.

— Sì... Faccia il piacere di mandare qualcheduno all'Università con questo biglietto.

— E... tornerà presto?

— Domani, posdomani, di qui a due o tre giorni, non lo so di preciso.

— E... scusi — continuò la signora Salsiccini sempre più impensierita — ha preso con sè l'occorrente, calze, polsini, colletti?

— Sì, sì, ho preso tutto... basta.

A vero dire, il professore non aveva preso altro che una camicia da notte, ma rispose di sì per levarsi d'impiccio. Del resto, egli non aveva mai brillato per una cura eccessiva della persona.

— Un momento — soggiunse la signora Dorotea, vedendo che egli si avviava verso l'uscio. Si alzò dalla sedia, e staccata da un chiodo una spazzola, se ne servì per ripulirgli il soprabito. — Via, stia cheto un minuto... Come vuol andar così?... Non c'è altri al mondo per sciupar la roba in questa maniera...

Mentre la padrona di casa si affaccendava intorno al recalcitrante scienziato, i due gatti Mao e Meo, inseparabili compagni di lei, che dormivano rinvolti a spira ai due angoli di un canapè, si rizzarono sulle quattro zampe, arcuarono la schiena a foggia di cammelli, apersero la bocca ad un lungo sbadiglio, poi scesero dalla loro posizione eminente e vennero a fregarsi intorno al vestito della signora Dorotea.

Questo atto amorevole dei due quadrupedi fece perdere al professore la poca pazienza che gli era rimasta.

— Sempre le bestie fra i piedi — egli disse con un grugnito, e, svincolatosi dalla signora Salsiccini, lasciò la stanza e scese in fretta le scale.

La signora Dorotea, rimasta sola, guardò prima Mao e poi Meo, e dopo aver lisciato il pelo ad entrambi: — C'è del torbido — brontolò — c'è del torbido. — Mao e Meonon seppero contraddire alle sue previsioni e ripigliarono in silenzio il loro posto sul canapè.

Gli avvenimenti non tardarono a provare che la signora Dorotea si apponeva al vero.

Erano scorsi due giorni dalla partenza del dottor Grolli, e l'ottima signora, discesa al pianterreno nel camerino della portinaja, comunicava a costei le sue inquietudini circa al proprio pigionale. Ella aveva finito appena di tessere l'elogio del dottor Romualdo, il quale, astraendo dalla sua misantropia, era un modello di puntualità e di discretezza, quando un fattorino del telegrafo si presentò sulla soglia e chiese — In che piano abita la signora Dorotea Salsiccini?

La signora Dorotea, a sentir così inaspettatamente pronunciato il suo nome, divenne prima bianca e poi rossa, ed ebbe appena la forza di balbettare: — Sono io... ma...

— C'è un dispaccio per Lei. Favorisca farmi la ricevuta.

— Un dispaccio!... Ma io...

— Dorotea Salsiccini, casa Negrelli, è Lei, o non è Lei?

— Ih! un po' di pazienza — disse la portinaja, accorrendo in aiuto della pacifica pigionale del quarto piano. — Dacchè s'è fatta quella maledetta invenzione delle lettere che corrono lungo i fili di ferro, non c'è più pace per nessuno a questo mondo... e pei portinai meno che per gli altri... Di giorno, di notte, drlin, drlin, chi è?... Il telegrafo...

— Insomma, non ho tempo da perdere — interruppe il fattorino. — Se non vogliono il dispaccio, lo riporto in ufficio e me ne lavo le mani.

La signora Dorotea consultò con lo sguardo la signora Gertrude, e, incoraggiata da questa, prese il piego misterioso e consentì a fare col lapis, a piedi della ricevuta, uno sgorbio che doveva essere la sua firma.

Il fattorino corse via rapido come una saetta, e la signora Salsiccini col dispaccio chiuso in mano si abbandonò sopra una sedia, e pregò la portinaja di darle subito un bicchier d'acqua.

— Cara signora Gertrude... mi perdoni... ma non so proprio quello ch'io m'abbia... Sarà una sciocchezza, ma mi fa un certo senso... Io di questa roba non ne ho mai ricevuta.

— Si faccia animo, non sarà nulla...

— Domando io chi può telegrafare a me!... A me, che non m'impiccio degli affari degli altri, a me che non faccio male a nessuno?

E intanto la signora Dorotea girava e rigirava il dispaccio nelle mani senza osare di aprirlo.

