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IV.

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Tornata in città, la principessa trovava che la villeggiatura le era costata un po' cara. Allora rinnovava i propositi di mutar vita, di non giuocar più, di non ricevere più nessuno, tranne qualche amico, gl'intimi, quelli che non avrebbe assolutamente potuto mandar via. Poichè faceva caldo, la sera veniva infatti poca gente; il cavaliere Fornari, padre Agatino, il professore, il pretore Restivi, il marchese e qualcun altro, tanto da combinare un piccolo tavolino di bazzica, a cinque lire la partita, per ammazzare un'oretta.

Il cavaliere Fornari, più ingrassato di prima, aveva sempre una sete inestinguibile, e ad ogni ripresa del giuoco tracannava enormi bicchieri d'acqua ghiacciata, soffiando, sudando come un orciuolo, ripigliando le sue eterne lamentazioni:

— Lasciatemi stare! Ho dovuto mandar via quell'infame del cuoco che mi avvelenava. Non è più possibile trovare chi vi sappia scaldar due fila di vermicelli: o crudi o disfatti, o insipidi o in salamoia!...

Il dottore veniva al suo solito a portar notizie.

— Don Camillo Morlieri è in fin di vita.

— Davvero? Donna Cecilia dovrà esserne molto angustiata!

— Don Camillo ha una bella fortuna!

— Aveva — correggeva il marchese. — Sono vigne, e il vino è per terra. Non vi è che lo zolfo, ora. Chi ha zolfare è ricco.

— Hanno figliuoli? — chiedeva il professore Quartini.

— Che!... di dove cascate? — gli davano sulla voce. — Non sapete che si sono divisi il domani del matrimonio?

— Una testa famosa, quella donna!

La principessa faceva un segno d'assentimento:

— Non ne parlate!

— Don Camillo non vuol lasciarle neanche un soldo; non è vero, pretore?

Il pretore Restivi, sentendosi chiamare, borbottava qualche parola senza senso, e riappoggiava la testa dall'altro lato della poltrona.

— Non si può avere un momento di quiete!

I veri tormenti ricominciavano per lui al sopravvenire dell'inverno e, con esso, della solita folla che la principessa, malgrado i suoi giuramenti, tornava ad accogliere. Con tutte le sale illuminate e piene di gente, non era più possibile trovare un posto dove non esser molestati, e il pretore invidiava il cameriere che, sul lucido cassettone dell'anticamera, sonnacchiava tranquillamente. Egli finiva col pigliar sonno in mezzo al frastuono delle conversazioni, che cessava come per incanto in una silenziosa risata ai primi accordi del suo profondo russare.

Donna Cecilia era spesso della compagnia. Suo marito non aveva voluto morire neanche quella volta, ed ella se ne stava in un angolo a sentire i lamenti dei giuocatori, o le accuse che tutta quella gente, per un verso o per un altro, rivolgeva alla fortuna. Lei non diceva nulla, non si lagnava della sua miseria, arrischiava due soldi al giuoco, e salutava ogni volta con un senso di sodisfazione le sue stanzette dalle vôlte basse come un mezzanino, dalle imposte tarlate, dalle finestre anguste sporgenti sulla corte, esposte alle esalazioni della stalla del proprietario. E prima di andare a letto, ogni sera, apriva il cassetto secreto del suo vecchio armadio a forma di lira, ne traeva il portafogli riposto nell'angolo più profondo e cavava con mano tremante una carta gualcita, dai caratteri ingialliti dal tempo. «Lascio ogni mio avere, tutto incluso e nulla escluso, alla mia cara moglie Cecilia Morlieri Spadafora. — Camillo Morlieri.» E come il rigo seguente portava la data, 16 Gennaio 1845, donna Cecilia faceva il conto che, essendo passati quarant'anni dall'unico giorno del suo matrimonio, non aveva da aspettare ancor molto. Quanto al caso che suo marito avesse a lasciare un altro testamento, lei non ci pensava neppure.

— Conosco quel che vale! Non ne farà.

La sorte

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