Читать книгу Il Professore Romualdo - Enrico Castelnuovo - Страница 4
II.
ОглавлениеQuantunque non siasi finora accennato nemmeno di lontano all'età del dottor Romualdo, scommetterei che il lettore rimarrà di sasso sentendo che il nostro matematico e chimico non aveva, nel momento in cui comincia questa storia, che ventitrè anni. Eppure era tanto vero che egli aveva solo ventitrè anni, quanto era vero che ne mostrava poco meno di quaranta. Nulla di giovanile nel suo aspetto. Rughe precoci solcavano la sua fronte alta e spaziosa; l'incolta capigliatura e l'ispida barba erano già punteggiate di bianco; agli occhi profondi, ch'erano forse l'unica sua bellezza, mancava la fiamma; a ogni modo, essi erano quasi sempre mezzo nascosti dagli occhiali. Sorrideva di rado; di statura appena mezzana, camminava un po' curvo con le mani intrecciate dietro la schiena sotto le falde del soprabito; vestiva negletto, schivava la società e divideva la giornata fra la scuola, i suoi libri di matematica e il suo laboratorio chimico. Nessuno l'aveva mai visto a un teatro, a un pubblico ritrovo, a fianco d'una signora. Tenersi lontano dalle donne era norma immutabile della sua condotta; nè in ciò metteva affettazione, nè ostentava la sua ripugnanza come sogliono quelli che furono vittime di qualche gran disinganno. Se era proprio costretto a parlarne, diceva che, a parer suo, la donna era un imbarazzo nella vita dello studioso, e soggiungeva ingenuamente che quanto a lui non ne aveva mai sentito il bisogno. Forse era la consapevolezza della sua inferiorità fisica, della sua goffaggine, che lo rendeva così avverso al bel sesso. Noi non amiamo le cose nelle quali siamo convinti di non poter riuscire.
Del resto, al dottore Romualdo bastava la scienza. Nel 1859, quando tutta la gioventù era corsa alle armi, egli era rimasto nel suo gabinetto a studiare; il rimbombo del cannone non lo aveva commosso. Il giorno dell'ingresso delle truppe liberatrici, s'era mescolato alla folla, aveva istintivamente agitato il cappello e gridato viva anche lui; ma, al più presto possibile, s'era ridotto nelle sue stanze, e per esilararsi un poco aveva fatto alcune esperienze col gas idrogeno. L'alloggio da lui scelto si confaceva alla sua misantropia. Era una casa di quattro piani, fuori d'una porta della città, guardante da un lato la strada maestra, dagli altri tre lati la campagna. La chiamavano, dal nome del proprietario, casa Negrelli, ed era tutta abitata da gente tranquilla. Solo sul davanti c'era un po' di rumore per effetto della strada, della vicinanza della porta, e del negozio di granaglie e coloniali che occupava due locali terreni del fabbricato. Questo negozio, appartenente al signor Gedeone Albani, andava lieto di una numerosa clientela, così rustica come cittadina. Infatti parecchie buone massaje mandavano a comprar le derrate dal signor Gedeone, il quale, trovandosi col suo deposito fuori della cinta daziaria, poteva usare notevoli agevolezze nei prezzi. La prosperità degli affari del signor Albani si vedeva riflessa nella sua faccia piena e rubiconda e nel suo umore scherzevole. Le guardie del dazio consumo venivano spesso a bere un bicchierino da lui, e, grate alla sua cortesia, non badavano tanto pel sottile se la sera, nel rientrare in città dopo aver chiuso il negozio, egli portava seco qualche pane di zucchero o qualche pacco di candele steariche.
In quanto al nostro valentuomo, egli conosceva appena l'esistenza del signor Albani. Le finestre delle sue stanze davano sulla parte opposta alla strada; non gli giungeva all'orecchio altro suono che la voce dei bifolchi conducenti l'aratro, la canzone malinconica di qualche villana intenta alle cure dell'orto, il muggito dei bovi sparsi per la campagna; e, di notte, quand'egli vegliava sui libri, il gracidar delle rane e il latrar dei cani da pagliaio.
Il quartierino della signora Dorotea era composto di un andito, una cucina, quattro stanze grandi e tre gabinetti. L'andito rettangolare aveva un uscio di fronte alla porta d'ingresso, e altri due usci, uno per parte. A destra di chi entrava c'era la cucina, e dopo la cucina un bugigattolo per la donna di servizio; a sinistra una stanza detta pomposamente salotto da ricevere, e sulla stessa linea un camerino di sbarazzo. Tutti questi locali avevano le loro finestre sul ballatojo che girava intorno al cortile. L'andito solo riceveva luce dalla portiera a vetri del salotto da pranzo, il quale metteva, a destra, alla camera da letto della signora Dorotea, a sinistra, a quella del dottore Romualdo. Un gabinetto annesso a quest'ultima camera e comunicante, mercè una porticina, col luogo di sbarazzo, avrebbe dovuto servire di studio, ma in realtà il Grolli studiava nella camera da letto. Lo stanzino egli lo aveva ridotto a sue spese a uso di laboratorio chimico. Le camere della signora Dorotea e del professore, il salotto da pranzo e il laboratorio guardavano sulla campagna e avevano aria e luce in quantità.