La portinaja ebbe un'idea giudiziosa. — Se lo aprisse, vedrebbe...

— Dopo, quando sarò risalita... Non ho meco nemmeno gli occhiali...

— Per questo, cara signora Dorotea, non si confonda... Forse potrà accomodarsi coi miei... In ogni modo, se crede... io m'ingegno a leggere... e potrei... Dico così... non certo per curiosità... ma, in questi momenti... è forse meglio che ci sia una amica... Di me si fida, non è vero?

— Le pare?

— Sa ch'io non sono donna da far chiacchiere...

Quest'affermazione non era esattissima; tuttavia la signora Dorotea consentì di buon grado a lasciar aprire il dispaccio alla portinaja. Costei ruppe audacemente la sopraccarta, e guardando la firma lesse: Grolli.

— Il professore!

— Sicuro...

— Che gli sia accaduta una disgrazia?

— Or ora vedremo — continuò la signora Gertrude, e con qualche difficoltà decifrò l'intero tenore del telegramma:

«Dorotea Salsiccini, casa Negrelli. — Arrivo stasera corsa otto e mezzo. Pregola preparare minestrina in brodo e letto nel camerino attiguo alla mia stanza per bimba di quattro anni.»

— Bimba di quattro anni! — sclamò esterrefatta la signora Dorotea — Dice bimba?

— Già... bimba.

— Ah, signora Gertrude... io ritengo prossimo il finimondo...

Esposta questa opinione radicale, la signora Salsiccini volle esaminare il dispaccio coi propri occhi aiutati dagli occhiali della portinaja. Non c'era dubbio. Il professore arrivava con una fanciulla! Egli che aveva un sacro orrore delle donne e dei bambini! E chi era costei? E per quanto tempo veniva in casa?

— Il professore ha fratelli, sorelle? — domandò la signora Gertrude.

— Ma no, ma no... nessuno... ch'io sappia... In tanti anni dacchè è qui, non ho visto nelle sue camere che qualche studente... E poi... è vero che parla poco, ma pure, diamine, se avesse parenti stretti, una volta o l'altra li avrebbe nominati... Creda, signora Gertrude, sarebbe da dar la testa nei muri....

Se un così disperato proposito fosse stato espresso sul serio, il sospetto che la signora Gertrude era sul punto di manifestare non avrebbe potuto a meno di affrettarne l'adempimento.

— E se fosse una figlia tenuta finora nascosta?

La signora Dorotea scattò come una molla. — Sua figlia! Figlia del professore! Di un uomo che in fatto di femmine è un San Luigi...! Signora Gertrude, che cosa dice?

— Eh, cara signora Salsiccini — replicò la portinaja battendole sulla spalla — fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. In tempi nei quali in una sola estrazione del lotto si levano quattro numeri in fila, 66, 67, 68, 69, non c'è da stupirsi di nulla.

— Questo è vero — osservò la signora Dorotea, colpita da una così profonda riflessione. Però ella non poteva acconciarsi all'ipotesi della sua interlocutrice e riprese: — No, no... è impossibile... Quando? Come? Con chi?

La portinaja aveva in serbo un'altra considerazione non meno profonda della prima. — Signora Dorotea, non si può credere come presto facciano gli uomini ad avere una figlia.

Era evidente che la fede della signora Salsiccini era scossa. La signora Gertrude ne approfittò per continuare. — Non c'è timor di Dio, e anche il professore con le sue storte e i suoi fornelli è più del diavolo che di Cristo... Questa è la causa di tutto, cara signora Dorotea, non c'è religione... Libera nos, Domine, a morte aeterna — ella concluse, facendosi il segno della croce.

Amen! — disse la signora Dorotea. Poi soggiunse: — Figlia o no, col signor professore ce la intenderemo... Io ho appigionato le stanze a lui, e non voglio marmocchi... Ci mancherebbe altro.

— Troppo giusto — assentì la portinaja.

— Dunque la cosa resta fra noi — ripetè la signora Dorotea, quando, un po' rinfrancata, s'indusse a risalire le scale.

— S'immagini... Io non parlo sicuro.

Se la signora Gertrude parlasse, non si sa; fatto si è che la notizia della fanciulla d'ignota provenienza, la quale doveva arrivare la sera stessa col professor Grolli, si diffuse prestissimo fra gli inquilini della casa.

Il Professore Romualdo

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