Читать книгу Il Professore Romualdo - Enrico Castelnuovo - Страница 6

IV.

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«Fratello mio, — diceva quell'epistola — sono quasi dodici anni dacchè, figlia disobbediente e cattiva sorella, io lasciai il tetto domestico, ove avrei dovuto confortare la vecchiezza del babbo ed essere per te una seconda madre. Una passione infelice mi acciecò. Seguii oltre l'Oceano l'uomo che mi aveva ammaliata, e dopo essere rimasta senza risposta a due lettere scritte a nostro padre, non volli ritentare la prova; considerai che tutta la mia famiglia avesse cessato di esistere per me. Ero superba, Romualdo; mi pareva di esser trattata in modo indegno, e il mio cuore s'indurì nel dispetto e nell'ostinazione. Per altro, da un'amica mia io ricevevo di tratto in tratto nuove di casa, e da lei seppi della morte di nostro padre. Piansi, mi strappai i capelli, mi accusai di avere con la mia condotta abbreviato i giorni di quegli a cui dovevo la vita, e scrissi a te, fratello mio, a te che avevo cullato tante volte su' miei ginocchi, a te cui avevo insegnato a balbettare le prime parole. Ma certo tu mi credevi una triste donna, e la voce della tua sorella non ebbe un'eco nel tuo cuore. Aspettai per mesi e mesi una tua lettera intenerendomi all'idea di riceverla, sperando di poter iniziar teco attraverso l'Oceano uno scambio di assidue corrispondenze. Io dicevo: egli mi racconterà i suoi studi, mi racconterà i suoi primi successi; perchè io ti sapevo pieno d'ingegno, e non dubitavo che saresti riuscito; mi racconterà i suoi primi amori, e quando amerà anche lui, oh allora, ne son certa, mi perdonerà... Ma la tua risposta non venne, e l'orgoglio mi vinse di nuovo, e mi chiusi nel mio silenzio, che durò fino adesso. L'amica che mi teneva informata delle cose della mia famiglia, o è morta anch'essa, o si stancò di scrivermi. È proprio vero, sai, quel proverbio: lontan dagli occhi, lontan dal cuore. Per anni ed anni non seppi nulla di te. A malgrado che vi sia una continua emigrazione dall'Italia a queste contrade, dal nostro paese non è mai capitato nessuno. Finalmente arrivò qui, or son dieci mesi, certo Zirlo, della Spezia, che non ti conosceva di persona, ma che ti aveva sentito nominare perchè un suo nipote aveva studiato in codesta Università. Avevi dunque seguìto la tua vocazione, eri divenuto professore. Lo dicevano sempre in casa, a vederti immerso nei libri, alieno dai divertimenti, dai chiassi. Ma io volevo notizie più precise, e ottenni che il signor Zirlo scrivesse al nipote a questo scopo, raccomandandogli però (vedi come il mio orgoglio fa sempre capolino) di non farti saper nulla dell'incarico ch'egli aveva avuto. Il giovane rispose diffusamente, parlando della stima di cui godi, della certezza che hai di succedere in un termine non troppo lungo al professore titolare, dalle tue abitudini ritiratissime, della gravità del tuo carattere. Benedetto ragazzo! Sempre misantropo, fin da fanciullo! Dal giorno in cui ebbi queste informazioni fui più tranquilla. Non ti scrissi però; mi bastava saperti vivo, sano, onorato. Pensavo bensì che ti avrei scritto se si avverava un mio presentimento.

«Questo mio presentimento sta per avverarsi. Io avrò presto fornito il mio cammino nel mondo, o fratello, e oggi stesso il medico, ch'io supplicai di dirmi la verità, mi confessò che non ho più che otto o dieci giorni da vivere. Grazie al cielo, la mia energia non mi abbandona nemmeno in quest'ultima prova. Bensì mi abbandona il mio orgoglio, e ti mando un tenero addio e ti chiedo perdono di esserti stata una cattiva sorella come fui una cattiva figlia ai nostri genitori, e ti prego di cosa che confido non mi sarà negata da te.

