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VI.

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Donna Cecilia aveva ora un grande quartiere nel palazzo Bellavia, con ogni sorta di comodità e una disposizione invidiabile; è vero che dalla parte del cortile venivano ancora le esalazioni della stalla, ma non le davano più fastidio perchè erano quelle dei cavalli suoi proprii.

Tutta la giornata le bastava appena per occuparsi dei suoi affari, che richiedevano una vigilanza continua; la sera, qualche volta, andava dalla principessa. Questa, ora che sapeva donna Cecilia ricca, pretendeva che anche lei facesse la partita.

— Andiamo, non esser tanto avara! Cosa vuoi farne dei tuoi quattrini?

Era come dire al muro. Se qualche volta donna Cecilia, trovandosi di buon umore, arrischiava una lira, sia che vincesse o perdesse lasciava subito il suo posto.

La principessa non poteva tollerar questo: se la vedeva perdere le offriva insistentemente la rivincita, se la vedeva vincere diventava intrattabile.

— Non è modo, lasciare il giuoco quando gli altri perdono!

— Piglia l'amico tuo col vizio suo! — sentenziava donna Cecilia. — Cara mia, dopo aver giuocato, bisogna bene che io restituisca i denari a chi me li ha prestati.

— A chi?

— Alla tasca!

La principessa finiva per irritarsi sordamente contro donna Cecilia; la loro amicizia si raffreddava.

— Guardate che aria! Come se quella fortuna fosse opera propria! Che ci ha messo lei, del suo?

Per questo donna Cecilia preferiva venire al palazzo Roccasciano quando c'era molta gente, e si poteva passar la serata altrimenti che a guardare le faccie gialle dei giuocatori intorno al tavolo verde. Ora non la lasciavano più sola, in un angolo, come quand'era povera; avea invece sempre qualcuno attorno, a dirle delle cortesie, a occuparsi premurosamente di lei, sperando di strapparle qualche cosa, un pranzo, una passeggiata in carrozza.

Le Valdieri, colle vesti di due anni fa e i guanti lavati, continuavano a citare la parentela: «Mio zio il principe!... mia cugina la duchessa!...» e sospiravano a ogni annunzio di matrimonio.

— Aria e tupè, ma denari non ce n'è! — borbottava donna Cecilia.

Il cavaliere Fornari, ridotto a non potersi più muovere, minacciato di morire col grasso al cuore, veniva a buttarsi pesantemente sul divano, facendo gemerne le molle, ricominciando le sue eterne geremiadi sui cucinieri che gli rovinavano la salute.

— È una disdetta! Tutti guatteri, signora, mi creda: tutti guatteri infami.

La Giordano, dopo un lungo manovrare, appena la vedeva sola, andava a mettersele al fianco, per chiederle se il tale era nobile o se il tal'altro apparteneva a una famiglia distinta. Dall'altro lato del salone Giorgio Furleo e la signorina Marco giuocavano ancora in società, come cinque anni prima, lui aspettando sempre la promozione: e se la pigliavano con la sorte! Si vedeva ancora quel giovanotto Mordina che non si sapeva bene come non fosse ancora morto, tanto era malandato — e andava raccomandandosi alla gente, in cerca di un posto da lavorare! Da parte sua il barone de Fiorio portava in giro la sua inconsolabile malinconia, dopo che la moglie lo aveva piantato pel barbiere.

— Povero diavolo! Un vero cane senza padrone! — Tutti lo compiangevano.

— Chi d'un asino ne fa un mulo, il primo calcio è il suo! — rispondeva donna Cecilia, alzando le spalle — Perchè ha sposato una tabaccaia?

E il pretore Restivi smaniava ancora per non trovare riposo sulla poltrona ammaccata, invece di andare a dormire a casa, e i giuocatori si lagnavano sempre di perdere: la principessa che si lasciava rubare, padre Agatino che si rovinava con la ganza, il marchese che sentenziava: «Gli zolfi sono finiti; non ci sono altro che gli olii; io ho piantato un oliveto!»

Poi, come all'annunzio di un grosso terno vinto dal Fornari, che era straricco, la principessa esclamava:

— A chi sorte e a chi sporte!

— La sorte è di chi se la fa — rispose donna Cecilia, indispettita.

La sorte

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