Il professore Romualdo alloggiava in casa della vedova Salsiccini fin da quando aveva ottenuto il posto di assistente, vale a dire da circa tre anni. Nè vi alloggiava soltanto, ma aveva indotto la vedova ad assumersi anche la cura del suo mantenimento verso un modesto correspettivo. Un caffè e latte la mattina, un parco desinare al tocco, un pezzo di formaggio e un dito di vino la sera; il professore non esigeva di più. In tutto, fra alloggio e vitto, egli non ispendeva che centoventi lire al mese, una vera miseria. Così, a malgrado di quello ch'egli doveva aggiungere per vestirsi, per comperar qualche libro, per rifornir di storte e di lambicchi il suo laboratorio, gli riusciva ancora di far piccoli risparmi sul non lauto stipendio di assistente, e di avere un migliaio e mezzo di franchi raccolti presso una Banca del paese. Lo dicevano avaro, ma in realtà non era; la sua economia dipendeva dalla mancanza assoluta di bisogni. All'occorrenza sapeva fare perfino le sue spese di lusso, e non era altro che un lusso il suo laboratorio, poichè egli avrebbe potuto benissimo levarsi all'Università il capriccio delle esperienze chimiche.
Nonostante la sua misantropia, il Grolli non era mal visto dalla gioventù. In primo luogo si doveva stimarlo pel suo valore scientifico. Il professore di cui egli era assistente godeva una fama europea, ma, attempato e malaticcio come era, non veniva mai alla scuola. Ebbene; la riputazione della Facoltà matematica dell'Università non aveva punto sofferto dacchè il Grolli saliva ogni giorno la cattedra resa già illustre dal titolare. Altro pregio universalmente riconosciuto del dottor Romualdo era la sua scrupolosa equità; onde gli studenti dicevano: — Meglio la ruvidezza del professor Grolli che la melliflua condiscendenza di tanti altri. Almeno il professor Grolli non ha predilezioni.
Inoltre tutti sapevano che la sua adolescenza era stata piena di amarezze, che, rimasto a quindici anni orfano e senz'appoggio, aveva bastato a sè stesso dando ripetizione ai suoi condiscepoli, e che s'egli era riuscito a conseguir giovanissimo un posto onorevole nonostante la sua indole poco flessibile e la mancanza di tutte le doti esteriori, egli non lo dovea a nessun patrocinio illustre, ma soltanto al suo merito e alla sua perseveranza. Com'egli aveva studiato, come studiava sempre! Studiava al tavolino, studiava camminando, certo studiava anche dormendo. Le allegre brigate degli scolari lo incontravano talvolta sui bastioni, ed egli appena si accorgeva di loro, tanto era assorto nei suoi pensieri. — Zitto! — bisbigliava un bello spirito all'orecchio dei compagni — il professore Grolli è con la sua amante. — La sua amante! — esclamava un ingenuo matricolino, aprendo tanto d'orecchi. — Già, la sua amante, la matematica. — E tutti a ridere e a dirsi — In fatto d'amanti, valgon meglio le nostre. — No, no — ripigliava misteriosamente qualche cattivo soggetto. — La vera amante del professore la conosco io. — Un'amante in carne ed ossa? — Sicuro. Finirà collo sposarla. La sua padrona di casa. — E nuovi scrosci di risa sgangherate tenevano dietro alla insulsa facezia.
La signora Dorotea, come si vede, era conosciuta dalla scolaresca. Chi si recava dal professor Grolli la trovava spesso in salotto seduta davanti al tavolino con la calza in mano e gli occhiali sul naso, e doveva assoggettarsi da parte di lei ad un succoso interrogatorio, modellato sempre sul medesimo stampo.
— Di chi domanda?
— Del professor Grolli.
— È uno studente?
— Sissignore.
— Vada pure avanti.
Non passava poi giorno che la signora Salsiccini non comparisse a due o tre riprese nelle strade della città; la mattina per la spesa, il dopopranzo per le visite, senza contar le volte ch'ella andava a desinare da qualche famiglia amica. A malgrado de' suoi cinquantacinque anni, ella camminava svelta e spedita, dimenando alquanto i fianchi e rassettandosi di tratto in tratto la mantellina che le scivolava giù ora da una spalla, ora dall'altra. Portava per solito un vestito bigio di lana e un cappello di paglia scura con tese sporgenti, con due barbine di fioretti artificiali, e con un velo celeste sul davanti, sotto al quale la buona vedova passava frequentemente il fazzoletto per soffiarsi il naso con gran romore.
— Ecco la trombetta dei bersaglieri — esclamò una mattina uno studente di prim'anno, sentendo quel suono e vedendo quel passo marziale.
— Questi studenti — disse la signora Dorotea — si prendono libertà anche con le femmine più contegnose.
Del resto, la signora Salsiccini, quantunque fosse un po' pettegola, quantunque avesse la passione del lotto, era una eccellente pasta di donna. Pel professore aveva cure materne, ed ella lo avrebbe giudicato un uomo perfetto se fosse stato più espansivo con lei e le avesse concesso di metter lingua nelle sue faccende. Nondimeno ella lo aveva sempre difeso e aveva sempre levato a cielo l'illibatezza de' suoi costumi. Guai a lui s'egli le faceva far cattiva figura, guai a lui se tanto apparato di virtù veniva a risolversi in una figliuola clandestina!