«Ascoltami. Non t'intratterrò sulle vicende di quest'ultimi anni. Ho profuso tesori d'affetto su chi forse non n'era degno, ma che importa quando si ama? Saprai a ogni modo ch'egli mi aveva sposata pochi mesi dopo il nostro arrivo qui, nel momento in cui ci nacque il primo figliuolo. No, egli non era senza cuore; egli non voleva, dopo aver disonorata una donna, abbandonarla; ma le avversità esacerbarono il suo carattere naturalmente sospettoso, iracondo, e resero ben dura, ben difficile la vita al suo fianco. Peggio poi quando vennero a travagliarlo le sofferenze fisiche, e il suo corpo che pareva di granito andò via via dissolvendosi come la cera al fuoco. Rimasi vedova, povera, senz'appoggi, con tre bambini a cui provvedere. Non mi perdetti d'animo, lottai contro tutti gli ostacoli, non isdegnai nessuna onesta fatica, apersi un piccolo albergo ch'ebbe prospere sorti, e riuscii, io donna debole e già cagionevole di salute, a ricondurre un po' d'agiatezza nella mia casa. Ma la sventura aveva preso a perseguitarmi. La febbre gialla mi portò via due de' miei figli; non mi rimase che la mia Gilda, la mia ultima nata. Lo vedi, ha il nome di nostra madre. E intanto il male che mi rodeva da gran tempo le viscere fece progressi rapidi, spaventevoli; invecchiai in pochi mesi più che non avessi invecchiato in dieci anni. Vedendo nello specchio le mie guance smunte, il mio colorito terreo, i miei occhi appannati, io non mi feci illusioni sul mio stato; pur lavorai ugualmente, finchè potei reggermi in piedi. Da un mese non esco dalla mia camera, da due settimane non lascio il letto. Oggi, te lo dissi già, so che vivrò ancora pochi giorni. Oh non è triste morire, ma è triste non poter più rivedere i cari volti delle persone amate, è triste non poter risalutare una volta la patria. E, per una madre, è triste sovra ogni altra cosa il dover lasciare una bimba di non ancora quattr'anni, senza sapere chi veglierà sulla sua infanzia, chi formerà il suo cuore e la sua mente. Qui ci sono molti italiani, e non sarebbe impossibile di trovar fra essi qualche anima generosa, ma siamo in paesi ove gli uomini vengono e passano; dall'oggi al domani la fortuna può balzarli in qualche fattoria lontana centinaia e centinaia di miglia, sul margine d'una foresta vergine, a poche ore dagli accampamenti di popolazioni selvagge che anelano di vendicarsi di ciò che noi europei facciamo loro soffrire. Poi la sete del guadagno sciupa i migliori caratteri; non si parla d'altro, non si pensa ad altro. Sì, forse nelle tiepide sere, sotto l'imponente padiglione azzurro di questo cielo, stanchi dalle fatiche del giorno, si pensa talvolta al luogo che ci ha visti nascere, all'orizzonte che i nostri occhi hanno contemplato schiudendosi alla luce, alle voci che ci sono prime suonate all'orecchio. E queste memorie tristi e soavi sono ancora la maggior ricchezza morale che ci rimanga. Ma chi è nato qui di genitori europei è un esule che non può ricordarsi la patria. Poichè qui si è esuli sempre, anche quando ci si nasce... E tale sarebbe la condizione della mia Gilda, se ella restasse in America... O Romualdo, questo pensiero è più acerbo di tutti i miei dolori fisici! Aggiungi poi che il poco denaro ch'io posso lasciare a mia figlia, sufficiente per mantenerla alcuni anni in Europa, sarebbe qui esaurito in brevissimo tempo.

«Presi un partito decisivo, confortatavi anche dal consiglio e dalle offerte di un amico onesto e leale, il capitano Antonio Rodomiti, il quale, dacchè io mi trovo a Montevideo, fu qui più volte col suo legno, e nel suo penultimo viaggio tenne a battesimo la Gilda. Vistami ora in tante angustie e già spacciata dai medici, egli ebbe compassione di me. Ecco ciò che risolsi. Rimandare in Europa la fanciulla, approfittando della partenza per Genova del suo padrino, il quale se ne incarica come d'una sua creatura e non vuole un centesimo di compenso, vendere tutto il poco che ho e formare un peculio che accompagni la mia Gilda e le permetta di non essere a carico di nessuno durante il tempo della sua educazione; finalmente nominar te, fratello mio, tutore di questa orfanella, e raccomandartela, e scongiurarti, quando tu non possa (nè io certo lo pretendo) tenerla in casa tua, di metterla a pensione presso gente fidata, e di invigilare sopra di lei sino al giorno in cui ella sarà in grado di provvedere a sè stessa. No, tu non mi negherai questa grazia. La mia Gilda non deve turbare la quiete dei tuoi studi, ella non deve essere per te un peso o un ostacolo se tu hai già una famiglia, o se stai per averla. Ma io morrò più tranquilla pensando che uno di casa mia la sovverrà di consiglio ov'ella ne abbia bisogno, accorrerà al suo letto ov'ella sia malata... e le parlerà qualche volta di nostra madre. Oh sì, di me non importa che tu le parli, Romualdo; io non le lascio esempi da imitare, ma conviene ch'ella onori la memoria di nostra madre, di quell'angiolo che ci abbandonò mentre tu eri fanciullo ed io entravo appena nell'adolescenza, di quell'angelo, che, se fosse vissuto, mi avrebbe forse guarita delle mie pazzie...

«In questa lettera troverai alcuni documenti che potrebbero esserti necessari: il mio atto di matrimonio, l'atto di morte di mio marito, la fede di nascita della Gilda.

«Il capitano Rodomiti ha tutta la somma ch'io ricavai dalla vendita di ciò che possedevo. Egli ne sa la cifra precisa, ed ha l'incarico di convertirla in moneta italiana e di consegnartela. Credo si tratterà di una decina di mila lire. Puoi fidarti ciecamente del capitano. Per me ho serbato solo quel tanto che può bastare pei pochi giorni che mi restano da vivere. Lo stesso Rodomiti portò seco anche una cassa con alcuni vestiti per la Gilda e quanta più biancheria ho potuto radunare. Ti mando infine un medaglione d'oro, che la mamma, morendo, mi pose al collo e che non mi ha mai abbandonata. È inutile ch'io lo porti meco sotterra. Tienlo per memoria della tua sorella? Te ne ricordi della tua sorella? Di quando amavi arrampicarti sulle mie spalle, e gettandomi le braccia intorno al collo, insistevi perchè ti portassi in giro per le stanze? O di quando, più tardi, già in via di diventare un dottore, sebbene così piccino, mi sgridavi perchè con le mie chiacchiere disturbavo le tue lezioni?... Chi l'avrebbe detto allora che, poco tempo dopo, l'Oceano ci avrebbe divisi per sempre?... Capricci dei destino!... Ah se potessi, prima di chiudere gli occhi, vederti in mezzo ai tuoi scolari!... Ma è inutile far castelli in aria.

«Lascerò l'ordine che ti mandino una copia del mio atto di morte. Voglio che tu abbia tutte le carte in regola, che nessuno possa sollevare dubbi sulle tue facoltà di tutore.

«Basta ormai, fratello mio, sono stanca, e le poche forze che mi rimangono ho bisogno di serbarle pel momento terribile del mio distacco dalla Gilda. Pochi giorni prima o pochi giorni dopo, tanto e tanto io debbo presto lasciarla, e per lei è certo meglio separarsi dalla sua mamma oggi, che assistere a una dolorosa agonia; ma non si ragiona sempre, e allorchè saremo all'ultimo bacio, ho paura che il cuore mi scoppi. Povera Gilda! La vedrai. È bella come un angioletto; è un po' viva, ma giudiziosa, buona, e mi vuol tanto bene. Oh ne vorrà anche a te, ne sono sicura... Le dissi che deve andar via per qualche giorno col capitano Rodomiti, e quantunque ella adesso strepiti e pianga, spero che finirà col rassegnarsi perchè il capitano ha saputo trovar la strada del suo cuoricino. E poi ella si affeziona ben presto a quelli che sono gentili con lei.

«Addio, Romualdo. Sono in procinto di comparire davanti al Signore, e ho fede ch'egli mi perdonerà le mie colpe perchè ho molto sofferto. E tu pure mostra di perdonarmi accogliendo il tesoro che ti affido. Quando questo foglio giungerà nelle tue mani, io non sarò più tra i vivi, ma chi sa, forse in quell'istante la tua sorella ti sarà più vicina che non ti sia mai stata da undici anni a questa parte, forse, passandoti accanto, spirito leggero e fuggitivo, ella deporrà un bacio sulla tua fronte. Ancora una volta addio, Romualdo.

«La tua Elena.»

Il Professore Romualdo

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